Gionata Mirai ritorna alla dimensione acustica con Nelle Mani, lavoro di un’urgenza debordante. Dal mantra estatico del precedente Allusioni, si giunge a un lavoro che, oggi, si lascia maggiormente permeare da rifrazioni di luce che si traducono in musica. Nelle Mani è una mappa, un perimetro sonoro, un terreno conquistato con fatica e dedizione, un viaggio a tappe. Undici per la precisione, ognuna delle quali cela un piccolo mistero che l’artista accetta di condividere con l’ascoltatore, in un dialogo a tratti serrato, in botta e risposta, che con il passare dei minuti diviene appassionata richiesta di una chiave di lettura alternativa alla propria. E’ narrazione e condivisione al tempo stesso, quando la musica rallenta e apre a squarci di armonioso silenzio. Le stesse mani che assestano schiaffi, ora, carezzano e perdonano. Mani da uomo, capaci di furia, capaci d’infinita tenerezza. Il vortice che ci ha ammaliato nel precedente lavoro rallenta. Mirai ci siede accanto e ci offre racconti intrisi di dicotomie cromatiche, come se ogni brano fosse un dialogo, a volte concorde e armonioso (Fandango), a volte ironicamente contrastante (Ieri). Un lavoro che nasce dalla consapevolezza, dalla volontà di raggiungere l’essenza stessa dell’essere musicista che, nelle proprie mani, ha la sapienza artigiana, il gesto benedicente, la purezza nuda. E nient’altro gli occorre.
Il disco nelle parole dell’autore
Ci sono momenti in cui si può tranquillamente evitare di perdere tempo a guardarsi attorno per cercare di capire perché, cosa, dove e come, ci sono momenti in cui tutto ciò che cerchiamo lo possiamo trovare solo nelle nostre mani e da nessun’altra parte. La cosa varrebbe, ugualmente, anche se fossi un contadino o un ingegnere. La mia risposta in questo momento è questo disco e sono le mie mani a parlare.
INTRO: un’anticamera, un tinello, qualcuno ha suonato e lo faccio entrare. Tre note per far accomodare l’ospite e aprire un discorso.
ALEPPO: anni fa vidi delle foto della città di Aleppo e pensai fosse un bel posto. Quando ho scritto questo pezzo, ho ripensato a quelle immagini. Credo che oggi, purtroppo, quelle foto non sarebbero più riscattabili.
METALLO: un piccolo vortice a sei corde, qualcuno lo avvicina alle sonorità di Angie di Bert Jansch, pezzo che oltretutto fa parte del mio background (anche se non nella versione originale, ma in quella di John Renbourn). Ma giuro che me ne sono accorto solo dopo che me l'hanno fatto notare...
TONI DI ROSSO / INTRENO: un medley di due inediti, non so se sia “legale”… Toni di Rosso è una discussione a due su un argomento a vostra scelta; Intreno è una specie di blues, scritta qualche anno fa. Ne esiste una versione fatta in duetto con Adriano Viterbini per RadioDue.
IERI: un pezzo nato per scherzo, ma che nel tempo ha preso il suo spazio nelle scalette dei concerti più azzeccati. Due momenti opposti che non riescono a prendersi vicendevolmente sul serio.
PAN DI ZUCCHERO: Pan di Zucchero è un enorme scoglio nel mare di Iglesias. Un luogo meraviglioso, come meravigliose sono le vie per arrivarci. Questo pezzo vuole descrivere gli odori e l’aria che si respira da quelle parti.
NO POTHO REPOSARE (A Diosa): la mia personale visione di questo tradizionale sardo. (Poi un giorno capiremo anche se questo pezzo sia realmente ascrivibile alla tradizione)
THE FISHERMAN: cover da “6 and 12 strings guitar”, primo album di Leo Kottke uscito per la mitica Takoma Records di John Fahey. Voglio bene a quel disco, è pura voglia.
FANDANGO: un brano a cui avrei voluto mettere una voce, ma non ci sono riuscito, ogni volta che ci ho provato mi è sembrato di rovinarlo o di “limitarlo”. Quindi, ha vinto lui, resta solo la chitarra a parlare.
PRETTY GIRL MILKING A COW: una canzone della tradizione irlandese, in origine il pezzo si intitolava “The pretty girl milking her cow”, ma qui è proposto in una versione molto, molto vicina a quella di Duck Backer, che a suo tempo la intitolò così. E’ il primo brano fingerstyle in assoluto che imparai da autodidatta a undici anni. E’ un omaggio a chi mi consigliò questa strada, quella volta.
MY SWEET POTATO: una sfida, una specie di desiderio infantile, John Renbourn in un vinile live del 1980/81 che chiude il concerto con questa cavalcata velocissima e difficilissima e subito dopo le urla del pubblico. Adrenalina pura. Ho sempre pensato che il giorno in cui sarei riuscito a suonarla… beh, avrei avuto di sicuro i capelli bianchi, perché è troppo difficile. Ma ci tenevo a mettere per iscritto un tentativo, come dire “ok, puoi fare meglio, però dai, già così non è male”. Infatti, qualche capello bianco, in testa, ormai ce l’ho.
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