Mancano un paio di minuti alle 19 quando mi trovo di fronte al Matricola Pub in viale Romagna, all'angolo con via Giovanni Pascoli, nella zona nord est di Milano. Sono in attesa di Valerio Visconti, in arte solo Visconti, giovane cantautore piemontese classe 2000 all'esordio con il suo album DPCM. È una sigla che abbiamo ben imparato a conoscere in piena pandemia, uno di quei termini che sono entrati di colpo nella nostra quotidianità mutilata del lockdown assieme a "mascherine", "assembramenti" e "CTS". Un titolo che a dirla tutta all'inizio mi ha fatto abbastanza storcere il naso per essere così didascalico, pigro, come a volerla giocarla facile, senza neanche provare a mettere un velo di fronte al contesto in cui la furia post punk di Valerio ha preso forma.
Probabilmente questo mio sfasamento è dettato proprio da quanto mi abbia colpito il modo di scrivere di Valerio fin dal primo brano che mi è capitato di sentirgli cantare, Le idi di marzo, quando era ancora solo in versione chitarra e voce dentro a un loft in via Tucidide di cui trovate il video in questo articolo. Una serie di immagini decadenti e rime spezzate, che nel sovrapporsi danno vita a una storia priva di struttura narrativa ma dal potere evocativo fortissimo. "È solo un gioco, le mani nei capelli di un morto per provare ad affrontare quel distacco abissale", un ritornello sfocato che diventa inno corrotto. È uno che con poche parole sa disegnare mondi interi Visconti, una capacità espressiva da poeta maledetto –ispirata da Paolo Conte, come mi rivelerà poi – che mi ha immediatamente coinvolto nella sua torbida estetica e che mi ha conquistato del tutto quando l'ho visto dal vivo lo scorso novembre, alla festa di Dischi Sotterranei a Padova, accompagnato dai Giallorenzo come backing band.
È mentre sto spiando dei nomi assurdi sul citofono di un condominio accanto al pub che dalla porta di fronte a cui mi trovo sbuca proprio lui, Visconti. Addosso ha un cappello col frontino color salmone e una felpa dell'esercito. Il contrasto è volutamente comico: "La felpa l'ho trovata in un mercatino dell'usato e mi faceva ridere l'idea di averla addosso", mi racconta ridendo. Ci sediamo e ordiniamo una birra, prima di entrare a piene mani dentro DPCM.
"Il primo pezzo che ho scritto in realtà è stato Poeti, ma non sapevo si sarebbe chiamato così. Era aprile 2020". Inizia a raccontarmi Valerio. "Quello è stato il punto di partenza, poi ho ripreso la scrittura in mano molto dopo, a settembre. Ho registrato tutti i brani in camera mia durante la pandemia, suonando tutti gli strumenti: col gruppo che avevo prima provavamo da me, quindi avevo tutto a disposizione". Queste demo sono lo scheletro di DPCM, a cui poi è arrivata la mano di Giulio Ragno Favero (ex Teatro degli Orrori) in produzione. A fare da ponte c'è stato uno dei pochi punti di riferimento in Italia per Visconti: Jesse the Faccio.
"Un giorno ero a cena con i miei coinquilini e ho deciso di fargli ascoltare questi brani e loro mi suggerivano di mandarli a qualcuno. Così, alle 2 di notte, ho preso coraggio e ho scritto a Jesse", spiega Visconti. "Due settimane dopo ci siamo beccati a Milano, abbiamo parlato per ore di tutt’altro, ci siamo molto trovati. Dopodiché ho conosciuto anche Novak di Dischi Sotterranei e da lì è iniziato tutto".
