Descrizione

“Equorea”: dal latino aequor -ŏris, mare, superficie piana.

Quando Eugenio Montale nella poesia “Falsetto” descrive il poeta che scruta da lontano Esterina, una giovane ragazza spensierata che si sta tuffando da uno scoglio tra le onde, la definisce appunto “equorea creatura”, non nel senso che la sua stessa esistenza appartiene al mare quanto, invece, a quella linea di demarcazione che separa la superficie dell’acqua da quella del cielo, a quella sensazione di indeterminatezza infinita in cui sta la salvezza di uomo angosciato dal peso del mondo.

Equorea è una sensazione, è come vengono percepite le cose. In ogni nostra canzone la mente trova il suo punto di fuga in qualcosa di vasto come le nuvole, un cielo grigio, un oceano, un’enorme distesa di sabbia, l’orizzonte, qualcosa in cui rifugiarsi e dimenticare di essere finiti (spazialmente e temporalmente, piccoli e caduchi accidenti della storia), qualcosa in cui esistere senza confini, in cui trovare pace dalla frustrazione di non poter essere “tutti gli uomini del mondo”.

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