Winter Dust e Long Gone: geneticamente post

I primi vengono da Padova e sono in giro da un po', gli altri emergono dalle periferie milanesi con un debutto ufficiale crepuscolare e ispirato. Assieme sono la dimostrazione che non c'è limite al "post", quando c'è la voglia di sperimentare

Winter Dust, foto stampa
Winter Dust, foto stampa

In fondo era tutto partito con Sense By Erosion (Blackwater Trasmission & mille altre, 2018) dei padovani Winter Dust: debutto vero e proprio dopo due EP che aveva fatto capire le possibilità di azione del gruppo, non a caso auto-definitosi con una buona dose di ironia “post-rock/emo/wtf”, ma non solo. Era appena cinque anni fa, ma i brani dai titoli plumbei (Furnace, Duration Of Gloom, Disharmony, Composition Of Gloom, Cruel June) spalmati sulle quattro facce del doppio LP dei quattro Marco e Fabio (chissà cosa succedeva quando chiamava: “Marco!”) irrompevano nelle cronache musicali e squarciavano il velo di maya, come direbbe il sòr Schopenhauer, di una scena post (pure se sarebbe meglio dire di una sensibilità) che da tempo covava insoddisfazione all'interno di buona parte del pubblico e dei musicisti.

La musica del quintetto non era certo la più all'avanguardia del circondario ma dalla sua aveva una forte carica evocativa, in grado di toccar la sensibilità dell'ascoltatore grazie a generose spennellate di Isis e La Quiete su tela Explosion In The Sky, sapendo che cosa mettere e dove. Loro stessi durante le  prime uscite palesavano attraverso le t-shirt indossate il loro debito con band come Raein e ancor prima Caspian e Converge: summa perfetta di quello che stiamo cercando di dire. Senza nulla togliere a quella personalità e voglia di sperimentare con il proprio background per conquistare l'attenzione e l'interesse di quanti fossero allettati dall'ennesima mutazione genetica di un post-hardcore sempre a un passo dalla canonicità assopente.

Adesso che quel prefisso, “post”, ha del tutto fagocitato e reso quindi nullo qualsivoglia genere ci si possa attaccare dietro (sia rock, punk, hardcore, metal, bla...), ecco che allora possiamo tranquillamente notare come alcune band se ne siano discostate con quella tipica voglia di andare oltre di chi ama suonare le chitarre perché ama suonare le chitarre, per una propria specifica (ribadiamolo) sensibilità e non per seguire un qualsiasi  trend dettato da chicchessia ma, se mai, anticipare il prossimo venturo di questa perenne retromania.

Avrete già intuito dove vanno posti i Winter Dust che, nel mentre, hanno raddrizzato la line-up, con l’ingresso in pianta stabile di Giulia De Paoli, a diversificare la rosa dei nomi e suonare il piano, e il tiro dopo che la pandemia aveva messo fine ad anni d'attività discografica (Autumn Years del 2004, Thresholds del 2015 e Sense appunto) e concertistica quasi ininterrotti.

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A fargli buona compagnia ci sono i milanesi Long Gone che, al debutto, spostano anch'essi le dinamiche del post-punk (Moloch di ogni forma di rock indipendente da vent'anni ad oggi) verso nuovi scenari, se non inediti, quanto meno realmente alternativi al dozzinale appiattimento del recente racconto musicale. Ma andiamo per gradi.

Lontani dagli stilemi ora in voga e nuovamente legati ad un concetto musicale vicino all'emo chitarristico e melodico del Midwest e all'hardcore dei loro inizi autoprodotti, poco post-rock (termine oramai maledetto con cui ho sentito definire ultimamente pure i Verdena, chissà per quale assurda ragione - vergogna!) e per la prima volta in italiano, i Winter Dust propongono con Unisono (Shove Records, 2023) una personale cifra sonora alle cui radici vi è l'indole della Manchester che fu di Stone Roses, Fall, Oasis e Smiths omaggiata nel passato recente da High Vis ma ancor prima da Manchester Orchestra, la furia di chiave losangelina dei Touché Amoré e l'amore duro a morire per la Glasgow di Mogwai. Ad avere orecchie per intendere, il mio ruolo di “suggeritore” potrebbe finire qua. E invece no. Unisono ha anche la produzione di Chris Teti (l'uomo dietro il piccolo culto  a nome The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid To Die e quella mina che prende il nome di Between The Richness dei Fiddlehead).

