VIRUS,
dava l'immagine di espansione,
di dilagare la nostra storia e,
il nostro voler vivere contro lo Stato.
Elena Ferrarese
(Riflessa in uno specchio, 2018)
Potrebbe essere il solito rito che si celebra, talvolta, persino con un pizzico di noia. Il libro messo da parte dopo una (più o meno) attenta lettura, il foglio bianco ancora senza nome sopra lo schermo da riempire, con l'ennesima recensione dell'ennesimo libro sulla celebratissima “scena punk” nostrana. Potrebbe, non fosse che, mentre mi appresto a scrivere qualche riga sull'ottimo Virus - il punk è rumore 1982-1989 di Marco Teatro e Giacomo Spazio (Goodfellas), è in atto lo sgombero del CSO Terra di Nessuno di Genova. Le cronache parlano di un piccolo manipolo di temerari all'interno e ancora qualcuno sul tetto che urla di andar via. Le forze dell'ordine circondano tutto, bloccano il passaggio e fermano chiunque provi ad avvicinarsi. Sembra un estratto da Q di Luther Blissett, ma in verità è solo un venerdì, all'ora di pranzo, al quartiere Lagaccio.
Una manciata d'anni fa là ci vidi i MDC, ma so chi lì dentro ha visto gli Anthrax UK, i Trap Them o uno dei primi concerti dei Sangue. Allora mi torna in mente subito una vecchia intervista fatta a Marco Philopat, che del Virus fu tra i fondatori, quando alla domanda se il mitico CSO di Milano cessò di esistere più per la morte degli ideali punk o per problemi di tipo organizzativo legati al problema della droga, rispose inappuntabile: “Né l'uno né l'altro. Il Virus ha chiuso perché ci ha sgomberato la polizia nel '84, pure se era una cosa enorme e parecchio bella. Infatti, subito dopo una massa è ricaduta nella tossicodipendenza non avendo più un luogo dove andare, in cui dormire, o incontrarsi o far semplicemente altro”.
Per capire l'importanza del Virus basti dire che quando i CCCP – Fedeli alla Linea pubblicarono il loro primo 7” per la bolognese Attack Punk Records (Ortodossia, 1984), sconquassando così mezza Italia, per i ragazzi del collettivo si trattava di una vecchia conoscenza, per via di una demo che gli aveva procurato qualche mese prima una data proprio nel già ben avviato covo punk meneghino. Le cronache dicono che si trattò addirittura di un concerto di Capodanno, in cui l'età media non superava i vent'anni – come di solito si sente dire nei vari documentari che parlano di punk ma dall'altro lato dell'oceano – e il live degenerò presto in una rissa, con lanci di insulti e cibo vario sul palco e viceversa, dettata soprattutto da una diversa concezione dell'etimo “punk” sia in senso stretto, insomma suonato, che come ideale di vita.
Da un lato i CCCP all'inizio di un'immediata e folgorante notorietà, con tutti gli annessi del caso, dall'altro un manipolo di anarchici idealisti che già anni prima stampava uno spassoso quanto formalmente inattaccabile j'accuse contro gli Exploited (mica i Clash...) per via di un loro concerto al Rolling Stone, dove li accusavano di falsità, poserismo e speculazione sugli ideali punk. Insomma, come adesso, ma nel 1982. Ma se pensate a una versione demodè delle moderne querelle sui social che non servono a nulla siete fuori strada: una settimana dopo gli inglesi suonarono proprio al Virus per farsi “perdonare”. La stessa cosa sarebbe successa l'anno dopo ai Black Flag, seppur il gruppo di Greg Ginn nell'era Rollins non se ne curò e proseguì il tour.
Per i ragazzi del Virus il punk era in primo luogo “ANTI” e in sé creava e promuoveva controcultura. E, come tutte le controculture che lo avevano preceduto, negava il prodotto e incoraggiava a una visione artistica e politica della vita che rifiutasse la notorietà e il successo come fini ultimi di ciò che si faceva. “Per questo visse sempre in uno stato di estrema precarietà tra una vita da perenne sconfitto in periferia e un avvicinamento verso i salotti del centro: per i punk del Virus i soldi erano pericolosi quanto l'eroina”, ammise dieci anni fa Philopat. E quando chiedo a Marco Teatro come vivono il dato di fatto che molti di loro ora sono opinionisti, imprenditori, fotografi, artisti, che magari col punk ci campano ma di sicuro non fanno più punk in senso stretto da una vita, lui divertito mi risponde: “Io, io! Io sono proprio tutto ciò che hai elencato, anche se non ho mai campato di punk, anzi, semplicemente ho perso per strada le borchie come si perdono i capelli. Ma nel mio agire e pensare lo spirito non si è mai dissolto, agendo con coerenza nulla è cambiato veramente”.
