Con il secondo album “Alatul” pubblicato da pochi mesi, ma che va considerato come un vero e proprio esordio, il progetto Mandara si è imposto all’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori per un nuovo modo di intendere la world music in Italia. Non più dialetto e strumenti acustici, ma reali commistioni con altre culture provenienti da altre parti del mondo. Ne abbiamo parlato con Gennaro De Rosa, ideatore e responsabile di questa band dai confini molto larghi.
Cosa rappresenta “Alatul” rispetto all’esordio di “Bisanzio”?
“Bisanzio” è nato davvero per caso o quasi per ‘errore’. Il secondo invece è stato fortemente voluto, andando anche tantissimo contro il destino. Intorno ad “Alatul” ci sono stati un po’ di problemi. E’stato registrato tra l’ottobre del 2001 e la primavera del 2002 ed è uscito soltanto a maggio 2004! Nonostante tutto ciò ha ottenuto e sta ottenendo un discreto successo di critica e di vendite, un 6° posto nella classifica delle uscite Rock di MUSICA di Repubblica, la nomination per il premio “Fuori dal mucchio”, concerti, recensioni e interviste come questa. Un bel momento e quindi una crescita rispetto al precedente.
Cosa resta di quella esperienza, e del rapporto di distribuzione della musica attraverso Vitaminic?
L’esperienza in prinicipio è stata positiva. Aver trovato una “etichetta” che ti dava la possibilità di realizzare un disco e te lo distribuiva on line, ti dava la possibilità di acquistarlo e tant’altro, è stata una manna in quel momento. Poi le cose sono andate avanti, Vitaminic ha avuto dei cambiamenti radicali all’interno, non so per che motivi e per quali magagne. Fatto sta che ad un tratto non ho più avuto la possibilità di acquistare dei dischi da rivendere e siamo stati in giro per una estate senza dischi da vendere. Scontentando un po’ tutti, soprattutto noi stessi. Pensa che ora ho i brani del vecchio cd in download gratuito, vorrei ritirarli per ristampare il disco in futuro, ma non posso più far nulla perché hanno tolto l’accesso al mio login. Avevo più di quattrocento contatti nella newsletter di Vitaminic che sono andati tutti persi. Per fortuna in molti mi hanno riscritto per chiedermi il motivo del lungo silenzio, così li abbiamo recuperati.
Ora credo che Vitaminic abbia altro a cui pensare di molto più serio, grave ed importante del disco di chicchessia. Era davvero una grande trovata, avanti e tesa a crescere tantissimo. Peccato che sia finita.
“Alatul” sciocca sin dalla copertina. Ci racconti come è nata?
La copertina è opera di un artista calabrese, Andrea Grosso Ciponte. Ci siamo conosciuti in occasione di un concerto nel quale io suonavo con un rock band e lui dipingeva. Sono rimasto folgorato dalle sue opere, ci ho visto dentro tutto quello che amo e che tento di mettere in musica: c’era la beat generation, la psichedelia, c’erano arie metropolitane, c’era la gente, c’era l’anima. L’art-rock mi frullava nel cranio. Gli ho dato una copia dei provini del disco, e gli ho chiesto di ascoltarlo e se gli piaceva di collaborare, trasferendo in immagini quello che sentiva in musica. La proposta gli è piaciuta ed ha tirato fuori quella splendida immagine. Ne abbiamo parlato insieme, e ci sembrava che mancasse qualcosa. Alla fine abbiamo trovato “il chador”. Era il contrasto, la provocazione, la sollecitazione che cercavamo.
Comunque resta un’immagine che rende alla perfezione l’idea sociale, politica e musicale di “Alatul”.
L’Iraq e la “questione islamica” sono stati chiaramente ed inevitabilmente un punto di partenza per una riflessione più profonda. La provocatoria immagine della copertina è una denuncia all’Occidente che, con una politica di tipo colonialista, vuole assoggettare culture secolari come quella islamica, e omologarle creando contrasti “mostruosi”.
Non è l’immagine della donna islamica o occidentale, che si vuole colpire ma, ricordando una canzone di John Lennon, “Woman is the nigger of the world” , si è voluto attualizzare questo concetto dello sfruttamento della donna, in differenti modi.
