Il suo "Controluce" è uno dei nostri dischi dell'anno. Per il suo esordio solista Andrea Poggio, ex mente e voce dei Green Like July, ha scelto l'italiano, che declina in uno stile stralunato e molto personale. Qui ci racconta il suo nuovo inizio. Il 16 febbraio poi, c'è lo farà ascoltare dal vivo al MI AMI Ora (prevendite qui)
Com'è nata la voglia, o l'esigenza, di fare un disco da solo e di farlo in italiano?
Cinque anni fa, durante le registrazioni dell'ultimo disco dei Green Like July, mi sono reso conto che si stava iniziando ad incrinare qualcosa. Paradossalmente “Build a Fire” era il disco nel quale riuscivo, per la prima volta in dieci anni, ad avere il pieno controllo di quello che stavo facendo da un punto di vista musicale. Allo stesso tempo, mi rendevo conto di non riuscire ad avere una completa padronanza del mezzo espressivo con cui avevo scelto di scrivere i testi delle mie canzoni. Per mia sfortuna, sono una persona posseduta da tutta una serie di più o meno patologiche manie di perfezione, e riuscivo sempre meno ad accettare quell'inevitabile scarto di significato che si viene a creare nel momento in cui si usa una lingua che non è la propria. Per quanto si possa ben conoscere l'inglese, c'è sempre una piccola parte di significato che viene persa nella traduzione, come se si identificasse più o meno l'ambito o la direzione in cui deve andare un verso o un testo, ma allo stesso tempo si lasciasse inevitabilmente qualcosina al caso. Da qui, appunto, il graduale disaffezionarsi alla lingua inglese e, di conseguenza, la scelta di provare a scrivere in italiano.
Nel momento in cui mi sono approcciato a questa nuova esperienza mi sono reso conto che stavo andando in una direzione estremamente diversa rispetto a quanto avevo fatto fino ad allora con i Green Like July. Ecco come è nata l'esigenza di proseguire cambiando progetto. Tutto ciò premesso, aggiungo un’ulteriore considerazione. Penso che con i Green Like July si fosse come chiuso un piccolo ciclo, ovvero credo che con “Build a Fire” avessero detto tutto quello che avevano da dire e l'avessero fatto abbastanza bene. Volevo prendermi una pausa da quella mia creatura in quello specifico momento.
Mi piace questa onestà nel dire “abbiamo detto quello che avevamo da dire”, non è da tutti.
Non so se è da tutti o da pochi, nel dirlo ne sono molto convinto. Credo che “Build a Fire” fosse un po' la summa di tutto quello che stavamo cercando e inseguendo. In quel momento, provare a far meglio di “Build a Fire” non era una cosa che mi interessava fare. A riascoltarlo oggi, è un disco al quale sono ancora molto legato e che credo rappresenti un punto espressivo significativo. Quindi perché andare oltre? Nel momento in cui ho iniziato a cantare in italiano mi sono reso conto che usare l'italiano era come utilizzare uno strumento musicale diverso, con dei colori e delle esigenze metriche e fonetiche profondamente diverse rispetto all'inglese. L’italiano mi stava portando in una direzione forse più interessante. Per la prima volta mi toglievo la maschera dell'Andrea Poggio che, per citare Paolo Conte, vive in quelle città d’oltreoceano di madreperla e argento. Per la prima volta vestivo i ben più realistici panni dell’Andrea Poggio che vive in Pianura Padana, che è nato e, tutto sommato, sempre vissuto qua.
Hai uno stile molto particolare nei testi, nel senso che c'è un qualcosa di surreale e nello stesso tempo una grande precisione, ci sono luoghi, orari precisi, pensi che possa entrarci qualcosa il tuo essere avvocato?
Fatico molto a distaccare la mia persona dai testi che scrivo, sicuramente penso che una parte della mie storture e deformazioni professionali confluiscano nel mio modo di esprimermi attraverso i testi. Ad ogni modo penso che non spetti a me analizzare i testi delle mie canzoni, non ho la giusta prospettiva per esaminarli con il necessario distacco.
Il disco lo definirei anche un po' dicotomico, nel senso che risulta spiazzante il modo in cui musicalmente c'è molto gioco, dà l'impressione che ti sia divertito a farlo, ad arrangiarlo, però c'è anche un tono molto malinconico, introverso.
