Lub e Dub sono i suoni del battito del cuore. Un mantra che esiste da che esiste l'uomo, che dà ritmo e spinta vitale all'esistenza. "Lub Dub" è il titolo del nuovo album degli A Toys Orchestra, un disco organico che batte senza interruzioni ma accelera, rallenta, segue il ritmo delle emozioni e della vita, proprio come un muscolo cardiaco. Ce lo siamo fatti raccontare dal leader della band Enzo Moretto.
Parlami un po' del nuovo album.
Erano quattro anni che eravamo fermi dal punto di vista della scrittura di un disco, ma poi ci siamo quasi svegliati da un sonno ed è venuto fuori in maniera molto rapida, molto veloce, probabilmente era già maturato dentro perché ci siamo visti in studio per poco più di un mese e le canzoni sono venute fuori di getto. Poi abbiamo deciso di restare a Bologna e di fare tutto qui: le canzoni sono nate a Bologna, e registrate qui con Giacomo Fiorenza, che era una nostra vecchia amicizia nonché un collaboratore dei primi passi degli A Toys Orchestra; con lui avevamo registrato “Cuckoo Boohoo”, “Technicolor Dreams”, e ci siamo rivisti in studio con queste canzoni diciamo abbozzate, quindi con un ampio margine di lavoro per lo studio. È stato molto stimolante, piuttosto che presentarci con il compitino già pronto solo da eseguire.
Stavo leggendo un po' di recensioni del vostro album, e praticamente tutte sottolineano il suo essere un disco anomalo nel panorama di oggi, in Italia ma non solo. È così, vi sentite un po' un'anomalia, e vi piace questa cosa?
Forse è un dato di fatto che in questo momento la musica in Italia stia andando da qualche altra parte. Diciamo che a noi non importava molto, non ci è mai importato nemmeno quando eravamo di più ad andare in una direzione simile alla nostra, non è una nostra priorità quella di sapere qual è la tendenza del momento. Non si può negare che comunque la musica italiana in questo momento abbia un approccio completamente diverso, e che in un certo senso siamo degli outsider.
Sempre a questo proposito, oggi da una parte c'è il ritorno all'album, al vinile, dall'altra l'ascolto frammentario: spesso prima dell'uscita di un lavoro escono tanti brani che a volte abbiamo già ascoltato quasi l'intero disco prima. Quanto è importante per voi la canzone, e quanto il disco nella sua interezza?
Per come sono abituato ad immaginare io il disco, e per quello che facciamo noi con gli A Toys Orchestra, il disco deve avere senso nella sua totalità. Una frammentarietà così ampia è forse più al servizio di quella che è la fruizione che c'è oggi, appunto le playlist di Spotify, i passaggi radiofonici, o comunque voler creare per forza un singolo che poi diventa tormentone. A costo di sembrare vecchio come formazione, quello che mi piace di più è immaginare il disco nella sua totalità: è come un libro, non può essere letto un paragrafo oggi, uno fra sei mesi.
Ti leggo un altro pezzetto di una recensione che secondo me era azzeccata e volevo chiederti se sei d'accordo: “gli A Toys Orchestra decidono di non assecondare il frastuono mediatico e frenetico del ventunesimo secolo”. Secondo te questa vostra “gentilezza” musicale può avere anche una valenza politica, quasi rivoluzionaria in un certo senso?
Probabilmente nel merito avrà sicuramente un che di provocatorio, può sembrare quasi un'ostentazione di essere una voce fuori dal coro e questa è una cosa che in un certo senso mi piace, non accodarsi mi sembra qualcosa che rimarca un senso di libertà. Però oggi, per non mentire, devo dirti anche delle cose che sono delle conseguenze, questa è una cosa che viene come conseguenza e non come qualcosa di ponderato: non abbiamo detto ok, adesso facciamo la provocazione, facciamo il disco lento, gentile rispetto agli urlatori o quelle che sono le canzoni di oggi, semplicemente facciamo quello che ci piace fare e poi si colloca in una posizione quasi involontariamente con dei connotati appunto quasi politici, con un aspetto di provocazione.
Anche se, come abbiamo detto, il disco andrebbe ascoltato tutto come un intero, e sono d'accordo, è un disco uniforme in senso positivo, c'è una canzone che preferisci, o a cui sei più legato?