Per prima cosa, la mortificazione del Bourqa e la mortificazione della nudità, così apparentemente lontani ma così realmente vicini. E poi, la realtà delle donne islamiche che è stata utilizzata come scusa e giustificazione di efferati delitti da parte degli Stati “alleati”. Con questo non si vuole negare un problema reale. Il soggetto del dipinto mostra la tramutazione e la “liberazione” della donna con bourqa in una donna occidentalizzata e quindi oggettualizzata e mercificata. Inoltre, le quattro braccia riprendono dalla tradizione induista la figura di Kalì "la nera": la donatrice di vita e di morte allo stesso tempo, quindi, la donna come principio creatore cosmico. La copertina di “ALATUL” è la sintesi di una contraddizione: l’occidente si fa portatore di emancipazione e sviluppo ma, una volta rimosso il “chador” del modernismo, riaffiora prepotentemente, l’essenza dell’insoluta “questione” dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Il brano “Alatul” che apre il disco omonimo è quasi fuorviante, nel senso che sembra presentare un lavoro di musica popolare, quando poi si spazia molto: dal kraut rock alla dance evoluta.
“Alatul” è la title track del disco, ed è stato un omaggio che ho voluto fare ad Arnaldo Vacca, una persona per me importantissima nel percorso che ho fatto e che continuo a fare. Si tratta di una sorta di jam session suonata in uno studio di registrazione romano, una mattina di marzo 2003. E’ stato un grande regalo che Arnaldo mi ha fatto. In seguito lo ho un po’ “trattato” con qualche follia, mentre il colpo di grazia glielo ha dato Marco Messina.
Forse è solo nelle prime battute che sembra presentare un disco di musica popolare, perché subito dopo comincia a fare capolino qualche delay, qualche pedalino di crunch sulla voce, vari tagli qui e là. Diciamo che è un po’ l’anticamera di quello che si ascolterà in seguito. L’idea era di creare una sorta di cerchio che si chiude: partire con Alatul, iniziare a sporcare con Kurdistan, calcare la mano con Marrakech, sporcarsi con Canta Sola (ride) e finire completamente luridi con Spoon e Uber der tanz. Poi ricominciare il processo a ritroso fino a Tersicorea, che è ‘very very etnico’!
Io ritengo che lo “sporcarsi” e “lordarsi” con culture altre è arricchimento puro. “Alatul”, in maniera molto dimessa, senza l’atteggiamento di chi vuol fare grandi cose, rappresenta una globalizzazione positiva, intesa come interazione e scambio di tutto ciò che è cultura, sviluppo, tradizione e conservazione. Cose che sono in netto contrasto tra loro, ma è proprio questa loro convivenza la chiave di volta di una insoluta questione. “Alatul” è un tentativo, un esperimento teso a dimostrare che in musica tutto ciò è possibile.
Un po’ come portare la civiltà occidentale nei villaggi del sud del mondo e la cultura di questi nelle grandi metropoli. Come trovi il punto d’equilibrio tra queste due culture e riesci a tramutarlo in musica?
Credo che sarebbe utile ribaltare il sistema di globalizzazione, che può essere interessante da una serie di punti di vista ma che dovrebbe fornire la possibilità di essere scelto. Non credo che i paesi del Bengala abbiano scelto di bere l’acqua firmata da una nota casa produttrice di una bibita con le bollicine, con il marchio non completamente rosso. Idem in Siberia ed in altre realtà nelle quali la gente avrebbe bisogno di tantissime altre cose prima che della Coca Cola o della Pepsi. Ci ho provato a non dirlo, alla fine però non ci sono riuscito (ride, NdR). Ritengo che un punto di equilibrio esista. Ma se non esiste proprio questo punto, di certo esiste una “area di equilibrio”. Con “Alatul” ora, e con “Bisanzio” prima, abbiamo cercato più che un punto di equilibrio, la linea di confine tra suono e rumore, tra musica e non musica, tra terra e plastica, tra manipolato e manuale, tra tecnica e tecnologia. L’equilibrio tra le due culture è un’invenzione dei “grandi” uomini che gestiscono le nostre vite. Un disequilibrio o una disarmonia. Sono stato in un sacco di paesi del mondo islamico: Marocco, Iraq, Giordania, Tunisia ecc… ho suonato con la gente di quei posti, i loro strumenti con le loro tecniche esecutive, ed è stato meglio di vendere 3000 copie del cd. Vedere la felicità e lo stupore nei loro occhi, è stato qualcosa di impagabile.
In questo senso viaggiare diventa una componente fondamentale per raccogliere stimoli da tradurre in musica.
