I migliori dischi italiani del 2016 secondo Rockit
Il 2016 è stato ricco e affascinante. Il rap e l’elettronica godono ancora di ottima salute, e finalmente anche il rock è tornato ai piani alti della nostra classifica di fine anno.
Dopo aver registrato tutti i vostri voti nella Popolarissima , che ha visto come vincitore Motta e il suo “La fine dei vent’anni”, tiriamo le somme sugli album più apprezzati da tutti i redattori e dai nostri collaboratori. Ecco dischi italiani dell'anno secondo Rockit .
Sfera Ebbasta , il ragazzo di Ciny, è tornato con un disco omonimo. Ad accompagnarlo, il partner in crime di sempre, Charlie Charles. Trentacinque minuti che si accodano alle ultime tendenze afrotrap francesi, inserite in un percorso autoreferenziale che rappresenta un unicum per la scena rap italiana, e che quest'anno ha portato un bel po' di freschezza e singoli spacca classifica.
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Una cronaca senza filtri raccontata in diretta da una porzione di terra affacciata sul Mediterraneo, uno struggente folk agreste si mescola ai versi di cani, pecore e asini, in una sorta di “Pet Sounds” alla siciliana che sa di scirocco, fichi e mattoni, ma con uno sperimentalismo tirato all’eccesso. Ogni singolo rimbombo nel disco di Antico diventa significativo e la voce schizza via in un vuoto sonoro inquietante, tribale e moderno al tempo stesso.
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Un disco spettacolare nato grazie al ritrovamento di un vecchio pianoforte di famiglia: nel debutto di Novamerica si respira l’aria scattante della primavera, la speranza che si ha nel ripartire, la libertà di un cuore alleggerito. Melodie e arrangiamenti capaci di arrivare a vette di aria purissima, con una maturità compositiva che raramente si incontra per le strade del nostro paese.
Quand’è l’ultima volta che avete ascoltato un meraviglioso disco italiano dominato da un pianoforte squillante? Da oggi sapete qual è la risposta.
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“Requiescat in Plavem” è un album estremo e sgangherato, che non vuole piacere a tutti i costi ma che se ti cattura finisce per coinvolgerti e travolgerti. Il dialetto rende questi brani diversi: è come se cambiasse la prospettiva di ascolto, costringendo a fare molta più attenzione a dettagli e ritornelli che in altre circostanze, e magari di fronte a un canonico inglese o a un normalizzato italiano non avrebbero saputo attirare la stessa curiosità. Non è una questione formale: davvero il suono del dialetto fa evolvere in maniera nuova le melodie delle canzoni del disco.
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“This Life Denied Me Your Love” è un disco sinfonico, fatato, incantevole, ricco di preziose collaborazioni (tra gli altri Laetitia Sadier, Matilde Davoli, Mike Andrews e Populous) dove si raccontano favole tanto confidenziali quanto universali; Tuma sembra camminare con spirito da cantautore intimista lungo un percorso dove raccogliere voci, suoni, molteplici strumenti e influenze, e su tutto un’eleganza che fa brillare ciascuna nota, e su ogni nota la magia.
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Macerie, fiamme e desolazione. In primo piano un tavolo con tre drink. Tre aitanti giovani sorridenti si fotografano, contenti di apparire. Chi se ne frega dove, chi se ne frega come, chi se ne frega perché. La copertina del disco nove firmato Zen Circus catapulta in uno scenario apocalittico, in una guerra che non si vive in trincea ma sulla tastiera, che fa più danni della violenza e delle bombe. È “La terza guerra mondiale” quella a cui tentano di sopravvivere Appino, Karim e Ufo. Guerra non voluta, però necessaria “per cominciare una nuova era”, “per vedere che faremmo ora”.
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Benvenuti all’album della svolta degli Ex-Otago : synth in primo piano, via i chitarrini e via il finto lo-fi da cameretta. Una decisa virata electro-pop che valorizza la calligrafia della band genovese: è rimasta intatta la loro capacità di scrivere ritornelli corali, ma ad accompagnarli ora ci sono pochi suoni essenziali da poter spingere. Semplici mosse che hanno permesso alla band di avere una fruibilità persino maggiore che in passato (basti vedere la buonissima esposizione avuta in radio), pur mantenendo intatta l’identità Ex-Otago . Se siete ancora scettici aspettate le prime cover voce e ukulele su YouTube.