Non è mai semplice scegliere un'unica canzone, sicuramente ce ne sono una o due a cui sono molto legato: probabilmente quella che apre il disco, "More Than I Need" è una delle canzoni che preferisco, il motivo per cui ho voluto che ne fosse proprio l'apripista, per il suo essere quasi manifesto con il suo testo molto scarno, la sua musica molto asciutta, il ritornello con un mantra che è un po' la chiave dilettura, “io ho bisogno più di quanto ho bisogno”. Poi sono affezionato a quelle canzoni invece che alle volte sono un po' destinate a diventare delle outsider perché non hanno la forma tipica della canzone pop della radio, non hanno una forma commerciale, come "Someone Like You", che è una canzone soltanto pianoforte e voce. Una canzone a cui sono molto affezionato anche per com'è stata registrata: era notte fonda, eravamo stanchi, avevamo bevuto, e abbiamo provato a fare una take di voce, ed è particolare proprio quell'atmosfera della notte; la stanchezza anche nella voce, il fatto che avevo bevuto del whisky, ha dato all'interpretazione vocale un qualcosa di molto potente e vibrante, e ogni volta che la riascolto mi viene un sorriso sulle labbra, perché sono veramente contento di come è venuta fuori così, quasi come se fossimo alle prove, senza nessuna grossa ansia. È venuta fuori in maniera totalmente naturale.
So che c'è anche una storia carina sulla registrazione di "Lub Dub", ce la racconti?
Questo è un aneddoto simpatico, perché è una canzone che è divisa in due, come se fossero due suite, una molto lenta, con i classici tratti della ballad, e la seconda metà invece è in crescendo, più esplosiva. Ci serviva qualcosa che differenziasse il ritornello e, nonostante l'utilizzo dei cori fatti da noi, mancava quel qualcosina in più. Allora Andrea, il nostro batterista, ha avuto una genialata: lui è allenatore di una squadra femminile di pallavolo, di diverse categorie fra cui quella delle bambine, quindi ha pensato di chiedere a queste bambine se volevano venire a cantare i cori, ed è stato bellissimo. In studio si sono presentate tutte queste bambine di dieci-undici anni, e vederle cantare una nostra canzone, e nemmeno la canzone più fanciullesca del mondo, perché è comunque una canzone malinconica, e loro hanno acceso una luce, è stato veramente un momento divertente ed emozionante.
Se dovessi dire invece qual è la mia canzone preferita direi "Show Me Your Face". Avete detto che l'ispirazione in questo caso è morriconiana. Le atmosfere della vostra musica, ma anche la cura dei video, sono molto cinematografiche: vi piacerebbe lavorare per il cinema? Secondo me la vostra musica si presterebbe bene.
Anche secondo me. Sarebbe una delle cose che più amerei fare. Abbiamo lavorato tanto col cinema, però mai scrivendo una colonna sonora originale, mai partendo da zero e immaginando la musica sulle immagini; abbiamo lavorato dando quelle che sono le nostre canzoni per il cinema, quindi sicuramente è uno dei miei più grandi desideri e aspirazioni a livello artistico e lavorativo. Per quanto riguarda l'influenza morriconiana di “Show Me Your Face”, qualche giorno prima di andare in sala prove ero stato proprio al concerto di Morricone, stavamo scrivendo quella canzone, aveva già qualche connotato riconoscibile in quell'area appunto quasi western, e allora abbiamo deciso di provare a calcare un po' la mano cercando di conferire quel tipo di colore. È stato molto bello anche in studio perché abbiamo utilizzato un sacco di strumenti inconsueti, il banjo, l'ukulele, gli archi, insomma di tutto e di più, come se fosse un'orchestra da film.
Infatti è molto ricco come brano. Quando scrivi tu hai già in mente come sarà la canzone arrangiata, oppure viene in seguito?
Non esiste uno standard. Alle volte quando scrivo una canzone già ho bene in testa quello che c'è da fare, quello che sarà, però visto che le canzoni le scrivo io, soprattutto per pianoforte e voce qui a casa, poi quando ci si ritrova coi ragazzi in sala prove è quello il vero momento in cui la canzone prende forma, si sceglie la veste. Uno degli aspetti della scrittura degli A Toys Orchestra è quello di parlare tanto prima di suonare, cercare di immaginare: stiamo lì a parlare e proviamo ad immaginare come dev'essere, ognuno propone la sua su quella che è la bozza, c'è chi magari la vede più elettronica, chi pensa di lasciarla più in acustico, poi si provano le varie soluzioni e si decide. Alle volte è buona la prima, alle volte necessita di più tentativi.
In una nostra vecchia intervista fatta in occasione del live in cui suonavate “Technicolor Dreams”, dicevate di venire spesso rimproverati dal pubblico per il fatto di non suonare abbastanza quell'album. Questo live che state portando in giro com'è, siete stati rimproverati per qualcosa?