In 7 tracce il post punk di Visconti si snoda tra la parodia battiatiana di La morte a Venezia, dove il citazionismo più randomico e nosense viene cantato con tono pomposo su un arrangiamento in pieno stile The Jam, la decadenza romantica di Narcisi sbagliati – dove un morbido giro di basso costellato di armonici diventa un febbricitante groove da Gang of Four –, che vale tanto nel paganesimo dei giardini di Bomarzo quanto nel disagio contemporaneo dei club di Berlino, e l'abrasiva sintesi del disco con Ammorbidente. Sta tutto qui: "Desidero una vita decadente, un panorama fatiscente, un po' di ammorbidente".
Costante nell'immaginario frustrato e bohémien di DPCM è la morte, onnipresente, dall'assassinio di Giulio Cesare agli orrori del nazismo, fino alla già citata La morte a Venezia, in ogni brano compare almeno un riferimento. Un memento mori incancellabile: "La pandemia, nel suo cambiare molte cose nella mia vita, mi ha avvicinato a questo concetto", spiega Visconti. "Aver messo brutalmente in discussione l'idillio di molte certezze mi ha portato a vederla più come 'live fast, die young'".
Più parliamo, più mi rendo conto che la chiave del disco è proprio in quel titolo che superficialmente avevo liquidato la prima volta che l'avevo letto. Lo specchio della pandemia è solo un aspetto del crollo delle certezze che Valerio Visconti si è trovato a vivere in quel periodo. "Avevo da poco iniziato l'università a Lugano. Ci andava un mio amico che aveva l’aggancio là, l'università offriva un corso che integrava filosofia ed economia e in piena wave materialista e produttiva mi sono detto: 'Devo trovarmi un lavoro stabile, forse questa è la scelta giusta'. La zona rossa è stata una scusa per mollare. Quella morte che aleggia nel disco c'è stata, perché è mancato il padre di un mio amico, e poi il culmine è stato una cosa che non mi aspettavo potesse succedermi superati i 20 anni: i miei si sono separati".
Quando sei un ragazzo di buona famiglia e un bravo studente facendo solo il minimo sindacale, dalle prospettive rosee, e vedi tutto l'ordine che ti circondava venire giù, la reazione inevitabile è sentirsi totalmente smarriti, disillusi, traditi da una vita che sembrava già indirizzata sui binari giusti. Per questo la rabbia che brucia in gola a Visconti è incendiaria nel manifesto programmatico della title track, fatto di versi sparati con la foga del Giovanni Lindo Ferretti più incazzato su un punk serrato alla Germs. Per questo DPCM poteva chiamarsi solo così, come se il Covid si fosse portato dietro una scia di caos che va ben oltre la pandemia.
Il punto più straziante del disco è proprio il brano conclusivo del disco, Nulla mi urterebbe di più, dove l'incomunicabilità tra padre e figlio viene amplificata al massimo da una situazione che mi spiazza completamente quando finiamo a parlarne. "È un pezzo molto imbarazzato, rappresenta un periodo in cui la tensione tra i miei genitori era al massimo", svela Visconti. "Improvvisamente mi sono trovato a considerare mio padre uno sconosciuto che per un anno e mezzo ha vissuto una vita parallela. Da una settimana all'altra se n'è andato di casa, il brano racconta di queste cene settimanali in cui andavo da lui pieno di rancore e in cui si parlava di qualsiasi argomento tranne che dell'elefante nella stanza".
DPCM è quindi una crisi vera, un tracollo verticale di un ragazzo che si è visto stravolgere la vita dalla pandemia solo in parte. È tutto il contesto a essere cambiato, come se non ci fosse più un appiglio solido a cui aggrapparsi. Un flusso pungente di suoni e parole fotografa immagini grezze, ruvide, sospese tra il grigio del presente e figure storiche del passato che hanno raggiunto l'apice per poi crollare miseramente a terra. E che esplode nella potenza furibonda di un ventenne che è prima di tutto un cantautore capace, tanto sensibile quanto spietato, che non poteva presentarsi al pubblico in maniera migliore.
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L'articolo La caduta di casa Visconti di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2022-03-18 15:00:00
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