Il viaggio è la linfa vitale di un progetto come Mandara. Per raccogliere stimoli, incontrare gente, respirare altra aria, mangiare cibo diverso, ascoltare un'altra lingua, cambiare gli usi per un tot. di tempo. Il viaggio è davvero vita. Se non ci fossero stati i viaggi, saremmo ancora convinti della “terra piatta” e di tante altre cose. Pensa non ci sarebbe stata l’America. Beh, non farmici pensare molto altrimenti cambio idea sul valore del viaggio (ride, NdI). Naturalmente scherzo. Per concludere, il viaggio è, dalla nascita dell’uomo, fonte di ricchezza, di progresso e di molte altre cose.
Embryo e Can sono due gruppi del passato che hai voluto omaggiare con delle cover molto particolari. Come mai la scelta è caduta su di loro ed in particolare sui brani Kurdistan e Spoon?
Embryo e Can sono stati e sono la benzina e la radice del progetto Mandara. Se non li avessi incontrati sul mio cammino, probabilmente avrei fatto delle scelte completamente diverse e forse non farei più il musicista. Quando li ho ascoltati per la prima volta stavo vivendo un momento di crisi. Il rock seventies ed affini insieme al pop e alla musica leggera più malsana che suonavo per tirare la carretta mi avevano stancato, ne avevo le scatole piene. Iniziavo ad interessarmi alle tradizioni ed a tutto ciò che era popolare ed etnico nel senso più disordinato e confuso di questi termini. Non ne avevo una minima idea, mi piaceva e basta. Quando, grazie a Mimmo Mellace (batterista del Parto delle Nuvole Pesanti, NdI), mi ritrovai tra le mani una cassetta dove c’erano alcuni brani di “la Blama Sparozzi” insieme a “Pucambù” dei Re Niliu dei quali Mimmo faceva parte in precedenza, è stato un colpo di fulmine. Dopo le prime tre note, ho esclamato: “Mimmo, ma chi cazzo sono questi?”. E Mimmo, con un’aria da profeta che sta per rivelarti la verità, ha replicato dicendo: “Gennaro questi sono gli Embryo.” Così ho iniziato ad ascoltare e comprare tutto degli Embryo. E’ stato come un fuoco che cresceva. Tra questi dischi c’era “Embryo’s Reise” che contiene “Kurdistan”. Ho deciso di rifare questa canzone, per una serie di motivi, quali la vicinanza ideale e “spirituale” con questo popolo, bistrattato e martoriato da tutti. Un omaggio silenzioso, intendo senza parole. Perché non credo ci siano parole adatte a raccontare di morti, di bambini, e di tutto ciò che abbiamo visto laggiù. E poi da lì la conoscenza di Burcharda (membro degli Embryo, NdI), il suo consenso alla nostra versione che gli è piaciuta molto. “Spoon” dei Can, invece, è il brano che mi ha accostato all’elettronica, che ripudiavo e sfuggivo: in pratica la “odiavo” sino a quando non ho ascoltato “Spoon”, che mi ha fatto innamorare di questo genere, per cui ora frequento Marco Messina dei 99 Posse (ride, NdI).
Accanto a questa musica “colta” c’è anche un esperimento di “canzone” che hai affidato alla voce di Peppe Voltarelli.
Si. Questo brano nasce dal viaggio fatto a Baghdad nel 2002 per una serie di concerti in Iraq, dai quali è nato un film (Il Cielo Sopra Baghdad, NdI) e un disco live (Artisti contro la guerra, NdI) registrato in una sala del Palestina Hotel. Abbiamo voluto, insieme con Peppe tirare fuori quello che questa esperienza ci ha lasciato. “Canta Sola” racconta la storia del nostro viaggio di ritorno dall'Iraq: abbiamo attraversato parte del deserto su dei grandi jeepponi bianchi. Era quasi l'alba e in questa strada a doppio senso le auto e i camion sfrecciavano ad una velocità folle. Nei villaggi, ai lati della strada tanti bambini, con i libri, che andavano a scuola, i più grandi tenevano per mano i più piccoli, alcune bambine portavano il chador. Fummo sorpresi e impauriti di come, nonostante la paura del conflitto imminente, tutto sembrava andare avanti naturalmente, senza peso. In quel momento avremmo voluto caricarli tutti sulle nostre vetture e portarli con noi quei “piccoli terroristi”, per farla vedere a tutti, da vicino, questa minaccia. Ritornati in Italia abbiamo lavorato a distanza, io alla musica e Peppe al testo. Ci siamo rivisti e le due parti si sono incollate alla perfezione. Peppe a volte dipinge con le parole. Per quel che riguarda il brano, chi dice che una canzone non possa essere “colta” e che una elucubrazione strumentale lo sia?.