“Abbiamo contattato diversi produttori", dicono, "che hanno fatto dischi che amiamo, Chris è sembrato quello più coinvolto dal progetto. Inoltre la sua band è un casino, e ci sembrava la persona adatta a mixare un altro casino”. In due tracce sono anche i Six Impossible Things come ospiti. Il che ci fa domandare se dobbiamo iniziare a vedere i Winter Dust come gli !housebroken, ovvero con una line-up varia ed eventuale sia in studio che dal vivo. “Abbiamo iniziato come una band classica di cinque componenti fissi, adesso siamo in sei, ma ci esibiamo a volte in cinque, altre in sette. Non ci vediamo nulla di male e soprattutto non abbiamo bisogno di ufficializzazioni o distinzioni. Chi ha voglia suona”.

Rimane da vedere come il pubblico reagirà a queste novità. Anche se oramai credo che sia abbastanza scocciato dalle band che ripetono all'infinito le stesse soluzioni. “Non saprei", mi segue Fabio "personalmente a me i Bad Religion e gli Alkaline Trio non stuferebbero mai. Scherzo, ma non troppo. Per chi un pubblico invece deve ancora costruirselo, che è più il nostro caso, ha poco senso farsi domande di questo tipo. Abbiamo fatto un disco spontaneo e solitamente la spontaneità paga”.

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Giusto. Anche con i Long Gone, come già detto poco fa, siamo di fronte ad una realtà dal suono magari non originalissimo ma di sicuro poco incasellabile nelle più comode e assassine categorie musicali e quindi mentali. Spontaneo anche loro. Il quartetto viene dalla periferia milanese ed è formato da Federico Bonuccelli (voce e chitarra) e Luca Piatti (basso), amici con un'esperienza comune nell'area punk-hardcore, ai quali si son aggiunti il chitarrista Luca Tadini e il batterista Stefano Santamato. L'esordio del gruppo è stato affidato nel 2017 a un EP dal titolo Low Numbers Lives Memorial Foundation, purtroppo perso nel marasma di Bandcamp e destinato a naufragar nel caos pandemico.

Eppure se pochi si avvicinarono a quel mini-LP solo perché un non meglio specificato algoritmo glieli aveva portati, la scoperta che fecero fu del tutto libera da pregiudizi di sorta: i Long Gone non sono né l'ennesimo clone del mood post-punk odierno, né un progetto dipendente esclusivamente dalla mente compositiva di Federico e Luca.

E il loro debutto ufficiale, Drowned (Liver, 2023), sta qua a rimarcarlo. Questo disco infatti racchiude in sé dodici tracce, dodici crepuscoli sonori ispirati e malinconici, sperimentali (a modo loro) e oscuri, contaminati e controversi. Non stupisce affatto siano stati scelti per l'apertura di un recente concerto di Matt Elliott, perché le loro canzoni colpiscono al primo ascolto per capacità di congiungere il sad-folk alla tradizione slowcore di fine anni 90. Sarei assai curioso di sapere come il fondatore dei Third Eye Foundation (e autore di Drinking Songs) abbia reagito e magari giudicato questa varietà di soluzioni che, con freddezza e rabbia, passa da Black Heart Procession a Codeine, da Red House Painters a Lowercase.

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Il suono, tutt’altro che semplice e tutt’altro che felice, corre sul filo dell'alienazione cara al mai dimenticato Mark Linkous aka Sparklehorse ma, più di tutto questo, la cosa che colpisce di più è la capacità di trovare un proprio ruolo in una scena, piazzandosi nel versante più ossessivo e buio dello spettro sonoro. Ma a chi gli chiede se Drowned (“è la parola più ricorrente nei testi, esprime bene qualcosa di perso, non recuperabile, andato per sempre”) descrive il loro reale stato d'animo o vale la risposta del fu Luigi Tenco (“Quando sono felice esco”) a chi gli chiedeva il perché facesse musica triste. Loro rispondono: “Delle due, la seconda. Serve raccogliere tristezza, disagio e frustrazione per scrivere qualcosa di buono e autentico. I pezzi è dove mettiamo le brutture della vita, un po' per passarci oltre e un po' per cristallizzarle e guardarle con più distacco e senza che ci mordano. Come tante altre attività, suonare è terapia”.

Li ascolto e penso che un altro che urlava la sua paura di affogare era David Yow dei Jesus Lizard, e fino a poco fa non conoscevo nessuno a Ovest di Nick Cave che potesse rendere in maniera così realistica e intensa una paura così interiore. “Forse è merito dello slowcore" dicono "o forse del sad-folk... o post-folk, ma anche del post-punk. Ma dei generi in ogni caso ce ne importa abbastanza poco, facciamo un po' quello che ci viene, senza limitazioni e senza neanche pensarci troppo. Se ci si concentra troppo su di uno stile si finisce a fare una copia di qualcosa e, per quanto si possa farlo nei 2020s, siamo contenti di avere trovato una nostra personalità definita”. Ben definita, azzarderei.

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L'articolo Winter Dust e Long Gone: geneticamente post di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2023-03-01 16:17:00

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