No, stavolta penso che nessuno ci rimprovererà niente, perché effettivamente per un periodo abbiamo accantonato molti pezzi del passato, sicuramente non per snobismo verso le nostre prime canzoni ma per cercare di uniformare quello che era lo spettacolo dei tour scorsi, quindi piuttosto che avvantaggiare una canzone che fra virgolette è famosa cercavamo di avvantaggiare quella che conferisse qualcosa dal punto di vista emozionale, emotivo, della riuscita dal vivo. Per questo tour invece abbiamo proprio deciso di rimettere le mani su molti di quei pezzi che avevamo messo un po' in disparte, ed è stato veramente molto bello, perché non suonarli per tanto tempo poi è stato come riscoprirli, quindi siamo sempre molto carichi quando li risuoniamo perché è un po' come averli fatti rinascere. In questa scaletta ci sono tanti pezzi del passato, alternati ovviamente a quelli di "Lub Dub".
Cosa, e se, vi ha lasciato il tour con Nada?
Sicuramente andare in tour con Nada, che è un calibro molto grosso, un nome storico con un repertorio che è praticamente connaturato nella cultura popolare italiana, che ha scritto delle canzoni meravigliose e dei dischi meravigliosi, e potersi confrontare con lei, ha aggiunto sicuramente un tassello a quello che è il nostro percorso artistico. Devo però essere sincero nel dire che questo non deve per forza finire per influenzarci dal punto di vista musicale. Certamente per quello che concerne la nostra carriera di strumentisti, di musicisti, riarrangiare un repertorio anche non scontato per una band come gli A Toys Orchestra ci ha donato qualcosa, non è però una delle influenze dei nostri lavori, nonostante la compatibilità.
La copertina dell'album mi fa un effetto duplice: da una parte mi sembra giusta, dall'altra è molto scura, contrastata, dura come immagine rispetto ai suoni del disco.
È vero che alcuni toni soft del disco possono ricondurre a qualcosa di più pastello, o a un bianco e nero meno aggressivo, però esiste anche una componente in questo disco molto importante, che è quella dei testi, che non sono leggeri. Mi serviva un'immagine molto forte, quasi che turbasse chi la vede. Ero in giro a cercare delle fotografie in bianco e nero, perché sono appassionato di foto in bianco e nero, e su Instagram ho trovato questo fotografo indiano, di Nuova Delhi, che fa questi scatti che sono molto crudi, quasi violenti: delle immagini di volti, o di mani, molto ravvicinate, con un utilizzo del bianco e nero molto aggressivo, contrastato, dove si vedono i segni della pelle, della vita, le rughe, le cicatrici, le macchie, e siccome questo disco aveva un aspetto fisico, cardiaco, epidermico, anche nel titolo, avevo bisogno di qualcosa che parlasse già dall'immagine. Mi sono messo in contatto con questo ragazzo che mi ha risposto all'istante, e la nota lieta è che ci ha tenuto tantissimo a regalarmi l'immagine: io ovviamente lo volevo pagare, invece lui ci ha tenuto a regalarcela, perché mi ha fatto un discorso abbastanza mistico dicendo che il motivo per cui ci eravamo conosciuti era molto più forte del motivo economico. Quindi è stato bello anche incontrare una persona così profonda, che abbiamo potuto rendere partecipe.
Poi, come dicevi tu giustamente, il disco non è così “etereo” come può sembrare, anzi.
No, è molto tagliente, taglia lentamente ma è tagliente: le tematiche delle liriche, le ambientazioni delle canzoni, l'utilizzo della voce molto più roca, molto più bassa, senza mai andare a spingere in maniera eccessiva, questo mettere luce in un ambiente molto notturno, è qualcosa di molto potente, che funzionava.
C'è anche un modo di parlare di sentimenti molto diretto, fisico, senza filtri, anche questo è un po' inconsueto oggi.
Anche questa è una di quelle cose nate senza essere ponderate prima, e poi magari si trovano collocate in un punto diverso rispetto a quella che è la massa, o dove si sta dirigendo, il modo di utilizzare il suo lessico, però non mi è mai importato molto di uniformarmi a qualcosa. Per quanto riguarda l'approccio fisico, parte già dal titolo: lub dub sono i due suoni che fa il cuore, due vere e proprie parole che pronuncia, è come una sorta di mantra cardiaco che accomuna tutta l'umanità, è la cosa che mi ha dato molta ispirazione per questo disco.
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L'articolo Il mantra del cuore: intervista agli A Toys Orchestra di Letizia Bognanni è apparso su Rockit.it il 2018-06-28 11:00:00
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