Se il termine “Superuomo” sia appropriato per tradurre il concetto nietzschiano di “Übermensch”, ovvero di persona che si eleva per genialità sopra tutti gli altri, è al centro di un dibattito che va avanti fin da quando la Juventus aveva uno scudetto solo. E se qualcuno nel frattempo ha deciso di cambiare la traduzione sui testi scolastici in “Oltreuomo” per rendere meglio l’idea originale, noi abbiamo comunque deciso di chiamare gli I Hate My Village una “Super-band”, e per almeno due valide ragioni.
Per prima cosa perché “Oltreband” suona maluccio. E per seconda perché se un bel giorno del 2018 il batterista italiano migliore di sempre e un chitarrista pilastro della scena romana si incontrano, decidendo di farsi accompagnare alla voce dal cantante di una delle band Indie Rock più cult degli anni ‘90 italiani, e guidati da uno che ha prodotto dischi in tutto il mondo, allora Superband sempra l’unico termine appropriato per descriverli.
Non è detto che questo fosse già nella mente di Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) quando ormai 7 anni fa proponeva a Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours, Propaganda Orchestra) di vedersi per suonare insieme; (come ci hanno raccontato qui), però il pensiero potrebbe averli sfiorati nel momento in cui insieme a Marco Fasolo (Jennifer Gentle) registravano le parole di Tony Hawk of Ghana, primo singolo di successo (relativo) del gruppo del 2018, interpretate da Alberto Ferrari (Verdena) e traccia principe del loro album omonimo, tra ritmi africani e chitarre blues.
Ora, il nome I Hate My Village potrà sembrare singolare e riportare a una lunga tradizione di campanilismo peninsulare. E in effetti dalla tradizione viene, ma quella della commedia/horror ghanese di Serie B, dalla locandina di un film (la trovate qua, ed è strepitosa) che con una qualche difficoltà grammaticale raccontava le vicende di un cannibale di provincia. Magari in Ghana esiste una band punk-itpop chiamata “La liceale nella classe dei ripetenti”. Non lo sappiamo, ma sperare non costa nulla.
Dopo l’album e tanti concerti in giro per l’Italia, in piena estate del 2021 la superband esce con un nuovo EP, Gibbone (edito da La Tempesta Dischi), quattro tracce registrate in pre-pandemia che tingono il sound di Lo-Fi, con il primo pezzo Yellowblack a condurre l’album e le successive tre, fra cui la title track di 11 minuti, a miscelare tutto assieme, creando atmosfera e giocando sulla sperimentazione.
Del resto ce lo hanno raccontato più volte qual è il senso del progetto. “Per noi la musica è necessità, non un podio”, ci diceva Viterbini nel 2019. I successi individuali passati e presenti dei quattro musicisti li aiutano a mettere a fuoco qual è il vero oggetto della ricerca degli IHMV. E non è New Music Friday Italia. “Perché non prendersi la libertà di poter deludere? Le modalità della classica forma canzone a lungo andare possono creare una gabbia. Invece spesso la musica strumentale dà la possibilità di essere totalmente liberi” ci raccontava sempre Viterbini, due anni più tardi.
Di anni ne sono passati altri tre, e oggi, a marzo 2024, li ritroviamo con un album in canna e un ultimo singolo, Water Tanks, dove ci sono tante idee nuove e qualche cambio rispetto al passato. Oltre al suono più vitale ed energetico c’è un cambio di etichetta, in una nuova svolta della Bolognina che affida il progetto alla Locomotiv Records, marchio del Locomotiv Club, locale storico del capoluogo emiliano dove la superband suonerà per due date il 22 e 23 Maggio.
Gli elementi interessanti del nuovo pezzo sono tanti e fanno ben sperare per l’album. Dall’Afrobeat che non si ferma più solo al ritmo ma contamina anche le chitarre e i cori, mescolando una voce in stile indie rock distorto a chitarre giocose e percussioni sincopate, alla poliritmica di una traccia che in 2:30 si muove tra 4/4 e ¾ ed è decisamente molto più ballabile e meno improvvisata rispetto a tutte le uscite precedenti. I quattro IHMV hanno raccontato a Billboard che il pezzo gli è semplicemente “Arrivato addosso, un po’ come piace fare al futuro”, e che l’ispirazione gli è venuta dall’highlife, un genere musicale storico ghanese che fonde metriche africane con melodie jazz occidentali.
Adesso alzi la mano chi aveva già sentito nominare questo genere. Il punto è proprio questo. La forza del gruppo sta nel “rivisitare” (direbbero a Masterchef) sonorità e generi musicali meno esplorati o del tutto sconosciuti ai più, e aggiungergli il proprio tocco, la propria ispirazione e originalità: renderli fruibili tanto a chi è alla ricerca di novità nella musica italiana che non canta in italiano quanto a chi accende la radio o ha solo cliccato sulla playlist giusta.
E lo fanno, cosa per niente scontata, con un'interpretazione autentica e libera da snobismo o autoreferenzialità, che sono controindicazioni frequenti di chi ha suonato in precedenza in gruppi o formazioni di successo. Non vogliono fare world music o sovvertire le classifiche, gli I Hate My Village fanno la musica che vogliono fare e la fanno bene, senza dover raggiungere un obiettivo esterno o imporre un’idea.
Ci può essere una via di mezzo tra guardare Pomeriggio Cinque e leggere il libro post-espressionista cecoslovacco per protesta durante la finale di Sanremo. Ripensandoci però, il pensiero della commedia horror cannibale dà un punto di vista nuovo a tutta la vicenda; potrebbe andar meglio, ma almeno adesso avete qualcosa da guardare aspettando il nuovo album.
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L'articolo La svolta della Bolognina degli I Hate My Village di Claudio Spagnoli è apparso su Rockit.it il 2024-03-22 14:52:00
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