Ecco perché questo libro lascia desumere come i ragazzi del Virus fossero più legati a un gruppo come i RAF Punk. Formato per metà da donne con una visione emozionale e fortemente intransigente sia nei testi che nell'agire, tanto da cantare: “Sarò anche pacifista ma... stavolta me la pagate!”, nella raccolta Schiavi nella città più libera del mondo. E poco gli interessava se il sound non ere pulito e strutturato come era quello dei CCCP. La band replicava: “Le critiche sulla nostra scarsa abilità tecnica sono completamente fuori luogo e non scalfiscono né diminuiscono minimamente la disperata rabbia che ci ha spinti a decidere di suonare”, leggo da un volantino battuto a macchina nel 1984. Marco oggi commenta: “Farsi accettare? In realtà ci abbiamo messo parecchio ad accettare NOI la società e poi farcene una ragione”.
Virus – 1982 1989, che non a caso ha come specifica “Il Punk è rumore”, è frutto della collaborazione di almeno dieci persone, tra cui ricordo, a braccio, oltre il già citato Marco Philopat, Cristina Xina della distro della Virus Diffusioni, il negozio che avevano occupato in Via Orti in un palazzo una volta abitato da ex Partigiani; Elena Ferrarese, batteria delle Antigenesi, nate proprio al Virus nel 1982; Paoletta Nevrosi; Federico Salsano dei Pression X; Joykix del culto totale Hydra Mentale, fanzine tra mitico e leggendario di cui oggi si conosce soltanto il logo e la copertina del primo numero - una veduta industriale in stile di Factory, con nebbia e cielo grigio; Leleprox, al secolo Lele Di Stasio, pioniere rap e rave con basi nel hardcore. Assente Stiv Rottame di T.V.O.R., di cui invece ricordo varie foto da giovanissimo proprio al Virus. Si sono ritrovati tutti in pista, per così dire, per fare un rammendo collettivo della memoria, e lo si è reso poi pubblico.
Confesso che, in prima battuta, sfogliandolo, il lavoro di Marco Teatro e Giacomo Spazio mi è parso quello di due che hanno a disposizione del materiale sì straordinario e forse unico nel suo genere, ma imbrogliato come una matassa dopo che ci ha giocato un gatto per trent'anni. Invece, abbracciandoli e prendendo confidenza con il loro progetto, di pezzetto in pezzetto, di lettura in lettura, di sbirciata in sbirciata, di visione notturna in visione notturna – perché, nonostante la mole, è un libro che può fare compagnia ovunque – ho capito di non trovarmi di fronte a due pazzi in preda alle loro visioni. Piuttosto è una raccolta in b/n che racconta il contagio del Virus attraverso grafiche, poster, manifesti e ancora patchwork, poesie, testi, interviste, articoli ciclostilati o scritti a mano da cui esce un quadro musical-antropologico dove da un lato c'è tutto quel mondo a base di Wretched, Negazione, Nabat, Impact, Disorder, Indigesti, CCM, Rudimentary Peni, Amebix e/o Ignition, dall'altro si combattono droga e nucleare, si fa antimilitarismo e antifascismo militante, si dibatte sulle gerarchie sociali, sul femminismo e sulla violenza sessuale in generale.
“Era diventato un punto di incontro dei punk di tutto il mondo e noi eravamo l’unica band di sole donne", disse una volta Elena Ferrarese. "Purtroppo, anche all’interno del punk c'era questo maschilismo di base, che a noi non stava bene. Questi punk affermavano di essere diversi dalle persone regolari, di essere contro il sistema, ma poi trattavano la donna come un oggetto. Proprio all’interno, alcuni ripetevano slogan del tipo: 'la donna è come il sistema, bisogna fotterli'. Non tutti, per fortuna, e questo generava un dibattito”. Marco le fa eco dicendomi: “È indubbio che il Virus ha visto il suo declino quando nel collettivo non c’erano più donne”. Un po' come succede oggi nei CSO di altre città, o in qualche paese in provincia, dove giovani e meno giovani che in quegli anni erano bambini o non erano nati, continuano a dire la loro proprio sugli stessi argomenti fin quando gli viene data possibilità di farlo.
L'illustratore Winston Smith, a tal proposito, sostenne che ogni generazione ha il suo proprio modo di esser punk: dai mohicani ai beat agli hippie, sono tutti modi punk di essere. Marco me lo conferma: “Ho avuto più di un'occasione di parlare con lo stesso Winston di quest’aspetto, ma più che il modo di essere punk, dovremmo dire il modo di essere antagonisti, sapere interpretare il proprio ambiente sociale/storico in cui si vive e trovare la formula adeguata per ottenere cambiamenti significativi. La differenza tra le varie generazioni che si sono susseguite nei decenni sta nell'estetica e ovviamente nella colonna sonora che li accompagna, ma la spinta emotiva e sempre simile”. Il Virus cessò la sua esistenza in Via Correggio nel maggio 1984, sgomberato dalla polizia per una volontà politica atta a eliminare una realtà di aggregazione e riflessione che era diventata scomoda. Continuò a esistere realmente e nelle lotte per altri cinque anni, in almeno due altre sedi. Tra gli ultimi gruppi stranieri a suonarci furono (ironia della sorte) proprio i texani MDC che vidi a Genova e il cui acronimo, occorresse dirlo, tra le mille variabili possibili, sta anche per Millions of Dead Cops. Ops!
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L'articolo Quando il Virus punk infettò la metropoli di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2021-10-22 10:27:00
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