Gli Addict Ameba sono un collettivo musicale, una specie ormai in via d’estinzione nel panorama italiano. Sono in dieci, arrivano da scuole ed esperienze molto diverse tra loro, tra cui quella di Al Doum & The Faryds, da cui alcuni dei membri provengono. Un gruppo che fa della musica dal vivo, della musica suonata, della musica “fatta insieme” la propria cifra stilistica. E sono la prova vivente (e “suonante”) che i muri, i confini e le divisioni tra gli esseri umani siano solo un ostacolo.
Il 10 luglio uscirà il loro primo disco, Panamor, per Black Sweat Records. Un album che, spiegano, "rappresenta in pieno la nostra filosofia, un punto di approdo verso cui convergono organicamente riff di chitarra berbera, le poliritmie del jazz, cambi di rotta psichedelici e ritmi latini". Il ritmo e il suono sono rumorosi e potenti – qua sotto un esempio, Les Italiens, con animazioni video di Davide Disimino –, proprio come la loro “varia umanità” fatta di jazz, soul, musica africana, echi e schiamazzi dei cortili di ringhiera alla di Milano, la loro città: la costituzione di una Pangea sonora.
Quando avete deciso di fare musica assieme?
Addict Ameba è un’entità erratica, una famiglia sonora comparsa nel 2017 nel quartiere Casoretto, a nord est di Milano. Il primo nucleo di tre percussionisti di genere afro-guineano incontra due terzi dell’attuale sezione fiati con l’idea di dar vita a un esperimento. Al primo bozzolo si sono aggiunti a mano a mano gli altri musicisti, sia per conoscenze e che per incontri fortuiti, come con Lorenz, chitarrista e anima de Il Guscio, magico studio dove proviamo dal giorno zero. O ancora con Melvin e Kevin, conguero e trombonista salvadoregni conosciuti durante una jam al parco Lambro.
Cosa significa oggi fare parte di un collettivo?
Siamo un collettivo perché oltre ai 13 musicisti transitati in tre anni abbiamo intorno un bel gruppo di amici e amiche; fotografi, poeti, grafici, videomaker, fonici, dj, funamboli, pirati… In più di un’occasione abbiamo creato eventi, in strada o locali, con le nostre sole forze, recuperando l’impianto da qualcuno, il generatore da altri, mentre vari complici si davano da fare per riprendere, preparare da bere, la locandina, i visual, etc. Il nostro sogno è avere un luogo e una dimensione per suonare e creare al di fuori della solita dinamica prove-concerto-disco e soprattutto da quelle di mero scambio monetario, un po’ come nella Kalakuta Republic di Fela Kuti, a Lagos. Nel nostro piccolo ci stiamo riuscendo, ad ogni concerto abbiamo chi supporta e ci dà una mano e, oltre a un pubblico caldo, anche per il senso di apertura che speriamo si avverta quando si ha a che fare con la banda.
Come sono avvenute le registrazioni di Panamor?
Le registrazioni sono avvenute al sopracitato Il Guscio, studio vintage e fuori dal tempo, nascosto nel sottosuolo del barrio Casoretto. Lì, nel corso del 2019, quel pirata del Lorenz ha registrato e prodotto i sei pezzi in un pugno di sessioni, regalandoci un suono del secolo scorso. Molti dei brani li abbiamo già suonati live; l’ultimo concerto è stato a gennaio al glorioso Cox18 con i fratelli e le sorelle degli Al Doum & The Faryds, con cui condividiamo due musicisti e l’etichetta sperimentale Black Sweat Records.
Avete già pensato a come portarlo live?
Ovviamente la dimensione dal vivo ci manca tantissimo, come avete giustamente notato siamo una band da palco, anche se rasoterra ci troviamo ancora meglio! Quanto alla promozione ovviamente abbiamo le mani legate, ma stiamo pensando a delle sorprese per far girare il disco, in qualche modo. Un’ispirazione potrebbe essere la famosa caccia al tesoro del settembre 1976, dove il premio in palio era un etto di erba sotterrata nel parco Sempione; in centinaia si misero a scavare! Per l’uscita di Panamor, a metà luglio, abbiamo in mente qualcosa di simile, meno illegale e anti-ecologico, probabilmente al parco Lambro o sulla circonvallazione. Diremo presto di più, ma di sicuro questo momento va pensando come un’occasione per attivare la fantasia e aggirare con intelligenza i limiti che dovremo sopportare ancora un po’, di modo da attivare nuovamente una dinamica di incontri e conoscenze imprevedibili.
Quali sono gli ascolti che hanno formato la vostra "musica dal mondo"?
Proveniamo tutti e dieci da esperienze musicali e di vita diversissime, ma la bussola è puntata a Sud. Ascoltiamo afro, cumbia, i Mauskovic, Héctor Lavoe, musica tuareg, la spoken music di Amiri Baraka o la nuova scena jazz londinese... Il risultato della miscela è l’afrolatinbeat, un genere di fantasia e nostra invenzione che si oppone alla deriva dei continenti, avvicinandoli. L’obiettivo a lungo termine è quello di creare una Pangea sonora. Il nome Addict Ameba ha una chiara assonanza con la capitale etiope; il nostro è un tributo all’ethio-jazz, uno dei generi che più ci ispira. Ovviamente questa scelta ha anche un aspetto scivoloso legato al vergognoso passato coloniale italiano non ancora interiorizzato, ma, al contrario, quasi rimosso dalla memoria collettiva, il che è ovviamente molto pericoloso. Vedi il Montanelli affaire…
Andiamo sull'attualità...