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Una delle tante frasi che nel nuovo album dei Thegiornalisti si sente pronunciare con più liberazione è “sbagliare a vivere mi piace un sacco” : un verso che è la chiave per comprendere sia il tipo di storie che si cantano in questo album, sia per capire come le si cantano. Perché è chiaro che il concetto di “guilty pleasure” è quanto di più lontano ci sia dalla sensibilità di Tommaso Paradiso , un autore che non si tappa il naso di fronte alla musica (di qualsiasi estrazione essa sia) e che per questo riesce a goderne libero da pregiudizi, anzi con un certo candore e soddisfazione. Un disco che è il riassunto di vent'anni di musica leggera italiana. Il pop che vogliamo sentire allagare le radio.
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Immagina un artista che inscena la sua morte, intraprende un viaggio all’inferno e torna con il cadavere putrefatto -ma pur sempre brillante- di Elvis Presley. Il capello nero con il ciuffo che ritroviamo sulla cover di “Hellvisback” fa a pugni con il suo viso emaciato, le cavità oculari vuote, il ghigno diabolico e la maschera, simbolo della collaborazione (sì, anche nella vita ultraterrena si dice così) tra il ragazzo del Mississippi e quello di Olbia. “Hellvisback” mette in mostra il Salmo più raffinato, bisogna solo lasciarsi ammaliare dalle immagini che le sue liriche sanno creare, dalla doppia anima delle canzoni e dalle pillole di pop culture confezionate e snocciolate con la cura maniacale di un ex direttore vendicativo di Sorrisi e Canzoni.
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Alla soglia dei cinquant’anni Niccolò Fabi è di nuovo - o ancora - nel pieno della sua maturità artistica. Una maturità che evolve, che sposta l’asticella e non si ferma, una sensibilità in cui entrano ispirazioni e contaminazioni ma che non cede mai alla ripetizione, alla copia e alla banalità dell’inseguire i gusti di quello che ormai è il suo pubblico. In questo “Una somma di piccole cose” Niccolò Fabi ci mette cuore, cervello e un momento creativo davvero luminoso.
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Un’emotività feroce che si serve di lessico scientifico, astri, galassie e suoni freddi per raccontare in maniera magistrale un indefinito senso di lontananza e di solitudine (che si tratti di relazioni a distanza o del ritrovarsi soli nel proprio letto, poco importa).
“Aurora” è davvero un disco potente: Niccolò Contessa ha una sensibilità e un modo raro di raccontare le emozioni. Tutte quelle cose che a parole non sai mai come descrivere, che si tratti di un buco nero o la peggiore delle domeniche sera. Davvero molto bello.
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All’interno del compatto e agile formato pop-oriented dei brani, Birthh svela un micromondo in downtempo che in realtà di pop ha poco, ancorato com’è a un ambient rarefatto e intimista di matrice nordeuropea, liricamente umbratile nel suo sviscerare il disagio esistenziale di vite irrimediabilmente complicate. Un esordio che non sembra affatto tale, perché dispensa le stesse suggestioni a presa rapida di una matura riconferma, e perché dimora ai piani alti della qualità.
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“Folfiri o Folfox” è la celebrazione del momento esatto in cui qualcosa si spezza, del rumore che fa e della spinta che provoca, prima dentro ciascuno, poi verso il mondo: scalare la sofferenza per raggiungerne la cima e scoprire nuovi orizzonti, nuvole più bianche, azzurri più intensi, e infiniti modi per sentirsi di nuovo vivi. Ci troviamo subito senza inutili giri di parole davanti al cancro, e tutto parte dalla scomparsa del padre di Manuel Agnelli , passando per altri lutti che hanno colpito i membri della band; ma nonostante questo, il denso, doppio album che nasce dalla malattia, diventa un passo dopo l’altro un’esplosione di vita, la carta da giocare per riconoscersi in una speranza, la prova che ci siamo ancora e possiamo essere felici, o almeno tentare di esserlo.
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Il primo disco da solista di Francesco Motta è come un punto a fine capitolo di un romanzo di formazione; la crescita del protagonista fino a lì ha una sua concretezza, ma non è finita. Motta scrive canzoni di una concretezza disarmante e le canta pronunciando ogni singola parola come fosse l'ultima, con una tensione e una ferocia fonetica di rara potenza.
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Un disco importante si riconosce da poche semplici cose. Dalla musica eccitante e nuova. Dai testi criptici quel tanto che basta per lasciare spazio all'immaginazione. La cosa più importante di questi album però è la loro capacità di curare le ferite interiori. Quelle di chi ci suona, quelle di chi li ascolta ma soprattutto quelle del mondo che gira attorno a tutto quanto. Ecco, "L'ultima festa" è un disco di questi. E per questo è il nostro disco dell'anno.
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--- La gallery I migliori dischi italiani del 2016 secondo Rockit è apparsa su Rockit.it il 2016-12-12 11:52:02