Bonola senz'anima

Il cantautore livornese Candra debutta con "Bonola Boy", un disco dove convivono Nirvana, Verdena e Lil Peep e lungo quanto un viaggio sulla metro di Milano. E dove racconta la sua discesa nell'inferno della tossicodipendenza, nell'impresa impossibile di salvarsi dal fallimento del quotidiano

Candra in mezzo alla folla della metro di Milano - foto stampa
Candra in mezzo alla folla della metro di Milano - foto stampa

Dentro la metropolitana di Milano si svolge una lunga discesa nell'abisso. Alla fermata di Bonola sale un ragazzo alto e magrissimo, simile a Johnny Greenwood, sguardo sfuggente e spalle strette. Lui si chiama Candra, ha 30 anni e si sta dirigendo a Rogoredo, presso il Capanno, ossia la casa di fortuna di due spacciatori ricavata tra i binari della vecchia stazione. Bonola Boy è la sua dolorosa autobiografia in musica, il racconto personale e intimo della sua tossicodipendenza, ora che è riuscito a lasciarsela alle spalle.

Bonola Boy, in uscita il prossimo 18 marzo, è concepito proprio come un viaggio in metro, dove a ogni fermata corrisponde una canzone che si fa via via più cupa, più infestata da un demone che sembra impossibile sconfiggere. È lo specchio di un mondo che Candra racconta senza filtri, mettendosi a nudo con un'onestà spiazzante, fino a toccare punti commoventi come quando si rivolge con urla bruciate dal dolore ai suoi genitori nella conclusiva Io no: "Padre, madre, meno male che l'amore non ha prezzo e io non l'ho potuto vendere". Immagini ingenue e delicate vengono contrapposte a strappi laceranti nella voce, con la stessa immediatezza e urgenza di Jeff Magnum e dei suoi Neutral Milk Hotel. Un disco bellissimo, che ci siamo fatti raccontare dal suo autore.

Candra seduto alla fermata Lodi - foto stampa
Candra seduto alla fermata Lodi - foto stampa

La tua storia passa per due città, Livorno e Milano. Che cosa rappresentano per te?

Livorno è la città che mi ha cresciuto, dove ho iniziato ad avere le prime esperienze, i primi amori, un primo approccio con la musica e dove ho incontrato una famiglia al di fuori della mia vera famiglia, un gruppo di amici che sono diventati tutto il mio mondo, con cui ho iniziato a fare musica solo per farla, a coltivare passioni e a nutrire la mia curiosità. Livorno però è anche la città che mi ha saturato, soprattutto a causa del mio problema di dipendenza. A un certo punto me la sentivo stretta addosso, claustrofobica, fino a che ho preso la decisione di partire. Milano la vedevo come una via di fuga, una boccata d'aria, un punto da cui ripartire e in un certo senso lo è stato. Volevo scrivere canzoni, suonare per strada, conoscere un posto nuovo per avere nuovi stimoli. È questo che alla fine mi ha spinto a scrivere il materiale che poi è diventato Bonola Boy.

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Nel tuo disco sembri entrare in contatto con il tuo bambino interiore che ha bisogno di gridare. È un lavoro di autoanalisi?

Non so se si può chiamare autoanalisi, ma per me scrivere è sicuramente un momento di riflessione importante. Diciamo che da un lato è un tentativo di rientrare emotivamente in contatto con un periodo della mia vita molto tranquillo, che ricordo con estremo piacere e leggerezza, dall'altro di spiegare come mi sentissi durante il periodo della dipendenza: non autosufficiente, perennemente alla ricerca di soddisfare un bisogno che mi ero inventato da solo, che mi ero consapevolmente autoimposto, incapace di fare qualsiasi cosa, anche la più semplice come alzarsi dal letto se prima non mi facevo, per sentirmi essenzialmente normale. Anche scrivere, che era una cosa che mi faceva stare bene, passava, istantaneamente, in secondo piano, non perché lo scegliessi ma perché alla fine di una fila di piccola scelte sbagliate, ero obbligato.

Hai scritto di un percorso di dipendenza, ogni fermata di stazione una canzone, ma anche una Via Crucis. Perché hai sentito il bisogno di raccontarlo?

Più che un bisogno è stata una conseguenza inevitabile, è dentro il disco perché è stato una parte imprescindibile di me, nel bene e nel male. I miei testi sono per lo più autobiografici, parlo di quello che mi accade, racconto di persone che incontro, di amici, amori, della quotidianità. E la dipendenza per me per molti anni è stata quotidianità. Le fermate sono state un modo per evidenziare la stasi che stavo vivendo in quel periodo, quel viaggio che si ripete ogni giorno, sempre uguale. Il bisogno era piuttosto quello di voler essere altro oltre che un tossico/al di fuori della dipendenza. Avevo qualcosa che amavo fare, cose da dire e mi ci sono aggrappato con i denti e forse anche questo alla fine mi ha aiutato a non sprofondarci dentro fino alla gola, a rimanere ad un punto tale che mi ha permesso di tirarmene fuori.