Ti spaventa l’idea di costruire canzonette?
No non mi spaventa. Il problema è che non riesco a scriverle. Ogni volta che voglio comporre un brano, parto con l’idea di scrivere una canzone, solo che poi per strada mi pento… e mi perdo. Quindi sveliamo l’arcano: “Alatul” nasce da uno sbaglio. Scherzo, questa poi la tagli (ride, NdI).
In “S.O.S. 106” massacrate l’ idea di tarantella che ognuno di noi si porta dentro. Cos’è, un prendere le distanze dal concetto di musica etnica che si è sviluppata in Italia negli ultimi anni?
Massacriamo l’idea di tarantella. Che parolone. No non massacriamo. “SOS 106” è un brano di denuncia. Una denuncia probabilmente sterile, tesa al nulla, come le centinaia di campagne sulla 106 (arteria stradale che attraversa tutta la Calabria e la Basilicata sul versante ionico, NdI). Il nulla, parole sprecate, carta per manifesti riciclata, fiaccole andate in fumo, suole di scarpe consumate invano durante le manifestazioni, perché non è mai cambiato nulla e la 106 continua ad essere la nostra aorta, piena di otturazioni e bisognosa di cure, prima che arrivi l’infarto irreversibile. Tempo fa parlavo con Peppe di questo brano, e mi diceva di quanto lui vedesse lontano questo problema ora che vive a Bologna, e di come quasi gli sembrava esagerata la tensione e le parole della canzone. Ma che allo stesso tempo ogni estate si vedeva costretto ad ammettere, che a distanza di anni un problema che lui viveva 10 o 12 anni fa, esiste ancora immutato come allora o forse peggio. Vivere in Calabria e viaggiare per esportare la propria musica o la propria opera ti dà una visione della realtà che ti circonda a volte meno catastrofica di quello che in realtà sia. La tarantella massacrata è un modo per dire a tutti di non godere ed essere “contenti” dell’interesse globale e globalizzato nei confronti delle nostre cose e delle nostre tradizioni, intendo il successo della musica popolare del sud Italia a livello nazionale.
La domanda che mi sono posto è stata: “Ma non è che questa esaltazione delle tradizioni e dei costumi possa tramutarsi in una delle “giustificazioni” di uno stato di cose preoccupante per uno spirito di “conservazione” dei beni culturali della nazione?” (sorride, NdI). Mi rendo conto che potrebbe sembrare eccessivo, così come è eccessivo un trio rock che scandisce una tarantella suonata da chitarra battente, tamburello e lira calabrese. Quindi: non dimentichiamoci delle nostre tradizioni, che siano una tarantella o un canto all’aria o una sonata per zampogna, ma proiettiamole nel presente. Immaginiamo una sorta di parallelo, di “ritorno al futuro”. Qual è la chitarra battente oggi, qual è il tamburello di oggi, la tarantella di oggi, ed il valore di tutto ciò oggi. “L’esigenza” ed il “bisogno” di fare musica oggi ed allora, chi suona oggi e chi suonava allora, la realtà sociale di oggi e di allora. E arriveremo, probabilmente a capire che oggi la tarantella, in senso lato, intesa come fenomeno culturale e estrinsecazione sociale, è per forza di cose carica di Internet, macchine, elettronica, cellulari e via discorrendo. Questa è la tarantella che può nascere oggi. Tutto il resto è “riproposizione” e sottolineo riproposizione, di tradizioni popolari.
Raccontaci un po’ della tua passione per le percussioni. Tu suoni davvero qualsiasi cosa dal pavimento alle pentole, accanto a strumenti stranissimi che arrivano da ogni parte del mondo. Dove trovi tutti quegli strumenti che ti porti in giro e dove hai imparato a suonarli?
La cosa che amo di più è utilizzare oggetti di uso comune e farli diventare strumenti. Bicchieri di plastica, bottiglie, vassoi, macchine aspirapolvere, trapani… sono ancora alla ricerca di qualcosa che non abbia ancora utilizzato nessuno, ma è dura davvero. Io sono realmente innamorato degli strumenti che suono. Li vivo, ho un rapporto molto carnale con gli strumenti, con la musica che suono e che compongo. Ogni strumento che acquisto, solitamente in viaggio, ha una sua storia, una vita: è una sorta di essere vivente.
