Domani sarà in tutti i negozi di dischi "Roma Live!", il primo album dal vivo dei Baustelle in quindici anni di carriera, arricchito da uno speciale artwork ad opera di Malleus, studio artistico e grafico molto popolare nel mondo dell’art-rock.
Registrato nel corso del loro tour più recente, l’album è un disco live e al tempo stesso una raccolta di grandi successi: contiene molte delle canzoni più importanti che hanno fatto la storia del gruppo, da “Charlie fa surf” a “La guerra è finita”, passando attraverso “L’aeroplano”, “Il corvo Joe”, “Le rane”, “La moda del lento”, “La canzone di Alain Delon” e tante altre, oltre che a due cover inedite dei Divine Comedy e Leo Ferré.
Li abbiamo incontrati a Milano per fare un po' il punto di questi primi 15 anni di carriera.
"Roma Live!" è un disco che in qualche modo segna un punto d’arrivo della vostra carriera, una sorta di greatest hits reso dal vivo. Riguardare da qui i Baustelle di 20 anni fa vi fa tenerezza?
Rachele: Io li guardo con tenerezza, con affetto, con allegria, con soddisfazione. Insomma, col sorriso. Sono soddisfatta se mi guardo indietro. Lo rifarei, nonostante alcune cose per le quali ho sofferto, e nonostante alcune difficoltà che ho incontrato
Francesco: Però riguardare ai Baustelle di 20 anni fa, fa anche tanta tenerezza
(cantano all'unisono: “E un po’ di tenerezza...”)
Avete pressappoco tutti 40 anni. Dopo tutto questo tempo passato nel music business, come artisti ma anche come ascoltatori, si riesce ad essere ancora curiosi verso la musica e tutto quello che le gira intorno?
F: Sì, secondo me si può essere curiosi almeno fino ad oltre la nostra già veneranda età. Dipende da chi sei, da come ti tieni in allenamento. È anche molto una questione esistenziale, come passi la vita, se sei triste o depresso, cosa fai, se sei sul lastrico.. ci sono tanti fattori che continuano a tenere vivo l’interesse e la curiosità.
I vostri quali sono?
F: Il fatto di continuare a fare un mestiere che ci piace, per cui in parallelo ci viene voglia di sentire altra musica oltre quella che facciamo noi. E poi per quanto mi riguarda, io vengo da un’epoca in cui la musica andava ricercata, non veniva lei da te. Sono uno che ha ancora vivo dentro il concetto della scoperta. Questo nuovo assetto digitale, questa modalità di fruizione musicale, invece ti imborghesisce. O meglio, ti rende un vorace borghese. Mangi tante cose senza mai mangiarle tutte. Non vai mai in profondità. Questo è quello che incide anche su di me che vengo da un’altra epoca. Ho molta curiosità ma mi trovo a rimanere sempre in superfice. Con il computer e lo smartphone posso ascoltare tutta la musica che voglio in streaming, ma per me, cazzo, per uno che scopriva un disco alla volta, è ovvio cedere allo skip. Proprio perché ho davanti tutta la musica del mondo, voglio vedere cos’altro c’è.
Parlando di tracce: nel track by track che avete pubblicato nelle ultime settimane mi hanno colpito molte cose, ma in particolare una dichiarazione di Francesco, testuale: “La canzone di Alain Delon è brutta e stupida. Eppure funziona”. Di fronte a questa dichiarazione-shock molti fan credo siano sbiancati
È brutta tra virgolette, è armonicamente banale. Lo è. Il testo, che è una specie di non-sense, con un arrangiamento che però è interessante dà come risultato una cosa che funziona. Non c’è niente di male. Non è uno svilirla… a parte che ultimamente sento un casino di cose in radio, roba brutta che funziona. Quindi ho diritto di dirlo per un mio pezzo (ride). Semplicemente è una canzone molto semplice. Ci sono cose stupide che funzionano. Ci sono delle canzoni pop con un accordo solo, ma che sono micidiali. Penso a “Pure Morning” dei Placebo: è armonicamente banale, e oltre tutto scimmiottava anche alcune cose mantra-rock già fatte, i Beatles, “Tomorrow Never Knows”. Aveva cose originali da altri punti di vista: la voce del cantante, il suo aspetto. Tutte cose che riguardano l’immaginario, più che la musica.
Nel track by track una delle cose che ripetete più spesso è che molte canzoni vi fanno o vi hanno fatto commuovere, nel momento in cui le avete scritte oppure riascoltate a distanza di anni. In effetti è l’effetto che fanno ad un sacco di gente. Perché secondo voi le canzoni dei Baustelle hanno un impatto emotivo così importante, anche se magari non hanno quell’intento?
R: Per me la commozione, l’emozione, è un po’ la misura di quanto una cosa funziona. Una canzone mi deve emozionare, anche se non è lenta o triste. Ci dev’essere qualcosa nella musica o nel testo che mi fa viaggiare. Quindi probabilmente, nei pezzi che ho scritto io o in cui canto, è qualcosa che provo io per prima, e che magari si trasmette nella musica.