Sono pienamente d'accordo con te, credo che “Controluce” rispecchi un periodo della mia vita che è stato caratterizzato in egual misura da momenti sereni e da momenti forse più angosciosi. Ho cercato di alleggerire e di trattare con ironia i periodi di maggiore affanno e tormento, o almeno spero di esserci riuscito.
Ad esempio, è ambientato spesso in estate, ma non c'è mai un senso di vera spensieratezza; anche quando si parla di vacanza, c'è sempre un distacco, questo guardare “I turisti” da fuori, questi scenari un po' desolati...
Tanti aspetti di questo disco li sto scoprendo anch'io progressivamente. Nel processo e nella fase di scrittura di una canzone o, a maggior ragione di un disco, faccio fatica a cogliere e a identificare il significato di quello che sto facendo. Un po' perché, da sempre, mi oppongo a quella necessità di esegesi o di sinossi che si ha nel momento in cui ci si approccia a una canzone, a quella sorta di irrefrenabile istinto a cercare un significato, un'interpretazione autentica che ripecchi le intenzioni reali, detto fra virgolette, dell’autore. Quando guardo una fotografia o un film sono altre le domande che mi pongo rispetto al chiedermi quale sia il vero significato o, addirittura, il messaggio che l'artista ha voluto trasmettere con quell'opera.
Molto spesso i miei testi nascono da uno spunto o da una frase, da un'idea che talvolta, ma solo talvolta e in rarissimi casi, si trasforma in una canzone vera e propria. Questa trasformazione avviene dopo mesi di lavoro e di sacrificio, dove ogni passo che muovo è in costante equilibrio tra tutta una serie infinita di stimoli e dove un ruolo importante lo giocano la fortuna, il mestiere e la virtù.
Quindi, tornando alla tua domanda, forse andrebbe così riformulata: cosa accade in quel momento che separa la nascita dell'idea dalla canzone finita? La risposta è che accadono tantissime cose, alcune delle quali mi risultano più chiare, altre invece si dissolvono e si perdono nel processo creativo. Molte delle canzoni di “Controluce” sono nate in un ambiente abbastanza preciso e delineato, pensiamo a “Mediterraneo” o a “I turisti”. Tuttavia, nel corso dei mesi e durante il processo di scrittura, quelle stesse canzoni hanno preso delle direzioni insolite, subendo tante piccole o grandi deviazioni dall’idea originale. Il fatto che sia “I turisti”, che “Vento d'Africa”, che “Mediterraneo” per usare le tue parole, esprimano una visione distaccata, alienata o desolata, è dovuto a tutta una serie di fattori dei quali non posso fare altro che prendere atto. Se prendiamo ad esempio “Mediterraneo”, la canzone può essere descritta, semplificando, come l’avvicendarsi di una serie di immagini un po’ sognanti e da cartolina che attingono dai ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza. Tuttavia, su questa successione quasi romantica di fotogrammi e di diapositive, con i mesi, progressivamente, si è innestata una presenza più scura e inquietante. La si ritrova nel ritornello, è ben presente negli arrangiamenti di Enrico Gabrielli ed emerge definitivamente nel finale, dove questo senso di angoscia o di oppressione diventa palese e manifesto. Come mai l’idea inziale ha subito una simile trasformazione? Per quanto mi riguarda, non sono sicuro di riuscire a darti una risposta. Forse potrebbe aver senso fare questa domanda ad Enrico? Non lo so, quel che è certo è che le canzoni a volte prendono direzioni inattese. E questo è ancor più vero se si pensa alle varie fasi di scrittura, di arrangiamento, di registrazione e di mixaggio, se si pensa a quante persone intervengono prima che il processo creativo possa dirsi definitivamente concluso.
Sembra esserci un filo conduttore nel disco che è questo camminare, vagare più che viaggiare, come cercando un centro, una direzione, in questi luoghi sempre un po' spettrali, e visti dall'esterno, mai vissuti.
Sono molto affascinato dalla tua visione del disco e in parte mi sento di condividerla. Sto progressivamente capendo che forse i reali protagonisti di “Controluce” sono i luoghi piuttosto che le persone, ma di questa cosa me ne sto accorgendo, soltanto adesso. Quando scrivo una canzone a quella canzone riconduco tutta una serie di suggestioni, di emozioni, di accadimenti o di persone legate a quella specifica fase della mia vita in cui la canzone è stata concepita. Il fatto che poi queste riescano a trasparire dalla canzone è una cosa della quale io non mi occupo e che è completamente eventuale e, in fin dei conti, di secondaria importanza. Quando mi chiedi che cosa vuol dire tutto questo camminare per le città, ti potrei rispondere che il fatto che da te la canzone venga letta in un modo piuttosto che in un altro è l’unica cosa che conta e che mi interessa, perché alla fine sei tu ad essere l'utente finale.
