(Un'illustrazione tratta dal libro)
E' prima un libro e poi un disco. Scritto da Wu Ming 2, illustrato da Giuseppe Camuncoli e Stefano Landini, suonato da Egle Sommacal (Massimo Volume, Ulan Bator), Stefano Pilia (3/4 Had Been Eliminated), Federico Oppi, Paul Pierretto (entrambi nei Settlefish e A Classic Education) e con le voci di Wu Ming 2, Daniele Bergonzi, Andrea Giovannucci (Compagnia Fantasma). E' stato messo disponibile in free download e in modalità fai-tu-il-prezzo sul sito www.pontiac.manituana.com. Sara Scheggia è stata invitata a pranzo e si è fatta raccontare il dove, il come e il perchè del progetto Pontiac.
"Pontiac, storia di una rivolta” è un audiolibro. Da dove arriva l’idea?
Wu Ming 2: Con Paul e un altro ragazzo facevamo una trasmissione su Radio Città del Capo che si chiamava “The Elements”. Erano letture con delle basi elettroniche di sottofondo, e il tema di ogni puntata seguiva la tavola degli elementi, ma non quella chimica, periodica. Quella di Coupland in “Generation X”. Personalmente, però, ho cominciato molto prima, quando con Brizzi portammo in giro il reading da “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, nel 1995.
Quindi leggevi insieme a lui?
W: No, cantavo. Con Enrico ci conosciamo da una vita e in quegli anni ero in un gruppo che si chiamava Frida Fenner, oggi Frida X, e che ha partecipato alla colonna sonora del film.
…non mi dire che Jackpunk…
W:…ebbene sì, “Jackpunk” la canto io! Facemmo diverse date con quello spettacolo, quindi l’idea di proporre delle letture giustapposte alla musica viene da lontano. Dopo la trasmissione in radio uscì il mio romanzo solista, “Guerra agli Umani”: estrapolammo dei brani e Paul e l’altro ragazzo, Agostino, composero delle basi elettroniche. Cominciammo con le presentazioni del libro, ma eravamo ancora solo tre elementi. Volevamo che le letture cercassero di svolgere la stessa funzione di un testo, in una canzone. Senza essere cantate, ma che dialogassero e interagissero con la parte musicale e che fossero sullo stesso piano.
In “Guerra agli Umani”, però, partecipavano anche Egle Sommacal e Stefano Pilia.
W: Sì. Pian piano ci siamo resi conto che volevamo avere più strumenti suonati live, e inglobammo gli altri. Egle, Stefano e Federico Oppi, alla batteria. Realizzammo una decina di date, con una buona accoglienza da parte del pubblico. A me, però, era rimasto un dubbio: in quel modo non stavamo raccontando una storia, dall’inizio alla fine. Pescavamo letture dal romanzo, ne trasmettevamo l’atmosfera, ma la gente se ne andava senza aver ascoltato una storia dall’inizio alla fine.
”Pontiac”, infatti, è un racconto a sé…
W: La mia funzione principale, il mio mestiere, è quello di raccontare delle storie e con Pontiac si è voluto recuperare una dimensione narrativa, completa. Quando è uscito il nuovo romanzo collettivo l’anno scorso, “Manituana”, ho pensato di partire da lì per proporre delle letture concepite come brani separati, una storia che nel romanzo era solo accennata. Tra l’altro, ciò rientrava anche in un discorso nostro, come collettivo, di transmedialità: avevamo già deciso di allargare l’universo narrativo attraverso mezzi diversi. E mentre facevo le ricerche per “Manituana” mi sono appassionato alla rivolta di questo capo indiano, Pontiac.
E’ a quel punto che hai richiamato gli altri?
W: Il canale di comunicazione era già aperto. Cominciavo a farmi un’idea delle atmosfere dei racconti, e la comunicavo a loro, che iniziavano a produrre i primi temi. E così via, lavorando molto in sala prove, decidendo dove stesse meglio una ballata, modificando i testi. Pensavamo di farne solo uno spettacolo, poi abbiamo visto che veniva accolto bene, e allora abbiamo deciso di registrare. E anche nel prodotto finale abbiamo mantenuto questa forma ibrida.
E i disegni da dove arrivano?
W: Non era un album, ma non era nemmeno un libro. Io ho due bambini piccoli, e ho pensato di fare un audiolibro, una specie di fiaba sonora. Volevo fare qualcosa da tanto tempo con due amici fumettisti, Giuseppe Camuncoli e Stefano Landini che hanno subito accettato di fare le illustrazioni.
