Alborosie è il più importante cantante reggae italiano: da anni vive in Jamaica, dove è stato accolto come un vero originario del posto e dove si è costruito una vita e una famiglia. Ha da poco pubblicato il nuovo album "Unbreakable", in cui è riuscito nella non facile impresa di rimettere insieme i Wailers. L'abbiamo intervistato durante una sua visita a Milano, e abbiamo parlato di molte cose riguardanti la società e lo stile di vita jamaicano, e del perché invece in Italia la scena reggae che in passato era talmente forte da contare molte varianti regionali, si sia eclissata lasciando tutto lo spazio al rap.
Sei nella vetta delle classifiche di molte nazioni, hai calcato palchi di ogni continente. Ormai ti sei trasferito in Jamaica da anni, saresti mai riuscito a diventare Alborosie anche in Italia?
In Italia con il reggae mi ero già fatto notare, con i Reggae National Tickets avevamo raggiunto dei numeri mainstream. Andavo forte. Con la situazione che si era andata a creare in quel momento, se fossi rimasto Italia, avrei potuto solamente fare meglio. Ma gli italiani -oggi e ancora di più ai tempi- sono sempre stati pronti a criticarti, a puntare il dito, dovevo andarmene in giro scalzo con una croce sulla schiena solamente perché ero un artista reggae? Mi ero stufato di questa situazione, non sono andato in Jamaica per diventare un artista reggae perché lo ero già, sono andato in Jamaica per cambiare la mia vita, è stata una scelta spirituale. Mi sono preso un periodo di decompressione, ho staccato da tutto, mi sono abituato alla mia nuova patria. Inevitabilmente, questa nuova vita è finita per influenzare le mie composizioni, ma non è stata una scelta premeditata, è capitato tutto naturalmente.
Però, banalmente, il tuo spostamento in Jamaica avrà influito sulla tua scelta di non cantare più in italiano, comunque, ha certamente svolto un ruolo importante nella tua padronanza del Patois?
Io canto nella lingua del Paese dove abito, canto nella lingua con cui parlo a mia moglie e ai miei figli. Non faccio “lo giamaicano a Milano”, io faccio il giamaicano in Jamaica. Questo mi conferisce una specie di passaporto diplomatico. Una certificazione di garanzia di cui mi vanto, che mi sono dovuto guadagnare negli anni e non all’interno di un discorso esclusivamente musicale. È importante che la gente capisca. Io non sono il tipico esempio dell’artista europeo che canta e ha finito la sua mansione. In Jamaica, purtroppo o per fortuna, esistono tanto altre dinamiche intricate, politiche e sociali, la vita è verace, ci sono tante esperienze che portano a far musica di un certo tipo, esperienze belle e brutte. In fondo, ci troviamo ancora oggi in un paese del terzo mondo. Io sono un fortunato, ma la vita in Jamaica ha certamente conferito alla mia musica quel suo aspetto “struggle”. Questa è la differenza tra la mia musica e quella di tanti altri artisti reggae che non abitano in Jamaica. Lo dico anche in un mio verso “per essere un artista reggae devi essere a contatto con una realtà”.
In Italia, specialmente negli ultimi mesi, il tema dell’immigrazione è forse il più dibattuto. Tu hai in un certo senso vissuto una situazione inversa, sei l’unico bianco in una nazione prevalentemente di origine africana. Com’è raffrontarsi ad una realtà particolare come quella jamaicana e quanto la musica ti ha aiutato ad integrarti?
Io abito a Kingston. In Italia la musica non permea lo stile di vita. In Jamaica la musica è lo stile di vita! La musica è legata alla classe sociale di appartenenza e le classi sociali in Jamaica sono quasi tutte basse. Io vivo nel Garrisons che sarebbe un quartiere per bene, abitato da gente normale, ma circondato dalle “favelas” jamaicane. Ci cammino, sono a contatto tutti i giorni con questo tipo di realtà, sono a contatto tutti i giorni con questa gente. Fa parte di uno stile di vita. La musica mi ha aiutato molto a integrarmi, specialmente in una città come Kingston, ma non è comunque sufficiente a non farti sgarrare.
Qualche anno fa, quando Nina Zilli ti intervistò per Rockit, discuteste in merito alle correnti musicali che andavano per la maggior in Jamaica: una più tradizionalista e una più legata al rap. Probabilmente quest’ultima sarà destinata a crescere ancora. Tu, come esponente della mentalità roots, come ti poni in questo contesto?
La Jamaica ha creato il rap, tutto è partito da lì. Gli artisti americani tutt’oggi attingano dalla cultura giamaicana. Nell’ultimo mese saranno passati almeno 4 o 5 grandi nomi per registrare canzoni o girare video, tra gli altri, anche Jay-Z. La Jamaica ha creato il sound system, il reggae è la base anche del rap. Gli artisti americani continuano ad attingere dalla cultura giamaicana perché la cultura giamaicana è fica. Ed è più stratificata di quel che si possa pensare: la musica, la danza, il movimento di protesta giovanile legato alle feste... È una cultura sanguigna, delle volte anche troppo, ma c’è comunque dell’energia dalla quale la gente attinge costantemente.