Le canzoni sono di chi le ascolta.
Sì, assolutamente, io sono di quest'idea. E sono anche dell’idea che l’unica cosa ad essere rilevante è il valore che a una canzone dà chi la ascolta, soprattutto quando una canzone è là fuori. Quando decido che un brano deve considerarsi finito, me ne distacco completamente, anzi si rompe quel legame vitale che ha reso per me la canzone interessante per tutti i mesi in cui ci ho lavorato. La canzone inizia ad avere una vita nuova ed autonoma, assumendo progressivamente inediti significati anche per me che l’ho scritta.
Quindi riesci ad esempio a riascoltare una tua canzone come se non l'avessi scritta tu?
Con la giusta prospettiva sì, probabilmente ci vuole un po' di tempo, mesi se non addirittura anni. Però per me una canzone deve mirare a questo, deve puntare più al generale che non al particolare. Quando scrivo, cerco di creare delle canzoni aperte ad un significato più ampio e meno definito. Solitamente sono di questo genere i dischi che mi piace ascoltare, i libri che mi piace leggere, i film che mi piace guardare, dove il significato non è così immediato o diretto e che si aprono a più interpretazioni e a più letture.
C'è qualcosa di musical nel disco, è un mondo, un immaginario che ti piace?
Devo dirti che questo disco è nato dal mio totale abbandono della chitarra come punto di partenza per la scrittura dei brani. Con i Green Like July la chitarra era sempre stato lo strumento da cui la canzone prendeva le mosse. Per “Controluce” mi sono lasciato aiutare dalle moderne tecnologie, componendo il disco interamente al computer.
Maneggiando maldestramente GarageBand, mi sono trovato per la prima volta a scrivere un disco avendo a disposizione tutti gli strumenti musicali, senza alcun tipo di limite tecnico o logistico. Questo mi ha spinto, da un lato, a delineare gli arrangiamenti già in fase di scrittura, cosa che con i Green Like July non era mai successa, dall'altro a utilizzare tutta una serie di strumenti che di fatto non so suonare, ma che ovviamente possono essere utilizzati avvalendosi di appositi programmi e sintetizzatori. È questo nuovo approccio che mi ha portato a concepire un’idea di arrangiamento forse più articolata rispetto a quanto fatto in passato. Per tornare alla tua domanda, non saprei dirti se, più di tanto, le colonne sonore o addirittura i musical abbiano influenzato “Controluce”. Sicuramente mi piacciono tantissimo Riz Ortolani, Morricone e Nino Rota, però mi sembrano ascolti abbastanza ovvi, chiunque operi e lavori in Italia, in un modo o nell'altro, può dirsi influenzato anche solo in via indiretta da questi autori. Penso che, nel momento in cui mi sono trovato a confrontarmi con certi modelli, ho preso come spunto autori come Van Dyke Parks, per fare un esempio, oppure la Kate Bush più sperimentale, cioè artisti che hanno fatto nel corso della loro vita scelte coraggiose, percorrendo strade forse inconsuete, ma incredibilmente affascinanti.
Che tipo di live porterai in tour?
Il tour partirà a gennaio e sarà caratterizzato una proposta il meno rock possibile: non ci saranno batteria, basso e tutte quelle cose che nel corso di questi anni mi hanno portato ad avere gli acufeni ad entrambe le orecchie. Sarà un concerto suonato da un ensemble di quattro persone, oltre a me ci sarà Caterina Sforza che è molto brava e che canterà le parti di voce cantate da Adele Nigro (Any Other) sul disco, ci sarà Yoko Morimyo, la violinista con cui ho registrato “Controluce”, e Gak Sato, che è un noto produttore e sound artist, che suonerà le tastiere e che manderà in base le parti ritmiche ed elettroniche. Sarà un live a metà strada tra Jay-Z e Giuni Russo.
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L'articolo Le direzioni inattese delle canzoni: l'intervista ad Andrea Poggio di Letizia Bognanni è apparso su Rockit.it il 2017-12-28 10:00:00
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