Nascono a Trento, ma vivono sparsi per tutta Europa. Cantano in inglese e in italiano, e il loro viaggio a bordo di un Flixbus li ha condotti dall’Alto Adige agli studi di Abbey Road per registrare Wanderlust I-II, Ep che rappresenta un concept musicale coerente accompagnato da un altrettanto forte immaginario visivo. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i Bob and the Apple, di cui è da poco uscito il video del nuovo singolo, Strangers. A realizzarlo è stata l'illustratrice Sara Quijano Sierra, cui appartengono, tratte dal video, tutte le grafiche che vedete in questo pezzo.
Chi sono i Bob and the Apple?
I Bob and the Apple sono una band nata a Trento, come tante altre durante gli anni del liceo, ma, come raramente succede, cresciuta quando tutte le nostre vite sono cambiate: ora infatti viviamo rispettivamente a Parigi, Berlino, Trento (capoluogo!) e Londra. Dopo aver pubblicato il nostro primo album Rouge Squadron (2011) ed esserci dedicati all’attività live fino all’estate del 2014, ci siamo tuffati in un lungo – ma operoso – silenzio che ci ha portato (dopo tanti viaggi in treno e Flixbus notturni) a completare il nostro secondo album, Wanderlust (2019). In realtà abbiamo deciso di pubblicarlo come un doppio EP, ma per noi è un lavoro unico. Ed è proprio dall’ultima canzone di quest’album che abbiamo estratto Strangers, il cui video è uscito ad inizio marzo su YouTube e del quale vedete vari frame tra le righe.
Perché vi siete allontanati dall'Italia?
Come band, non è stata una necessità. Nel 2014, dopo aver registrato un EP che ha visto la luce solo quest’anno (Il Mai Uscito, 2014) Giacomo e Leonardo si sono trasferiti a Parigi per finire l’università. Tre lauree e qualche lavoro dopo, Bruno e Leonardo ora vivono a Berlino, Giacomo è da qualche anno stabile a Parigi così come Ricky a Londra, mentre Matteo vive a Trento dopo gli studi a Bologna. E, come tutte le cose importanti della vita, la band è stata messa in valigia e portata con sé in questo viaggio. Il titolo stesso, Wanderlust, cerca di descrivere questa voglia di cambiare, senza necessariamente sapere perché e verso quale fine, ma con la certezza che con l’aprirci al mondo, saremmo cresciuti anche noi.
Quasi tutti i gruppi che sono partiti cantando in inglese hanno finito, chi prima chi dopo, a cantare in italiano. Voi avete fatto l’opposto: perché?
Nei primi anni, suonando in Italia, non solo eravamo ovviamente molto più a nostro agio con l’italiano, ma eravamo anche convinti che l’inglese avrebbe aumentato la distanza tra noi ed il pubblico – cosa, tra l’altro, ormai assodata sia nella realtà underground che in quella mainstream un po’ dappertutto – e rallentato la comprensione del messaggio che volevamo trasmettere. Nel primo anno a Parigi, quando la maggior parte dei pezzi di Wanderlust è stata scritta, abbiamo sentito la necessità di scrivere in inglese. Non crediamo di aver smesso per sempre di scrivere pezzi in italiano, ma nel momento in cui ci siamo trovati all’estero, l’inglese ha iniziato ad essere – per chi più e chi meno – parte integrante della nostra vita di ogni giorno: in fondo la lingua che usiamo è solo l’espressione di ciò che ci rappresenta nel momento della scrittura. Ci è quindi risultato più credibile esprimere emozioni anche in una lingua che non fosse la nostra per nascita ma per scelta, soprattutto in ambienti dove una canzone in italiano suonerebbe probabilmente più esotica che altro.
Cosa ha significato per voi registrare la seconda parte di Wanderlust agli Abbey Road Studios di Londra, sotto la guida del sound engineer Ricky Damian?
Entrare in quella che è la mecca della musica è un’esperienza incredibile. Non è stato facile riuscire a mantenere la concentrazione durante tutta la session – a tal punto che abbiamo davvero realizzato di essere stati lì solo riguardando le fotografie e i video di quella giornata, che abbiamo poi deciso di pubblicare con il video di Feeling , il terzo singolo di Wanderlust. Ma il dover smettere di guardare estasiati ogni mattone o stanza del luogo per concentrarsi su ciò che bisognava registrare, è stato il momento in cui veramente abbiamo "vissuto" Abbey Road: non semplicemente un museo del passato, ma una fucina del nostro presente. La presenza di Ricky ci ha calmato molto e fatto sentire a nostro agio – anche quando avevamo il cuore in gola salendo e scendendo dalle stesse scale in cui sono stati spesso fotografati, tra gli altri, i Beatles. Con Ricky lavoriamo da ormai tanto tempo (dal 2015, per essere precisi) ed è sempre grazie a lui che abbiamo potuto registrare gran parte dell’album tra gli Zelig Studios (Londra) di Mark Ronson ed il Magister Recording Area di Andrea Valfré (Treviso). Per fortuna possiamo entrare nelle nostre stanze – dove scriviamo la più gran parte dei nostri brani – anche senza di lui!