D’altro canto, la musica mondiale è sempre più digitalizzata, queste sonorità sono arrivate anche sull’isola influenzando la musica reggae. Con le contaminazioni rap e ora anche dubstep si è creato quel sottogenere denominato dance hall (comunque nel resto del mondo è molto diverso che in Jamaica) ed altre correnti ancora più piccole come la Tropical House. La globalizzazione ha permesso l’incontro di tanti generi musicali con i suoi aspetti positivi e negativi, producendo roba buona o meno buona, ma ogni contaminazione in Jamaica è fondamentalmente legato al ballo, alla cultura del club.
Per quel che riguarda la mia musica io rimango fedele alla mia filosofia roots: roots significa radici, origini. Io non faccio cucina fusion, io porto avanti le tradizioni. Il mio è un ristorante ad andamento familiare. Se non vuoi venire da me sei libero di andare al Mc Donald e mangiare quello che vuoi. Trattoria Alborosie, reggae nostrano dal 1993.
Beh, si tratta sicuramente di un esercizio stilistico e le sonorità della tua versione sono totalmente reggae, ma riproporre una canzone dei Metallica ("The Unforgiven") in questa salsa è veramente cucina fusion.
Esercizio stilistico è il termine esatto. Io in studio… studio. Compongono un sacco di roba, non tutta mi piace, fortunatamente negli anni ho sviluppato un senso del gusto molto raffinato. I Metallica li ascolto da quando avevo 15 anni, per me i Metallica sono roots, sono origini. Questo è un esperimento fusion ma è un esperimento fusion old school, tra due estremi opposti: l’angelico reggae e il metal demoniaco. Fa parte anche della challenge, della sfida che ti da motivo di continuare a far musica.
Che ti permette, pur rimanendo fedele alla linea, di suonare sempre moderno?
Cerco sempre di essere moderno. La Jamaica è un paese trendy, in Jamaica non esiste la concezione del vintage. Ho una predisposizione naturale verso questa mentalità, non abbandonerò mai le radici ma tutto ciò che devo fare uscire deve suonare fresh.
Il tuo album precedente, "The Rockers", contava su molte collaborazioni. Insomma, ti vedeva nelle vesti di produttore, e questo cambio di ruolo avrà implicato delle evidenti differenze musicali. Con "The Rockers", insomma, sembrava volessi sondare fino a che punto potesse spingersi il reggae, mentre con "Unbreakable" hai veramente voluto fare un album che suonasse old school?
La differenza è proprio quella. "The Rockers" è un disco che vede Alborosie nelle vesti di produttore, "Unbreakable" è il mio disco da compositore e cantante. Io produco tanti artisti internazionali, ultimamente ho lavorato con Carotone. Faccio tanta musica rimanendo dietro le quinte, la gente non se lo aspetta da Alborosie. Questa è la mia filosofia, da produttore posso permettermi di fare quello che voglio, di assecondare anche le richieste di chi si rivolge a me e magari non è un artista reggae. Nel corso degli anni, tutto questo è servito ad affinare le mie orecchie e la mia sensibilità musicale. Con "The Rockers" non volevo fare un disco reggae cantato da artisti italiani, sarebbe stato banale. Volevo confrontarmi con delle realtà, un po’ quello che in Italia stanno facendo Takagi & Ketra.
Intendi una mentalità da produttore americano? A proposito, questa potrebbe essere la tua strada futura o ti immagini a calcare palchi per tutta la vita?
Questa è una bella domanda. Perché io credo nel ritiro. Mi spiego. Non credo che mi ritirerò mai dalla musica ma i tour sono sfiancanti. Dietro ogni tour c’è un lavoraccio: organizzazioni, viaggi intercontinentali, maratone sfiancanti, stipendi da pagare, fusi orari. La gente balla e si diverte, ha pagato un biglietto, giustamente non si rende conto che delle volte io dentro possa sentirmi uno schifo. Ci sono dei momenti del tour in cui vorresti solamente essere a casa con tuo figlio.
Il ritiro può anche essere comportato da questioni fisiche, ma un ritiro dai palchi non impedisce di cantare, non impedisce di andare in studio… In futuro probabilmente farò un passettino indietro, mi nasconderò dietro le quinte. Il produttore, lo scrittore di testi, l’arrangiatore, non so in quale forma ma il mio rapporto con la musica continuerà fino alla fine dei miei giorni.
A "Unbreakable" hanno partecipato alcuni dei membri originali dei Wailers, la leggendaria band che ha accompagnato la carriera musicale di Bob Marley. Un po’ come un giovane calciatore che eredita la maglia indossata per anni da una bandiera, non hai sentito un po’ di peso, di responsabilità?
