L’EP di debutto di Anzj è un viaggio nello Spazjo che conferma e prosegue la collaborazione di Andrea Anzivino con RKH, etichetta indipendente torinese, con cui il 25 settembre ha pubblicato l’ultimo singolo bevo troppo (clancy), in attesa di altra musica in arrivo: "In ballo ci sono tantissime belle cose e tanti featuring con artisti diversi. Senza spoilerare troppo: sono tornato a lavorare con Estremo,che ha fatto una produzione con Irbis", anticipa Anzj: "Con lui avevo fatto Muri e Tastiere, uno dei brani che più amo. Torneremo con i prossimi pezzi a una dimensione più acustica e in generale stiamo cercando di 'ibridizzarci', e navigare verso un misto tra acustico e elettronica", dice.
Anzj, 21 anni, nato a Milano, dopo l’infanzia e l’adolescenza passate in provincia di Vercelli, a Gattinara, tra le valli piemontesi, torna nella city per studiare e per continuare più seriamente a fare musica: un intrigo tra emo rap, trap, lo-fi, indie e future bass. Sonorità che riempiono un cantato strascicato, caratteristico dei suoi pezzi, dove spesso predomina la piacevolezza melodica e del suono all’orecchio, piuttosto che l’articolato significato del testo.
Ha sempre avuto tensione verso il mondo della musica e il suono ha sempre attratto Anzj: "Da piccolo mi mettevo a suonare le pentole con le bacchette e i cucchiai per imitare la batteria", racconta, e continua: "Crescendo ho provato ad approfondire questa passione: ho iniziato con lo studio del pianoforte, poi, durante le superiori, sono riuscito a trasformare la musica in qualcosa che piano piano sta diventando il mio lavoro".
Nel 2014 il giovane comincia a produrre digitalmente solo strumentali, fino al 2017, quando con un nome diverso (anzi, lo stesso, ma con la y: Anzy) inizia a cantare sopra le sue basi, alla ricerca di un modo più esplicito con cui comunicare e farsi capire: "Sentivo che il ritorno che avevo dalle tracce esclusivamente strumentali non era quello che ricercavo. Non tanto a livello di numeri, quanto a livello di comunicazione: percepivo che ciò che volevo esprimere era già abbastanza astratto e avevo bisogno di un testo per veicolare dei significati più precisi", dice Anzj.
Nel 2018 comincia a cantare sulle sue produzioni: "All’inizio è stata una novità difficile da gestire. Entrare a contatto con la propria voce è un’esperienza strana, quasi extrasensoriale, soprattutto quando la senti catturata dai microfoni professionali e ascolti la tua voce per la prima volta. O almeno, a me è successo questo", racconta. Poi, con il tempo ha acquisto la confidenza giusta ed è diventato più sicuro delle sue abilità. Anche se, ancora adesso, è in perenne lotta con sé stesso perché non canta mai nel modo in cui vorrebbe: "Sto prendendo lezioni di canto, infatti", dice.
"Con la voce e il cantato sono riuscito a dare più sfogo alla mia musica, anche dal punto di vista melodico, fino a renderla qualcosa di più particolare e più ricercata rispetto ai miei inizi, quando non cantavo e tiravo fuori roba molto flat. Si tratta di un processo tutt’ora attivo: non mi sento di essere arrivato da nessuna parte e, soprattutto, non mi sento un cantante. Non nasco come tale, voglio sottolinearlo”.
Come preferisci definirti?
Mi considero più un musicista. Non tanto nel senso classico e accademico di chi studia gli spartiti, ha tante ore di repertorio e sa studiare e suonare in maniera meticolosa e tecnica uno strumento, quanto come una persona che ha la passione per il suono. Cioè, tutto quello che concerne l’audio – che sia l’acustica o il sound design. Mi attraggono tutti i discorsi intorno al suono, anche quelli che astraggono dalla pura teoria ed esecuzione musicale.
Come è cambiata la tua vita con l’ingresso a Milano?