Grazie a quella vernice rosa finalmente la città si chiede: non è uno sfregio avere quella statua, oltretutto in un quartiere come Porta Venezia, abitato dalla comunità etiope ed eritrea? Addict Ameba sono anche le persone ridotte ad amebe-dipendenti da svariate sostanze e modelli di consumo, persone che abitano, lavorano e sopravvivono nelle metropoli del globo capitalista. Metropoli sempre più simili e connesse, Milano compresa. La nostra passione per la musica dal mondo viene anche dal fatto di vivere in questo “porto”: è facile ascoltare musicisti del Centro o Sud America, incontrare maestri africani, sentire l’afrobeat dalla bicicletta di un rider subsahariano, mentre dei ragazzini pompano trap franco-maghrebina e le coetanee impazziscono per il pop coreano. D’altronde da qualche tempo in città si assiste alla crescita di una scena musicale, seppur priva di unità d’intenti, che ha il Sud del mondo come minimo comun denominatore.
Qualche nome?
Nell’underground urbano pulsano band come Les amis d’Afrique, Garuda, Deaf Kaki Chumpy (la nostra intervista), Mombao, Al Doum & The Faryds o Cacao Mental e dj come Soul Finger, Psycophono, Madsoundsystem, Sonia Garcia o Balera Favela. Tutti questi progetti contribuiscono a un’educazione musicale che viaggia nel tempo e nello spazio. Siamo nati e cresciuti in città transculturali, ma il nostro non è un amore ingenuo e incondizionato verso le altre culture, tipico del pensiero ipocrita liberale. Conosciamo e combattiamo le ingiustizie e diseguaglianze sociali che soffocano le minoranze da cui l’occidentale “attinge”, dalla musica alla moda.
Musica politica?
Il nostro non è un vezzo esotico, né un tentativo di sfruttare l’onda lunga della moda legato all’immaginario tropicale; al contrario è un’ipotesi di studio e approfondimento, un tentativo di apertura mentale in un momento storico in cui vengono chiusi porti e cervelli. Pensiamo che il suono possa sfuggire a ogni gabbia e favorire scambi inediti e rivoluzionari, la musica è forse l’unica direttrice che unisce i continenti e gli esseri umani, oltre alle navi cargo, la finanza, gli aeroplani, la rete satellitare. Idealmente noi Addict Ameba siamo delle balene che vagano negli oceani, captano suoni dalle coste, dalle bande che suonano sulle crociere, poi li mixiamo e cantiamo.
Magari non sarà il luogo più esotico del mondo, ma c’è una foto in via Gola che pare racchiudere tutto il vostro spirito.
Quel momento, insieme al concerto a ZUMA, è stato tra i più belli della nostra carriera. Era una festa di quartiere, abbiamo improvvisato un impianto sul marciapiede e suonato per due ore, circondati da un pubblico fantastico, dagli zero ai cent’anni. Il barrio intorno a via Gola, sfuggito all’omologazione dei navigli, “diventati luogo elettivo dello sciabordio e del cazzeggio di un’umanità rumorosa e orrenda”, è uno dei più particolari e popolari del centro città, con un mix di culture, attivisti, perdigiorno, sciure, occupanti, spacciatori e vecchi operai. Non a caso a un certo punto un tipo dal nulla si è messo a suonare il nostro djembé, un ragazzo peruviano ha tirato fuori la tromba, mentre un vecchietto osservava divertito dalla finestra con un sombrero in testa.
Ci sono anche richiami alla musica popolare nel vostro disco?
Oggi il panorama sonoro – o “suonosfera”, creando un neologismo – è pressoché infinito. Stando seduti in salotto abbiamo accesso praticamente a ogni nicchia musicale del pianeta, un’opportunità immensa se solo pensiamo alla fatica che facevano gli etnomusicologi a inizio Novecento. Grazie all’avvento dei mass media, a partire dagli anni '30 e '40 dello scorso secolo, il raggio d’azione della musica popolare è cresciuto enormemente rispetto a quello che potevano pensare compositori come Bartók, Smetana o Stravinskij, che andavano a cercare ossessivamente i canti popolari nascosti delle loro terre.
E oggi?
Oggi la musica popolare rappresenta la stragrande maggioranza del panorama sonoro e va dai canti delle tribù centrafricane agli adolescenti che autoproducono trap nelle lande sperdute degli States, passando per le grandi pop-star e la black music a noi cara. Il nostro far musica “popolare” quindi riguarda una caratteristica centrale e costitutiva del nostro approccio. Un approccio, che, a dire il vero, prima di questa domanda abbiamo sempre affrontato in maniera molto spontanea, ma che ci fa piacere razionalizzare. Fatta questa lunga e leziosa premessa, ci piace citare tra i riferimenti più cari del Lorenz – nostro chitarrista e compositore di quattro brani dell'album – la musica dei film italiani degli anni ’70, con particolare riferimento a un maestro del genere, Fiorenzo Carpi.
Ascoltando Panamor si può ballare?
Abbiamo capito “che lingua parliamo” quando al primo concerto abbiamo visto fare il limbo. Far ballare non è l’ottica con cui componiamo i pezzi, eppure succede dall’inizio alla fine dei nostri live. Ora che siamo consapevoli di questo con il prossimo album puntiamo al twerk!
Un artista o una band con cui dividere il palco?
Bella domanda! Come band ci piacerebbe suonare con Ezra Collective, Höröya o Nu Guinea, anche se forse servirebbero due palchi. Anche un assolo di Yussef Dayes, Sona Jobarteh o Christian Scott non ci dispiacerebbe. Come cantante sarebbe bello avere Fatoumata Diawara, Enzo Avitabile, Rosalía o, se fosse ancora tra noi, Alberto Dubito, il miglior poeta e rapper della nostra generazione: “devo scrivere il mio tempo prima che lui scriva me”.
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L'articolo Addict Ameba, afrolatinbeat contro la deriva dei continenti di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2020-06-17 10:16:00
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