La musica italiana nel 2016: i 10 dischi più belli usciti finora
Alla fine dell'anno mancano ancora quasi 8 mesi, ma già il 2016 ha dimostrato di essere un anno molto fortunato per la musica italiana. Questi sono i dischi che, finora, hanno catalizzato i nostri ascolti, e hanno buone probabilità di arrivare in cima alla classifica di fine anno.
Un disco importante si riconosce da poche semplici cose. Dalla musica eccitante e nuova. Dai testi criptici quel tanto che basta per lasciare spazio all'immaginazione. La cosa più importante di questi album però è la loro capacità di curare le ferite interiori. Quelle di chi ci suona, quelle di chi li ascolta ma soprattutto quelle del mondo che gira attorno a tutto quanto. Ecco, "L'ultima festa" è un disco di questi.
La cosa più importante di tutte però, è che in questo album c'è la gioia di vivere. Il presobenismo di chi vuole bere o assumere sostanze (il sottotesto un po' di tutto il disco) non per crogiolarsi nell'autodistruzione ma per godere una vita davvero intensa. Le accigliate "mamme rock" di qualche stagione fa che ricordavamo appostate fuori dalle discoteche della riviera romagnola perché preoccupate per lo sballo dei propri figli hanno finalmente trovato in Cosmo il loro poster boy dalla faccia pulita in grado di spiegare alla casalinga di Voghera la rivoluzione gioiosa del passare il weekend ballando all'impazzata strafatti di MD.
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Dopo una lunga attesa, il 2016 ha visto uscire finalmente "Mechanics", l’esordio lungo di Fabrizio Martina aka Jolly Mare (salentino, una laurea in ingegneria alle spalle). "Mechanics" è una celebrazione disco funk, a briglie più che sciolte e di un entusiasmo fulminante, un mélange di suoni, ritmi e armonie che si compattano in una composizione fresca e organica. Tastiere lanciate a mille all'ora che suonano come se fossero state risvegliate da 25 anni di ibernazione naturale dimostrano quanto studio e quanta ricerca siano stati fatti prima di premere il tasto record. A pari merito la parte ritmica del “business”: Jolly Mare evita accuratamente la facilità della cassa 4x4 “ready for the dancefloor“ ma costruisce variazioni continue, stacchi, controtempi, alternando aggressività a spazi di relax, divagazioni propense al viaggio mentale e solide celebrazioni da ballo. Da Punta Suina a Lignano Sabbiadoro, tutta Italia canterà e ballerà Jolly Mare.
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Il primo disco da solista di Francesco Motta è come un punto a fine capitolo in un romanzo di formazione, la crescita del protagonista fino a lì ha una sua concretezza, ma non è finita. Potrebbe ribaltarsi ogni cosa ancora, è sempre questione di tempo. Finiti i vent'anni, dato che crescere come termine significa tutto e niente, l'unica cosa da fare è mettere in fila l'uno dopo l'altro i pezzi di se stessi che fino a quel momento si sono solo sparsi, guardando con fierezza dietro di sé, tutto è servito, tutto è ancora da fare. Nel mentre, abbiamo per le mani un grande disco rock.
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Novamerica parte da una casetta di Mirano, vicino Venezia. O meglio, è lì che si trova uno stanzino della musica che ospita un pianoforte tedesco degli anni '30 con un suono cangiante e argentino, in realtà dovuto al fatto che non si riesce ad accordare perfettamente. Un pianoforte appartenente ad un nonno amante della musica che, una volta ritrovato, è diventato il punto di partenza di un disco spettacolare: un debutto nel quale si respira l’aria scattante della primavera, la speranza che si ha nel ripartire, la libertà di un cuore alleggerito. Stiamo parlando della via luminosa tra i Phoenix e gli Strokes, della gita in collina di Chilly Gonzales e Deerhunter, della malinconia a basso profilo di Lucio Battisti e della psichedelia morbida dei Foxygen.
È vero, stare a scomodare certi paragoni per Novamerica è riduttivo, ma provate invece a porvi questa domanda: quand’è l’ultima volta che avete ascoltato un meraviglioso disco italiano dominato da un pianoforte squillante? Da oggi sapete qual è la risposta.
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Romantico, sognante, di inavvicinabile stile e classe. Lascia a bocca aperta l’esordio di Andrea Tirone, già chitarrista dei Dyd, in arte Mind Enterprises. "Idealist" è un esercizio di stile entusiasmante, una miscela esplosiva caricata a cuori, coriandoli, funk e italo disco, assemblato e omogeneizzato per un cantato in chiave di zucchero. Mind Enterprises firma uno dei migliori lavori di questo inizio 2016, una prova più che mai convincente per un album pop ben prodotto e intimista, e che con una giusta patina di glamour sa parlare d'amore in quel modo che di solito conquista le menti più sognanti e stralunate, suonando allo stesso tempo perfettamente incastonato nelle nuove tendenze. Un piacere assoluto sia da ascoltare che da ballare.