Che rapporto avete con l'arte?
Per quanto riguarda il nostro rapporto con l’arte visiva, crediamo sia perfettamente sintetizzato dall’immagine qui sopra: l’arte è rappresentazione, è un modo di descrivere il mondo e l’eco dei modi diversi con cui possiamo guardarlo. Con quest’album abbiamo cercato di creare un concept globale dove le fotografie di Juliana Gomez Quijano , il lettering del designer Matteo Campostrini e le illustrazioni di Sara Quijano Sierra non sono semplicemente un “supporto” alla musica, ma al contrario, vogliono amplificarne il senso ponendosi sullo stesso piano. Non volevamo avere un “prodotto” tra le mani, ma il frutto del lavoro comune tra diverse arti, perciò tra diversi artisti. Per questo abbiamo scelto di stampare, per la prima volta, in vinile: oltre ad essere una moda – bellissima, e non crediamo sia passeggera proprio per la sua ‘ritualità’ – il formato vinile dà alle immagini, ai testi ed alla musica il giusto tempo e il giusto spazio per essere apprezzati e non semplicemente consumati, cioè messi distrattamente in sottofondo alle nostre vite: questo è il lato negativo dell’utilizzo delle (super-efficaci e pratiche) piattaforme digitali. La musica è arte e fa parte, nello stesso modo di qualsiasi altra forma artistica, dello stesso mondo. Un tempo gli artisti erano contemporaneamente ingegneri, pittori, scultori e poeti. Oggi ci limitiamo a fare una cosa “per farla bene” – spesso non riuscendoci nemmeno – e spesso dimentichiamo che ci sono modi diversi di dire la stessa cosa, cioè dimentichiamo che diverse forme di rappresentare il mondo rafforzano il significato di qualsiasi espressione artistica.
Strangers è l’ultimo singolo che avete pubblicato. Chi sono gli estranei ai quali vi riferite nella canzone?
Due anni fa, nel giro di pochi mesi, ci siamo tutti trovati a confrontarci con le nostre scelte di vita, in particolare con il nostro “divenire” professionale, in quel singolare momento in cui si passa dall’essere studenti a lavoratori. Nella primavera del 2019, insieme a s.qui.s e l’aiuto (in fase di montaggio ed editing) del designer Riwad Salim, abbiamo cominciato ad immaginare una scena di vita quotidiana, semplice nella sua materialità, ma affollata dalle domande – senza risposta definitiva – che spesso ci si pone nei momenti di cambiamento. Le ambizioni degli altri proiettate su di noi (concetto con il quale inizia Strangers) possono diventare degli imperativi di vita, a volte fino a farci perdere di vista ciò per cui vorremmo davvero sognare ad occhi aperti – ovvero costruire giorno dopo giorno, con la ragionata leggerezza e la pur sempre momentanea sicurezza, sapendo di fare la cosa giusta per noi e non per gli altri. Le maschere quotidiane che cambiano la nostra percezione, che abitano e animano il nostro corpo, sono il frutto di questa dissonanza tra la volontà personale e quella degli altri. Gli “Strangers”, quindi, non sono gli altri – gli estranei – ma tutte le persone che potremmo, vorremmo o abbiamo paura di essere.
Voi vi sentite stranieri dove vivete oggi (in un periodo così duro)?
Solo l’atteggiamento delle persone può farti sentire ‘straniero’ o a tuo agio. Vivere fuori ci ha fatto riflettere su tante cose, e siamo spesso increduli di fronte alle uscite di molti politici europei, oltre a quelli italiani. In Italia come all’estero, la cosa più importante in questo momento è riuscire a stare bene con le persone con cui viviamo e amiamo. Ci sentiamo privilegiati a poter passare del tempo sotto a un tetto e dentro alle mura dei nostri appartamenti, passando le ore che normalmente spenderemmo in metro per andare a lavoro, registrando nuovi pezzi o portandoci avanti con la produzione. Siamo in pensiero per l’Italia, dove la situazione è più dura che in altre zone d’Europa. Speriamo che questo tempo ritrovato possa far riflettere tutti sul come il modo di vita ed il sistema economico attuali siano insostenibili e che il “ritorno alla normalità” non sia affatto un ritorno al “business as usual” ma piuttosto una possibilità per inventare qualcosa di migliore.
Una cosa che nella vostra vita e routine di band oggi vi manca?
Suonare! Assieme! E dal vivo! Nonostante siamo ormai avvezzi allo scambio di idee musicali via e-mail, non potersi ritrovare regolarmente per provare, sperimentare e suonare i pezzi insieme è ovviamente quello che ci manca di più. La nostra soluzione al problema fa leva sulle ferie prese per ritrovarci a suonare, e quelle di Ferragosto per ritrovarci in un rustico casale sulle colline Romagnole della famiglia di Giacomo: lassù (o laggiù, per noi che ormai ci arriviamo dal Nord Europa) ci ritroviamo ogni anno per una settimana di registrazione dei nuovi pezzi concepiti durante l’anno.
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L'articolo Bob and the Apple, lo straniero che è in ognuno di noi di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2020-04-17 13:34:00
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