F: Io la trovo una cosa buona. Vuol dire che muove delle corde profonde. Fare emozionare è sempre un risultato ottenuto, per piangere significa che qualcuno si è immedesimato in maniera tale da arrivare a quel punto. Commuoversi al giorno d’oggi è una cosa grossa, è raro piangere…
R: Oppure siamo noi che facciamo piangere… (ridono)
F: Se mi dicono che le canzoni dei Baustelle fanno commuovere ed emozionare la prendo comunque come una buona cosa, perché vedo che ormai si va molto sul rassicurante, la musica di oggi è rassicurante, non provoca niente. Se hai una sensazione di trasporto potresti anche piangere per la bellezza, o perché ti immedesimi nella storia che si racconta... ma comunque la canzone ti ha portato dentro un film, sei stato attento alle parole e alla loro fusione con il suono. Sempre meglio che essere rassicuranti. Vuol dire che è successo qualcosa.
R: Alla fine è la differenza tra l’essere di sottofondo e l’entrare nel profondo con una canzone.
A proposito di canzoni importanti, Claudio ha parlato così di “Charlie fa surf”: “Nonostante tutto è e rimane il pezzo più conosciuto dei Baustelle”. Ne siete proprio sicuri?
F: Forse no. Forse il più conosciuto è "La guerra è finita".
R: Non lo so, incontro persone che non ascoltano tanta musica, ma ci riconoscono per quel pezzo lì.
F: A me ha fermato un giovane rapper l’altro giorno, sotto casa, che mi ha detto “Ah ma tu hai fatto Charlie fa surf!” E io ho risposto “Sì” e lui “Io ho comprato il tuo primo disco per posta, insieme a quello dei Clash” (ridono). Poi da lì è cominciato un delirio. Mi ha detto “Però poi da lì siete peggiorati”, ho risposto “Perché?” e lui: “Eh perché siete diventati indie” (ridono a lungo). Erano le 11 di mattina e lui era ubriaco fradicio. Poi tutto è finito con il giovane rapper che mi diceva “comunque se vuoi ascoltare ascoltare della roba giusta vai su Facebook e digita dj…” e io gli dico “Ma sei tu?” e lui “Eh sì…”
Questa storiella mi fa venire in mente il fatto che ormai siete in giro da abbastanza tempo per far sì che ci sia molta gente letteralmente cresciuta con la vostra musica, i cui primi dischi ascoltati coscientemente sono i vostri. Che effetto vi fa?
R: È una cosa che mi fa felice, rimango sempre stupita. Vivo sempre nell’incoscienza delle cose che facciamo…
(La copertina di "Roma Live!", ad opera del collettivo Malleus)
Vi avranno già chiesto quale, tra queste canzoni, è quella alla quale siete più affezionati, quindi vi chiedo qualcosa di opposto: raccontateci il vostro live peggiore che ricordate.
F: A Cosenza, una volta che è iniziato a piovere. A un certo punto il rullante non si sentiva più, mi sono girato e Claudio era scappato con la batteria per salvarla dall’acqua. Un disastro.
R: Io ormai sono vecchia e lo posso dire: una volta sono caduta dal palco, a Perugia nel 2006 al Norman, vicino casa, con i parenti che mi guardavano da sotto. Tra l’alcool, i tacchi, l’entusiasmo, a un certo punto sono partita e sono caduta dal palco. Mia zia e mia sorella sono venute a tirarmi su. Mi sono vergognata per anni.
F: Sei fortunata che non c’erano ancora gli smartphone e Facebook, altrimenti la scena sarebbe diventata virale!
Dal 2006 ad oggi siete diventati decisamente più convincenti live. Insomma, si sente una certa evoluzione da quel punto di vista. Oltre che provare molto, c’è qualcosa di concreto che avete fatto per migliorare la resa dal vivo?
R: Per me no, non credo.
F: Per me sì, è stata programmatica. Ho studiato canto. Se ci sono delle cose che non sai, studi. In più certe cose si autocorreggono un po’ con l’esperienza. Sono dell’idea che se una cosa non funziona, bisogna individuarne i difetti e cercare di studiare per correggerli.
Perché avete scelto quei tre concerti di Roma in particolare per il disco live?
F: Perché stranamente i concerti di Roma erano le versioni tecnicamente migliori, e poi c’era un calore nell’applauso, un suono bellissimo, nonostante fossero tre luoghi diversi. È stato un caso. Abbiamo scelto dei pezzi tra le varie registrazioni ed è venuto fuori che erano tutte di Roma, che poi è l’unica città dove abbiamo portato il disco dal vivo in tutte e tre le versioni. Da questo poi è venuto il titolo “Roma Live!” per il disco.
Con quale criterio avete scelto alcune canzoni, lasciandone fuori tantissime altre?
F: Il criterio principale è stato quello di escludere le canzoni di “Fantasma”, altrimenti sarebbe stato un replicare le canzoni dell’ultimo disco. E poi boh, semplicemente le abbiamo scelte in base a ciò che era eseguito bene e risultava emozionante.
State scrivendo qualcosa di nuovo?
Stiamo per iniziare (sorridono)
Pensate che il prossimo sarà ancora un lavoro orchestrale, ricco e per certi versi barocco, oppure cambierete totalmente direzione?
Sì, cambieremo direzione, decisamente. Però sarà ricco in un altro modo, dipende da cosa intendi per ricco. Semplicemente ricco. O riccamente semplice.
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L'articolo Baustelle - Quindici anni di canzoni pop di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2015-11-12 15:13:00
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