"Musica dal morto". Un titolo abbastanza macabro, soprattutto se pensiamo che il disco precedente di Vipra si chiamava "Simpatico, solare, in cerca di amicizie". Ma in due anni possono cambiare un sacco di cose, e basta premere play per rendersene conto: ora Vipra urla su di un post punk furibondo, super distorto, al punto che il sound a cui ci avevano abituato gli Inude, la sua band di supporto, ne esce completamente stravolto.
La tracklist non è da meno. Ogni brano è accompagnato da un musicista famoso scomparso: si va da Mia Martini a Dimebag Darrell dei Pantera, da Mark Sandman dei Morphine a Mango, fino a Adam Yauch dei Beastie Boys e Mango. Personaggi completamente diversi l'uno dall'altro, ma tutti parte di un mondo malato come quello della discografia (a proposito di cose che, invece non sembrano cambiare mai se non in peggio), di cui Vipra si serve perché il suo grido di denuncia possa un minimo penetrare la corazza del carrozzone settimanale delle uscite discografiche. In attesa di sentirlo dal vivo al MI AMI a fine maggio, gli abbiamo chiesto di raccontarci cosa ha di marcio, secondo lui, la musica italiana.
La musica italiana ha due problemi: una distribuzione iniqua del bene più prezioso che gli artisti abbiano, cioè l’attenzione del pubblico, e la concentrazione di questo bene nelle mani di pochissimi soggetti. Questo fenomeno, che ha già colpito settori diversi negli anni, è deleterio non solo perché restringe la quantità di persone che possono vivere trattando la musica come un lavoro dignitoso (a vantaggio di altri che accumulano somme assurde) ma anche perché la musica, come il cinema o la stampa, contribuisce a formare la cultura di un Paese.
Questa attenzione ai numeri e la conseguente dinamica monopolistica è stata portata dalla stessa cosa in altri settori: il denaro. È successo col cinema, che si è trasformato in un’industria sempre più sterile in cui sono state annientate (o almeno “addomesticate” e ridotte) le avanguardie, le sperimentazioni, la vitalità, in favore di una produzione che liscia il pelo al pubblico per rassicurarlo quanto più possibile. I soldi non possono essere l’unico indicatore per valutare qualcosa come l’arte, ma tant’è. Per me non dovrebbero proprio essere l’indicatore di nulla, ma immagino sia un discorso a parte.
Penso che la “finanziarizzazione” della musica sia stato un grosso errore, ma poi mi guardo intorno e vedo che la gente è contenta perché si fattura di più, perché si vende di più, perché “all’estero ci ascoltano” (cosa opinabile), quindi magari non frega a nessuno di quella grande quantità di creatori, ma anche musicisti, tecnici e altre figure professionali che a questa festa collettiva non partecipano. Nel momento in cui agli artisti e alla loro musica è permesso di uscire dall’ombra solo grazie all’intervento dei pochi soggetti che detengono l’attenzione del pubblico, è normale che ci si debba “uniformare” a uno standard.
L’industria dei live ha già fatto una scelta. Se, dopo la pandemia, la morte dei piccoli festival e dei live club non ha scatenato quasi nessuna reazione, né di solidarietà né di “ricostruzione”, vuol dire che a chi detiene il potere in questo settore sta bene che l’esposizione sia l’esclusiva di una piccola percentuale di artisti, e che per il resto vengano garantiti solo giganteschi tritacarne mascherati da talent, eventi televisivi e poco altro. Soprattutto significa che al pubblico non interessa minimamente, ma del resto ci sono cose ben più gravi che non suscitano alcuna reazione.
E se non esistono più i live club ma solo le piattaforme streaming, se non esistono i piccoli festival ma solo i talent, la musica non è più incontro ma vetrina, è corsa al primo premio in cui tutti gareggiano con le stesse regole ma con mezzi e possibilità diverse. Penso che per rintracciare le origini - anche quelle più recenti - del successo come unico motore di “salvezza sociale” servirebbero una serie di libri e manuali di economia. È pericolosa perché piuttosto che uno sforzo collettivo per la reciproca serenità mette le persone nell’ordine di idee per cui è giusto che ci siano dei vincitori e degli sconfitti, e che si debba fare di tutto per essere nel primo gruppo. Si basa sull’idea - per me assurda - che non esista la collettività ma esistano gli individui, quando invece è evidente che dal momento stesso in cui nasciamo non potremmo fare né essere nulla senza l’aiuto del prossimo.
Il problema della musica italiana è stato questo: quando da una convivenza tra mainstream e underground, due dimensioni con la propria dignità che talvolta si contaminavano a vicenda, il mercato si è messo a gestire anche quella parte più caotica, spontanea e in definitiva innovativa della musica, inglobandola e snaturandola. Se i soldi fossero l’unico indicatore affidabile di benessere di un comparto sociale, allora dovremmo dire che anche la mafia sta benissimo.
Stare fuori da questo meccanismo è possibile esattamente quanto ritirarsi da soli o in una piccola comunità e vivere in modo sostenibile secondo ritmi non disumani: poco, e comunque mantenendo la consapevolezza che fuori dalla propria bolla si continua a distruggere, impoverire, produrre senza sosta. Si tratta di qualcosa anche facile a farsi, ma non è semplice per tutti sostenere a lungo il prezzo dell’isolamento dalla grande vetrina luminosa in cui vive il resto del mondo.
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L'articolo La musica italiana deve morire di Vipra è apparso su Rockit.it il 2023-04-17 10:30:00
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