Non è stato difficile lavorare con loro. Ognuno può lavorare con loro singolarmente ma metterli tutti insieme è stata l’impresa. Ancora oggi si portano dietro delle vicende personali e degli strascichi dai tempi della morte di Bob Marley. Questa è veramente gente che ha fatto la storia. Sono rockstar, a prescindere dal fatto che facciano reggae. Loro e Bob Marley stanno al reggae come Iggy Pop e gli Stooges stanno al rock. Ma ecco, farli sedere tutti intorno al tavolo, coinvolgerli in un progetto moderno, posso dirtelo sinceramente, non lo avrebbero fatto con nessun altro. Non so se qualcuno riuscirà ancora nell’impresa. Questa è la magia di "Unbreakable".
Quando io ero ancora molto giovane, a cavallo col nuovo millennio, il reggae era un genere che andava molto forte in Italia, addirittura esistevano delle vere e proprie correnti regionali. Al giorno d’oggi, gli artisti reggae italiani più importanti come te e i Mellow Mood cantano in “inglese”, hanno raggiunto una fama mondiale, eppure questo successo ha comunque coinciso con un diradarsi delle scene locali. Negli stessi anni in cui il reggae andava forte nei centri sociali gli stessi centri cominciavano a spingere i primi gruppi hip hop. Per quale motivo, pur avendo la stessa origine, un genere è riuscito ad imporsi così pesantemente e l’altro no?
Hai detto bene, anzi, la scena è proprio scomparsa. Io sono un caso a parte benedetto, insieme ad altri due o tre fortunati. La musica reggae è una musica di protesta, non solo a livello verbale ma a qualsiasi livello espressivo, la protesta si respira nel suo alone. La musica reggae è evoluta ma è rimasta fedele alla linea, il rap invece no. Il rap ormai tratta esclusivamente quegli argomenti, i soldi, la fica e i gioielli d’oro. Con la situazione che c’è al momento in Italia, con questo razzismo dilagante, come potrebbe non avere successo? Se devi scegliere tra me che parlo di Etiopia e Selassie e chi ti parla di puttane tu cosa scegli? È marketing facile.
Col reggae è tosta, noi siamo guerrieri. Io potevo sbattermi a fare un disco con Drake, avrei guadagnato di più, ma ho fatto un disco con gli Wailers. Non voglio fare musica per comprarmi un auto di lusso, voglio fare musica che rimanga nella storia. I ragazzi d’oggi non ascoltano più il reggae, sono troppo distratti dai denti d’oro. A Milano puoi fare carriera nel rap se ti fingi ganster, a Kingston no.
Tra un genere musicale dichiaratamente pacifista e una cultura così violenta non c’è una contraddizione insita?
In Jamaica la criminalità non esiste, vorrei fosse chiaro, in Jamaica è cultura, tutta la gente è armata. In Jamaica non passi certi limiti perché qualunque persona può essere pericolosa. In Jamaica chi fa il gangster può veramente permetterselo. Io sono fortunato perché sono un rasta. Noi denunciamo la violenza, cantiamo della polizia corrotta, dei politici corrotti, della violenza nelle strade, il sistema, Babylon. Non continuiamo questa tipo di protesta. Contradiction is global / Noi siamo gli angeli tra i demoni.
Dalla Jamaica, ora che ci vivi da tanti anni, come vedi l’Italia?
Voi dall’interno non potete vederla come la vedo io, dalla Jamaica è come se la guardassi dall’alto di un monte dove tutto mi sembra piccolo. Sono molto deluso dalla mia nazione natale, in pratica sono stato cacciato dall’Italia. La mia musica era troppo visionaria, gli italiani sono informatissimi su tutto: calcio, musica, politica… Eppure, dopo tanti anni, si va sempre più indietro. Dov’è questa cultura che tutti quanti millantiamo se poi alle elezioni vince Salvini. Siamo tutti esperti di calcio, tutti campioni, facciamo i milioni con questo sport ma siamo fuori dai mondiali. Questa è esattamente la metafora della nostra nazione.
Sono ormai 20 anni che sono via. Porto i miei figli a scuola in Jamaica, il mio medico è jamaicano, il mio avvocato è jamaicano, la mia banca è jamaicana. Anche i miei genitori si sono abituati e ora passano molto tempo con me. Mia mamma non ha problemi, mio padre è un po’ più complicato, da buon meridionale, dopo 3 settimane comincia a mancargli il sud Italia. Non ho più legami con l’Italia, non ho parenti in Italia, ho imparato a guardare sempre avanti, non posso più permettermi di guardarmi indietro. Ho disimparato ad essere italiano, mi sono liberato di quel senso di colpa.
Ora mi sento realizzato, i miei concerti sono sempre stati un po’ polemici, ho sempre fatto un po’ di predica, specialmente quando le mie tappe toccavano l’Italia. Dopo 25 anni il fuoco brucia sempre, ma se prima ti arrivano le scintille, ora devi andare a cercarti un po’ di calore.
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L'articolo Trattoria Alborosie, reggae nostrano dal 1993 di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2018-07-18 11:41:00
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