Considero il trasferimento a Milano come l’inizio vero della mia "carriera" tra virgolette (sono davvero solo all’inizio!). Il tipo di energia che ho respirato, il tipo di esperienze che ho cominciato a fare in questa città mi hanno stimolato tantissimo rispetto alla situazione provinciale che vivevo prima. Dove gli stimoli esterni non c’erano o c’erano, ma non erano quelli che cercavo io.
Come sono stati gli anni in provincia e cosa ti rimane di quel periodo?
Difficili. Sappiamo bene che i gruppi di persone e le società giovanili sono molto omogenee e in provincia o altrove. Fuori dalle città o sei uguale al gruppo o sei fuori. Se sei fatto in un modo diverso dalla maggioranza, non hai possibilità di esprimerti completamente al cento per cento e trovare altre persone simili a te non è facile. In provincia devi adattarti e io non sono mai riuscito a farlo. Mi sono ritrovato abbastanza solo in passato. Nel tempo in cui ho vissuto lì, quella realtà mi ha negato la possibilità di trovare il mio gruppo. Di conseguenza mi sono chiuso: potevo solo pensare, leggere, ascoltare musica, scrivere. È lì che ho iniziato a vivere con un approccio più introspettivo e riflessivo sulla realtà: questo mi è rimasto e probabilmente mi ha permesso di sviluppare l’immaginario da cui attingo ora per fare musica.
Da Anzy a Anzj. Motivo di questa "j" ovunque?
Anzy era il nome con cui, durante il periodo delle scuole medie, ero registrato su tutti i vari account possibili e immaginabili. Quando ho deciso di distribuire il mio primo brano in maniera indipendente su Distrokid avevo paura che il profilo venisse collegato a un Anzy già in circolazione. Allora, ho pensato di sostituire la y con la j, che poi è diventata un po’ il mio marchio di fabbrica. Anche per far capire alle persone che non si pronuncia "Anzi J", ma "Anzi", ho sostituito nei titoli delle mie canzoni la j alla i, così la gente capisce che con me, la j deve leggerla in un certo modo. È stata una roba che si è evoluta e definita nel tempo. Una conseguenza che, poi, ho sfruttato anche per caratterizzarmi.
Cosa curi maggiormente in un brano?
Sicuramente il suono. Un brano in primis deve lasciarmi "qualcosa" di bello e piacevole da sentire. Deve stupirmi: non può essere semplicemente orecchiabile, ma deve coinvolgermi subito. Per questo motivo, spesso il testo nelle mie canzoni passa in secondo piano. Ciò non significa che non mi curi di quello che dico, ma che parta dalla strumentale, dal suono, piuttosto che dal significato dei testi. Motivo per il quale non è raro che mi ritrovi ad adattare i testi alle strumentali, e non viceversa, come accade di norma.
Come definiresti, allora, il tuo sound?
È davvero difficile definire il suono in sè. Sicuramente nella mia musica ci sono delle tracce rap, perché, comunque, utilizzo l’808 – il suono tipico della trap – in tutti i brani. Ci sono sonorità indie, lofi, e in alcuni brani ci sono anche tracce di future bass. Dopo Spazjo sono tornato – con una canzone che non ho ancora pubblicato – ad esplorare il future bass, un genere che mi ha sempre attratto, ma che in Italia non ha mai attecchito così tanto come altrove – vedi The Chainsmokers –.
Punto "debole" della tua musica?
Più che della mia musica, della mia persona: il mio punto debole è l’impazienza. Una condizione che inevitabilmente si ripercuote su quello che produco. La volontà di finire subito quello che sto facendo mi preme continuamente. Mi stufo molto, molto, molto velocemente e se non chiudo un brano in due settimane, non lo faccio uscire. Tutto questo si traduce in una musica che, a volte, potrebbe risultare fin troppo istintiva e magari si percepisce che potrei arricchire i miei pezzi e renderli ancora più completi. Potrei creare molti più layers, molti più strati, e rendere la mia musica molto più organica. Ma sono impaziente e pigro.
Punto di forza?