L’audiolibro si può solo scaricare dal vostro sito, in download gratuito, ad offerta libera o ad una cifra consigliata. Come sta andando, dopo una settimana dal lancio?
W: In otto giorni i download sono stati 750, di cui 25 a pagamento. 1 su 30 paga, e la maggior parte di questi lascia la cifra consigliata, cioè cinque euro.
Prezzo fai da te, l’hanno fatto in molti. L’editoria funziona come la musica?
W: Il nostro caso è un po’ diverso, perché non ti arriva nessuna versione fisica a casa. Il download lo abbiamo fatto libero, senza nemmeno l’obbligo di dover lasciare la mail. Poi, abbiamo anche pensato una sezione per i “ritorni”: prima lo scarichi gratis, poi magari vuoi tornare perché ti è piaciuto e vuoi lasciare qualcosa. E’ successo, qualcuno è tornato e ha lasciato dieci euro… evidentemente gli era proprio piaciuto. Un disco lo scarichi, lo metti su e in due ore l’hai ascoltato. Per un libro la fruizione è diversa, richiede più tempo, e anche il passaparola avviene più lentamente. In libreria avremmo sicuramente avuto più successo, ma ci voleva qualche editore coraggioso. E scaricandolo, è chiaro che perde il suo valore: devi stamparlo, per leggere meglio, e la qualità delle illustrazioni non sarà mai come da tipografia. Abbiamo registrato già da un anno, e abbiamo scelto questa via per non allungare ancora di più i tempi.
A Bologna, la Compagnia Fantasma fa il pieno in ogni data. Non vi sorprende il successo dei reading, che presuppongono una fruizione più complessa?
Paul Pieretto: Con Pontiac abbiamo esordito ad Italia Wave dell’anno scorso. Effettivamente sorprende che tanta gente riesca e voglia seguire con tanta attenzione, forse perché sono abituato all’approccio da concerto rock: prendo una birra, ascolto le canzoni, faccio due chiacchiere. Questo tipo di spettacolo è diverso, e molta gente lo concepisce come se si fosse a teatro, dove vai con l’intenzione di stare attento, non con l’idea di passare una serata ascoltando musica.
W: Dal vivo ci sono dei piccoli intermezzi in cui faccio dei collegamenti, proprio perché a casa magari hai il testo sotto, ascolti e leggi con calma. Dal vivo un piccolo riassunto lo devi prevedere. Però è vero, l’attenzione del pubblico c’è, anche se locali normalmente votati a concerti, anche indie, fanno fatica a proporre questo tipo di spettacoli, ed è comprensibile. Quindi i reading girano più per festival, o rassegne.
E i musicisti cosa dicono? Come avete lavorato?
P: Prima ancora di leggere i racconti abbiamo preso riferimenti di suoni e musiche di un certo stile, principalmente musica cajun, una sorta di precountry che si è sviluppato tra l’attuale Canada e gli USA. Siamo partiti da alcuni temi ispirati dalle letture, arrivate mentre eravamo in sala prove: i primi li ha scritti Egle, un altro Stefano, un pezzo da una base elettronica l’ho scritto io. Ognuno di noi portava le proprie sensazioni a livello di struttura base, poi insieme cercavamo di incastrare tutto al meglio. E’ qualcosa di simile a quello che fanno gli Offlaga Disco Pax, ma non così smaccatamente canzone: c’è un filo logico di narrazione, a metà tra la canzone vera e propria e il reading classico che si abbozza nel giro di due prove. Ci sono voluti 3 mesi di lavoro, e anche se alcuni pezzi sembrano improvvisati, in realtà sono ben strutturati, con precisi cambi o culmini.
Venite dallo stessa base di partenza, ma ognuno di voi ha poi preso strade diverse. E’ stato difficile ritrovarsi?
Stefano Pilia: Siamo partiti da suggestioni iniziali, su musiche appunto di certi generi tradizionali di quella zona. Ma in realtà il prodotto finale è ben altro, e se ci pensi non siamo tanto diversi, veniamo dallo stesso ambiente. Io ero il primo bassista dei Settlefish e con Paul abbiamo provato tante volte a fare delle cose insieme.