Come percussionista mi ritengo “atipico” ed “anomalo” perché amo sperimentare suoni nuovi. Utilizzo strumenti e non strumenti. Mi piace inventare, con ogni oggetto domestico, delle vibrazioni sonore armoniche, anche autonome, e in grado di riscrivere, colorare e impreziosire un’esecuzione. Insieme a tutto ciò l’utilizzo di una parte di strumenti a percussione provenienti da vari paesi del mondo. L’area che amo, ovviamente è l’area Maghreb e Medioriente, ma non disdegno nessuna delle altre, anzi.
Le tecniche esecutive le ho apprese per strada, nei viaggi… ecc ecc… anche se questo processo è stato guidato e continua ad esserlo da Arnaldo Vacca, che oltre ad essere un maestro che ti trasferisce delle nozioni è un maestro in senso lato, una sorta di Guru moderno.
Mandara è un gruppo dalla formazione mutevole ed aperta ad ogni tipo di collaborazione. Se la cosa funziona in studio, come fate a riproporla nei concerti?
Mutevole e cangiante, come me del resto. Mutevole, cangiante con delle venature di schizofrenia (ride, NdI). Non totalmente però. Ritengo che lo scambio con i musicisti, con la gente dei luoghi che si visitano, sia fondamentale per una crescita umana, in primis, e musicale di conseguenza. L’essere aperti alle idee altrui, creare una sorta di “collettivo” creatore credo sia stata, un po’ la forza di questo capitolo Mandarino, che è “Alatul”. Ovviamente c’è bisogno di una coordinazione dei guizzi creativi di ognuno, perché il rischio di questo metodo è che tutto diventi un raccoglitore di “vomiti” creativi. Quindi è fondamentale che ci sia una linea da seguire una strada da percorrere e una meta da raggiungere, andando “sempre dritti fino alla fine” che poi è il significato della parola alatul. Naturalmente portare in giro a suonare dal vivo tutti questi ospiti sarebbe stato difficile e dispendioso. Così Mandara nella formazione live è composta essenzialmente da me, Piero Gallina al violino, Giacomo De Rosis al basso, Gianfranco De Franco ai fiati, ai quali si aggiungono talvolta, come quest’estate, Raul Gagliardi alla chitarra. Abbiamo anche avuto Mimmo Mellace come ospite in un concerto, il fisarmonicista Pasquale Nigro (dei Rosaluna, NdI) in un altro, e anche Marcoposse in un altro ancora. Quindi come vedi, con dei minimi compromessi e con l’aiuto di computer e sequencer riusciamo a portare dal vivo il disco in maniera quasi pedissequa.
Per chiudere ti chiedo due parole su Pentole & Computer.
Pentole & Computer nasce dall’ incontro tra Marco Messina e me. Ci siamo conosciuti in occasione del missaggio di “Alatul”. L’ho cercato tantissimo dopo aver ascoltato il lavoro dei Nous che aveva realizzato insieme a Meg per musicare lo spettacolo teatrale della Kypton ispirato a “la Tempesta” di Shakespeare. Mi era piaciuto moltissimo il suo approccio elettronico delicato, fine e contestualizzato. Dopo che lui ha ascoltato i provini, che gli sono piaciuti molto, abbiamo iniziato a lavorare insieme al missaggio di “Alatul”. Probabilmente c’erano delle “affinità elettive”, per dirla alla Goethe, e quindi Marco mi ha voluto in questo spettacolo teatrale, durante una rappresentazione in Calabria, per occuparmi insieme a lui della sonorizzazione. Ci siamo trovati benissimo, ci siamo divertiti e la musica ha fatto colpo anche sulla gente. Da lì abbiamo approfondito il discorso, e così è nato “Pentole e Computer”.
Stiamo portando in giro per l’Italia, questo spettacolo che fa ballare la gente in questo misto di elettronica e tribale. Marco, in un certo qual modo, ha rappresentato la chiave di volta per ribaltare una situazione che ristagnava da tempo per colpa di scelte e di persone incontrate. A Dicembre uscirà per Mousikelab “Condominium”, una compilation che ospita un nostro brano dal titolo “Tomar y Provocar”. Si tratta di un brano un po’ differente dalla performance live di Pentole & Computer. E’ più lento, con sonorità delicate, c’è un vibrafono, un set di batteria, delle voci campionate di una discussione tra un poliziotto e della gente, su questo arresto fatto perché un ragazzo “beveva e provocava” in Messico. Poi nella tarda primavera, pubblicheremo un disco di Pentole e Computer, accanto ad un 12” con un paio di brani più danzerecci, rivolti al mercato dei Dj’s.
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L'articolo Mandara - Bisignano, 15-10-2004 di Eliseno Sposato è apparso su Rockit.it il 2004-10-29 00:00:00
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