Potrebbe essere proprio l’istintività e l’immediatezza. Per impazienza scrivo e produco molto rapidamente, e ciò mi permette di raggiungere quasi subito il sound che cerco. Questo aspetto potrebbe percepirsi, ma non è per forza una cosa negativa, anzi: credo che i miei brani siano accessibili a tutti, per quanto io cerca sempre di creare qualcosa di imprevisto e mai scontato (a livello armonico, di progressioni, eccetera –.
Nel ritornello dici "Senza troie". Non credi che il linguaggio in musica debba cambiare?
Questa domanda mi mette davvero in crisi. Io stesso sono appassionato di linguistica e conosco perfettamente la questione. Tuttavia, credo che la lingua debba essere usata tutta, senza contenersi e senza censurarsi. Non mi faccio condizionare dalle cose che le persone vogliano che io dica – e lo dico spesso, anche nei miei brani – e il fatto che io utilizzi quella parola è abbastanza significativo: semplicemente mi ha da la possibilità di sbloccare un mondo più R&B, più crudo, più street, anche dialettale, popolare. Sono convinto che con i mezzi che abbiamo oggi non sia necessario cambiare il linguaggio, ma più che altro sia importante arrivare alle persone giuste. Senza cambiare il linguaggio: se la gente vuole ascoltarmi mi ascolta, non voglio fare il martire o l’avvocato della buona musica o della buona parola. Ancora non riesco a percepire questa componente formativa della musica. Se ascoltassi Sfera, dalle sue canzoni non mi aspetterei davvero un insegnamento o un messaggio. Ascolto un certo artista perché mi gasa il modo in cui parla di quello che vuole e perché mi piacciono le sonorità che utilizza. Fine. Credo che non sia la parola in sé il problema, ma il modo in cui viene percepita. Perché la parola è soltanto un involucro: sono le persone che gli danno il significato che vogliono. E in bevo troppo (clancy), non c’è alcun intento di offesa.
Di cosa parli nel tuo ultimo singolo?
Divido bevo troppo (clancy) in due sezioni: nella prima parte descrivo la condizione di "bere troppo", in cui ultimamente mi ritrovo spesso. Nella seconda parte, invece, il protagonista è Clancy di The Midnight Gospel, serie assurda che avevo appena finito di guardare nel periodo in cui ho scritto la canzone. Mi aveva gasato un casino – sono super fan di questo tipo di cultura pop –, perchè i personaggi sviluppano una serie di discorsi interessantissimi. ll collegamento tra le due parti della canzone è questo: come Clancy, nella serie, cercava di scappare dalla sua pace quotidiana viaggiando in mondi assurdi e alla ricerca di esperienze fuori di testa, allo stesso modo una persona può rifugiarsi nell’alcol e altrove pur di scappare dalla monotonia e dalla quotidianità in cui si trova. Il linguaggio spinto che ho utilizzato – per rispondere meglio alla domanda di prima, in riferimento al ritornello che dice "senza troie" – rappresentava proprio questa voglia di evadere e di trovare una via di fuga: in bevo troppo (clancy) mi sono permesso di uscire dal mio solito immaginario. Il brano è la fine di Spazjo, una sorta di spin-off, inteso come via di fuga dal viaggio che ho fatto nell'EP.
Che messaggi veicoli con la tua musica?
Di essere creativi e di non limitarsi nell’invenzione e nella ricerca di cose, immaginari, linguaggi nuovi. Serve creatività in qualsiasi campo, nel lavoro come nell’amore. Essere creativi è un aspetto fondamentale per scoprire innanzitutto sé stesso e i propri limiti, per scoprirli e per affrontarli. Senza cadere nel banale, c’è anche un pizzico di redenzione nella mia musica: la fame di farmi considerare. Qualcosa che, quando ero più giovane, non ho mai ottenuto. Ho sempre desiderato trovare un posto che fino ad ora mi è stato negato e mi ha fatto sentire escluso. Con la musica, l’ho trovato.
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L'articolo Anzj, alla ricerca di uno "Spazjo" nel mondo di Claudia Mazziotta è apparso su Rockit.it il 2020-09-28 16:30:00
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