P: Il livello di stima è molto alto, sai bene cosa puoi fare con l’altro e cosa non puoi fare. Con Egle poi…ad ogni nota che usciva dalla sua chitarra noi ci inchinavamo (ride, NdA). In “Guerra agli Umani” c’era stato già un lavoro di composizione d’insieme, e poi ci divertiamo da matti. E’ un’esperienza sicuramente più sperimentale, in cui io e Federico rappresentiamo il lato rock, Stefano è più etero e morbido. E Egle fa tre pezzi con l’acustica come solo lui sa fare, col fingerpicking.
W: C’è un’alchimia particolare, ognuno ha il suo ruolo. E Egle è stato fondamentale in sala prove. Il prossimo passaggio ora è trovare un nome. Altrimenti è sempre “Wu Ming e i suoi ragazzi…”. (ride, NdA)
Per “Manituana” non è stata fatta, volutamente, nessuna presentazione. Con “Pontiac”?
W: Avevamo deciso di non presentarlo a Bologna, nei soliti posti. Volevamo cambiare un po’, ma nessuno si è fatto avanti, a parte Feltrinelli, dove non abbiamo mai fatto presentazioni perché non ci piace come tipo di situazione. Con “Pontiac” è stata la stessa cosa. Anzi, non abbiamo messo nessun tipo di veto, ma nessuno ci ha chiamato. Solo Radio Citta del Capo per la festa che ha fatto al Locomotiv, e dove abbiamo notato grande interesse.
Bologna, 2008. Tutti si lamentano e rimpiangono i favolosi anni ’90…
P: ...e nei favolosi anni 90 si rimpiangevano i favolosi anni 80…
W: In realtà Bologna non ha mai avuto tempi così d’oro. Negli anni ‘90 uscivano articoli dell’Espresso sulla Seattle italiana: obiettivamente erano miti. Nel 1991, l’Isola Posse (Isola Posse All Star, storica crew rap nata in un centro sociale della città, NdR) cantava “anni e anni di cazzate tipo isola felice, non hanno fatto poi danni”. Già allora Bologna si cullava nel mito di essere una città diversa. Oggi il costo della vita è cresciuto a livelli insopportabili e questo ha fatto sì che l’università non sia più un fattore di cambiamento nella composizione sociale della città. Prima c’erano molti più fuori sede, ed erano davvero diversi dal bolognese medio, che tendenzialmente rimane ‘in balotta’ tra gli amici di sempre. Io invece li avvertivo come una risorsa, qualcuno che aveva visto altre cose. Ed era così: tutti i posti che frequentavo a 20 anni, gli spazi occupati…erano pensati, tenuti e organizzati da fuori sede. Oggi forse manca questo aspetto, la maggior parte di chi viene da fuori assomiglia un po’ di più al bolognese medio.
Quindi la politica non c’entra?
W: Beh, sì. L’ultimo sindaco che aveva un’idea di cosa fare in città è stato Walter Vitali. Un’idea assolutamente non condivisibile, ma almeno c’era qualcosa a cui contrapporsi. Ora sono dieci anni che nessuno ha un progetto concreto per la città: chi più di destra, Cofferati, o più di centro, Guazzaloca. Probabilmente la differenza si nota ancora, nell’offerta culturale, ma è tutto in mano ad associazioni e privati.
In “Pontiac” i cittadini annunciano che si autogestiranno contro gli indiani. Sono le ronde di oggi!
W: Pochi giorni fa, alla data di Biella, mi sono reso conto della forte allegoria della storia, molto più attuale ora rispetto a quando l’ho scritta. Sì, le lettere dei cittadini sono le ronde. E anche le domande su ‘cosa siamo’ rispecchiano il clima attuale. Ora però abbiamo delle risposte. L’hanno detto cosa siamo, per i clandestini. Criminali. E’ un reato.
Forse avremmo proprio bisogno di un “Pontiac”…
W: Pontiac mise insieme nazioni e tribù diverse, che si scannavano tra di loro. Oggi forse dovremmo capire che dietro ai problemi contingenti di ciascuno, ce n’è uno di fondo, che tocca i diritti e la dignità delle persone. Un problema comune, per clandestini o precari. Che si scontra contro l’incapacità di gestire qualunque diversità. Forse il prossimo spettacolo sarà sull’unico partigiano nero della Resistenza. Un partigiano di origine somala.
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L'articolo Wu Ming 2 - Bologna, 27-05-2008 di Sara Scheggia è apparso su Rockit.it il 2008-06-16 00:00:00
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