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“Non ci levàti l’aria all’aceddi, sennò nun ponnu vulari” , declama Alfio in “Pirchì”, mentre in sottofondo uno struggente folk agreste si mescola ai versi di cani, pecore e asini, in una sorta di “Pet Sounds” alla siciliana che sa di scirocco, fichi e mattoni. È il punto centrale della faccenda: Alfio nel brano usa il tempo presente perché la sua è una realtà che esiste ancora. Altro che “Antico”, altro che chiacchiere: non c’è nostalgia nelle canzoni perché si tratta di una cronaca senza filtri raccontata in diretta da una porzione di terra affacciata sul Mediterraneo. La musica di Alfio Antico spinge in due sensi. Da una parte c’è lo sperimentalismo tirato all’eccesso, nel quale anche un rimbombo diventa significativo e la voce schizza via in un vuoto sonoro inquietante. Il percussionista però sa dare un caldo benvenuto anche all’ascoltatore con meno difese: “La rosa” ha una melodia semplice e accogliente, non troppo distante da certi lavori di Lucio Dalla. Ecco allora perché “Antico” è un album bellissimo: non si nega a nessuno pur evitando di concedersi facilmente. È una questione di sensibilità, insomma.
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Immagina un artista che inscena la sua morte, intraprende un viaggio all’inferno e torna con il cadavere putrefatto -ma pur sempre brillante- di Elvis Presley. Il capello nero con il ciuffo che ritroviamo sulla cover di “Hellvisback” fa a pugni con il suo viso emaciato, le cavità oculari vuote, il ghigno diabolico e la maschera, simbolo della collaborazione (sì, anche nella vita ultraterrena si dice così) tra il ragazzo del Mississippi e quello di Olbia. Ma perché proprio Elvis? Dimenticate il manzo romantico di “Can’t help falling in love” e venite a conoscere il peggior sogno americano, fatto di sigarette e panini imburrati con granella di pillole, dimenticate il suo dolce sorriso speranzoso e lasciate spazio al più terrificante dei ghigni.
“Hellvisback” mette in mostra il Salmo più raffinato, bisogna solo lasciarsi ammaliare dalle immagini che le sue liriche sanno creare, dalla doppia anima delle canzoni e dalle pillole di pop culture confezionate e snocciolate con la cura maniacale di un ex direttore vendicativo di Sorrisi e Canzoni.
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Il terzo album de I Cani è decisamente diverso rispetto agli altri due precedenti. Non c’è più Roma, sparisce ogni riferimento generazionale ed è difficile stabilire chi sia il protagonista di queste nuove storie. Molte delle canzoni hanno un vago sapore scientifico: parlano di galassie, di pianeti, di forme geometriche, della teoria delle stringhe e dei satelliti. E il continuo riferirsi agli astri comunica un senso di lontananza che si applica bene ai rapporti tra le persone, sia quando si tratta di una relazione a distanza con un oceano di mezzo, sia quando i due sono allo stesso tavolo e a malapena si guardano negli occhi.
Non piacerà a tutti, ma “Aurora” è davvero un disco potente. Niccolò Contessa ha una sensibilità e un modo di raccontarti le emozioni che è raro. Tutte quelle cose che a parole non sai mai come descrivere, che si tratti di un buco nero o la peggiore delle domeniche sera.
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"22 Aprile. Un disco, una finestra, uno specchio, un nodo, un balsamo... Una somma di piccole cose"
Con queste parole Niccolò Fabi ha presentato sulla sua pagina l'ottavo della sua ventennale carriera. L'ha registrato tutto solo in una casa in campagna, dove ha potuto fare il disco che voleva, senza le pressioni dello studio, dei provini, delle aspettative, e dove ha ritrovato il contatto con la terra, a cui i cittadini sono sempre più disabituati. Un disco che parla di ecologia e consumi (tra le altre cose), e che trova il modo di parlare di argomenti forse inusuali in una maniera che arriva forte e chiara alle orecchie degli ascoltatori.
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“This Life Denied Me Your Love” è un disco sinfonico, fatato, incantevole, ricco di preziose collaborazioni (tra gli altri Laetitia Sadier, Matilde Davoli, Mike Andrews e Populous) e dove Tuma sembra camminare con spirito da cantautore intimista che racconta favole tanto confidenziali quanto universali, lungo un percorso variegato dove raccogliere voci, suoni, molteplici strumenti e influenze, e su tutto un’eleganza che fa brillare ciascuna nota, e su ogni nota la magia.
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--- La gallery La musica italiana nel 2016: i 10 dischi più belli usciti finora è apparsa su Rockit.it il 2016-05-02 11:31:19