Candra - foto stampa
Candra - foto stampa

Hai fatto pace col tuo demonio interiore?

Non del tutto, ma diciamo che adesso ci convivo tranquillamente. Non credo che ci farò mai la pace completamente, è solo che diventa più debole, più vecchio e quindi più gestibile e questo, per me, è sia un bene che un male perché ho sempre pensato che fosse come un nucleo da cui hanno origine sia le cose negative, quelle con cui mi sono fatto del male, ma nel mio caso, anche le cose belle che ho fatto, le cose di cui sono orgoglioso. Come questo disco, appunto.

La tua musica è molto varia, sporca e insieme pulita, un po’ come sembra essere il tuo percorso. Quali sono le tue influenze e i tuoi dischi preferiti?

Musicalmente sono cresciuto con i Nirvana e tutti i gruppi che ho scoperto con loro tipo Sonic Youth, Mudhoney, Meat Puppets, Melvins, Vaselines, poi con i Verdena, i Marlene Kuntz più avanti mi sono innamorato dei cantautori italiani. Ho iniziato ad ascoltare Tenco, Battisti, Finardi, Vecchioni, Paolo Conte e tanti altri. Ascoltando De André, per esempio, mi sono innamorato della scrittura, da Piero Ciampi invece ho imparato a cantare di me stesso, a non usare parole o formule di altri. Alcuni dei miei dischi preferiti sono Io e te abbiamo perso la bussola di Piero Ciampi, Storia di un impiegato e Tutti morirono a stento di Fabrizio De André, In Utero dei Nirvana, Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt di John Frusciante, Wow dei Verdena Come Over When You're Sober di Lil Peep 23 6451 di Tha Supreme.

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Com’è stato il processo compositivo delle canzoni di Bonola Boy?

Bonola Boy è nato in studio con Matteo D'Angelo e Francesco Scola/Paralisi, i due produttori del disco. Avevo tutti i pezzi chitarra e voce e una vaga idea di come dovesse uscire fuori il disco. Con loro abbiamo deciso di prenderci la libertà totale di sperimentare, in virtù di far uscire un disco che fosse in grado di far entrare l'ascoltatore all' interno di un mondo, che lo mettesse in condizione di comprendere al meglio quella che era la storia raccontata nei testi delle canzoni. Per me era importante che il tutto risultasse come una serie di fotografie che appaiono nella testa di chi ascolta.

Quanto c’è bisogno di canzoni che parlino di vita vera e non d’amore o di problemi di nessun conto?

Penso in realtà che ci sia bisogno di entrambe. Nelle mie canzoni, per esempio, parlo molto d'amore, magari non con il linguaggio a cui siamo abituati quando se ne parla di solito, e quello è dato dalle mie esperienze personali. È tutto molto soggettivo, quello che per me è di vitale importanza magari diventa futile agli occhi di qualcun altro. L'importante è la motivazione che ti spinge a fare le cose, l'esigenza di sputare fuori te stesso senza barriere, senza paura, solo perché ne hai bisogno o perché pensi che in qualche modo possa trasformarti in qualcosa di migliore. Intendo dire che se una cosa nasce da un'esigenza vera di esprimere se stessi, ben venga.

Candra con una sigaretta - foto stampa
Candra con una sigaretta - foto stampa

Hai mai pensato di trasformare la tua esperienza in un libro?

Mi piacerebbe molto. Nel tempo ho provato a scrivere racconti brevi, anche al di fuori della mia esperienza, ma ho sempre abbandonato. Scrivere un libro è per me, tra le altre cose, un esercizio di pazienza e costanza ed io manco di tutte e due purtroppo. Sono completamente incapace di pianificare e la forma canzone mi permette di comunicare senza doverlo fare troppo.

In una società come la nostra, che ci vuole vincenti fino a diventare pazzi o automi, quanto costa mettere alla berlina un proprio fallimento?

Diciamo che io ho un buon rapporto con il mio fallimento, sarà che ci ho vissuto dentro per tanti anni e che con il tempo ho imparato a gestirlo, e quando mi sono esposto con questo disco è stata da subito un'esperienza positiva, una liberazione. A me faceva soffrire vedere le persone vicine a me che soffrivano per il mio personalissimo fallimento, ho odiato far pensare a mio padre e a mia madre di essere un fallimento come genitori quando non era così. Ho sofferto nel vedere gli altri farsi carico dei miei fallimenti.

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L'articolo Bonola senz'anima di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2022-03-17 09:35:00

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