Emiliano Mazzoni è un cantautore, vive a Piandelagotti, sull'Appennino Emiliano, e lì, in casa, si registra i dischi, col suo pianoforte, che è un po' il suo compagno di gioie e disgrazie. Ma Emiliano Mazzoni è anche un animale – da palco, da esistenza, da colpo di coda come modus operandi – e in quanto animale appartiene alla schiera di coloro che, comunque vada, almeno sino a quel momento, ne usciranno sempre vivi.
Per questo Emiliano Mazzoni ha l'accortezza di farsi aiutare da un musicista dalle mani esperte quale è Luca Rossi (Üstmamò, Giovanni Lindo Ferretti). Così accade per questo suo secondo lavoro “Cosa ti sciupa”, che arriva a due anni dal precedente “Ballo sul posto”. Un disco che continua un discorso nel quale il pianoforte e la voce sono al centro, ma le chitarre elettriche e una batteria spesso quadrata suggeriscono un discendenza rock a fronte di un'italianità del tutto cantautorale, che a volte si fa francese, oppure australiana, o addirittura popolare e messicana. Rispetto al passato, però, qui tutto avviene in modo più centrato, certamente più potente, ricalcando la “bestialità” e l'imprevedibilità di Emiliano sul palco. E soprattutto allargando le prospettive di scrittura e arrangiamento, per partorire canzoni che provino ad andare oltre. Che provi ad andare là.
Dove? Là dove c'è l'intuito. Quel brivido vertiginoso che si sparge nel corpo dopo aver avuto un pensiero importante – attenzione: avuto un pensiero e non fatto, avuto cioè ricevuto, come un virus improvviso o un sorriso accolto a braccia larghe. Canzoni come tentativi di ultimi passi verso quell'intuito che da raggiungere è difficilissimo o forse addirittura impossibile. E dunque canzoni di bellezza, anzi “Canzone di bellezza”, perché “lasciate alla bellezza il vostro cuore / e vi soccorrerà non sono favole”. Parole e accordi che girano intorno, scrutano e si tuffano in quella bellezza che è da qualche parte, accompagnata dalla disarmante impossibilità di poterla condividere.
Questo è Emiliano Mazzoni. Un cantautore dell'impossibilità, che offre a chi lo vuole un disco un po' nostalgico e un po' visionario, ma sicuramente più visionario. Lui che scrive versi che potrebbero essere scene di un cinemascope (“Ci spogliammo come due trionfi sull’altopiano”) e inchioda alla sedia con incipit potenti e veri (“Stendi le tue cose oscene al buio se ti va, / fallo per volergli bene”) o con le storie assolute di chi non tornerà mai (“Non rivedrò più nessuno”, nata da una vicenda di famiglia). Lui che si aggrega a quella stirpe di traballanti cantori della sopravvivenza di vita e d'amore, ma con una sua indole lieve, a tratti fantasmagorica, dove un luogo amato diventa una donna amata, o forse il contrario (“Ragazza aria”), e dove il cinismo è un'arma spuntata (“Diva ti comprerò un teatro / ed io mi farò la cassiera, / quella che troveranno attaccata / sotto il ponte.”) ma è l'unica per difendersi dal disincanto del dopo (“Ti faccio la colazione, un pezzo di pane, / una merendina di merda. / Io ho la tua gonna e tu il mio pantalone”). Quel disincanto che comunque non vincerà mai se si cerca l'intuito, se si continua imperterriti a smaniare per la bellezza.
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