Cambiano nome, si affidano a Carla Bozulich e sfornano un album colossale, di quelli che lasciano segni evidenti. Li abbiamo intervistati.
Cambiare nome è un po' come cambiare pelle. Come quando Michael Jackson diventò bianco, l'opinione pubblica si divise tra coloro che accolsero favorevolmente il cambiamento e chi lo accusò invece di rinnegare le proprie origini. C'è qualcosa che rinnegate dei Baby Blue?
Mirko: È grazie ai Baby Blue se siamo arrivati fin qui e se siamo riusciti a fare questo disco, per cui non rinneghiamo assolutamente nulla.
Lorenzo: Quel "Blue" che resta serve per ricordarci di farsi accompagnare sempre da una qualche malinconia, il "Baby" da cui ci stacchiamo forse segnala un passo verso qualcosa che si colloca in questo momento in una specie di adolescenza. La maturità è di là da venire.
Serena: Comunque vorrei dire che noi siamo rimasti neri, per quel che si può. (ride, NdA)
Il vostro disco raccoglie influenze molto distanti tra loro che pure riuscite ad accostare benissimo. Una sorta di antologia sonora che volteggia tra punk, blues, cabaret. Questa spinta verso la commistione di elementi diversi, che spesso risulta essere una riuscitissima giustapposizione, è in qualche modo dovuta ai vostri gusti artistici individuali che si incontrano grazie ai vostri brani o è una spinta collettiva, essendo parte del progetto della band?
L: C'è poco di pianificato e molto di istintivo, c'è però molto moltissimo lavoro a partire dalla spinta iniziale. Ognuno di noi cede a inclinazioni e ossessioni differenti, gusti, formazione, idee, tentativi di invenzione. Quello che è successo concentrandoci su questi pezzi in tutti questi mesi è stato cercare di capire come collezionare queste spinte individuali e farle confluire nel piccolo paesaggio del suono di una canzone. Una canzone, un sogno.
S: Cerchiamo di arrivare al fulcro dell'ispirazione, piccola e incompleta che sia, ma insomma cerchiamo di abbracciare il più possibile quella sensazione onirica e che si allontana veloce veloce.
M: Non cerchiamo di fare una commistione di elementi; non ci capita praticamente mai di riferirci ad altri gruppi o artisti quando arrangiamo i pezzi. Cerchiamo piuttosto di cogliere lo spirito di base di ogni pezzo, di spogliarlo di ciò che è superfluo e di seguirlo e amplificarlo al massimo fin quando non è diventato una specie di mondo nel quale si può entrare dentro.
I vostri pezzi danno l'idea di un work in progress, e questa importanza che date al processo con cui i pezzi nascono è testimoniata anche dal fatto che abbiate realizzato “Ignore the Noise in the Amp”, video a cura di Pamela Maddaleno che documenta delicatamente la genesi del vostro disco. Mi raccontate qualcosa a riguardo?
L: Rispetto al processo: l'incontro con Carla Bozulich è stato cruciale, anche perché è avvenuto in un momento in cui i pezzi che ascolti oggi avevano già raggiunto una forma e un contenuto che ritenevamo "consistenti", nel senso che potevamo decidere se fermarci lì o tentare di consegnarli a qualcuno (fuori da noi e dal nostro processo, appunto) che potesse accompagnarli verso un territorio distante aprendo visioni a cui non saremmo potuti arrivare da soli e questo abbiamo fatto.
S: Volevamo che Carla prendesse per la mano queste canzoni e le portasse a fare delle passeggiate lontano lontano..
La domanda su Carla ve la faccio alla fine, prima voglio parlare di voi.
L: Va bene. Pamela si è immersa con noi e ha dato una forma sintetica alla traccia del lavoro che stavamo portando avanti in modo totalmente asincrono nello studio, giorno e notte ribaltati grazie o per colpa del jet lag.
M: I pezzi sono effettivamente un continuo work in progress, continuano ad evolversi continuamente anche dopo che abbiamo finito il disco.
Ad esempio nella dimensione live?
M: Sì, soprattutto nei concerti. I pezzi cambiano di continuo, e dopo un po' scopri che si sono evoluti a volte senza che ce ne accorgessimo. Uno dei motivi per cui i pezzi si evolvono è che ci lasciamo un ampio spazio per improvvisare, come accade comunque in vari punti del disco seguendo ovviamente un canovaccio di base.
Un po' come nella commedia dell'arte.
M: Esatto, che bello.
A proposito di cose teatrali, ci sono diversi elementi tratti dall'estetica del cabaret nel disco. L'amore per il cabaret nasce da un'influenza diretta di questa forma di spettacolo o vi è arrivato filtrato attraverso altre forme d'arte?
M: Per quanto mi riguarda forse l'influenza deriva di più dalla musica popolare europea in generale che dal cabaret nello specifico. Quello che ci piace di più e che in qualche modo ci ha influenzato di questo modo di fare musica è il fatto che si possa essere divertenti in senso bambinesco, talvolta persino comici, usando esclusivamente elementi musicali. Riuscire a strappare un sorriso usando semplicemente delle note e il ritmo per me è una gran cosa e ci permette anche di rendere il tutto meno pesante.
L: Probabilmente è che la musica che suoniamo (chiamala come vuoi ma resta una roba rockettara), specialmente nel momento cruciale del palco, del confronto con altre persone (chiamale pubblico?) che non sai se e quando ti amano o ti odiano, ha qualcosa in comune con il comico e il tragico di un teatro raffazzonato. Suonare questa roba ha qualcosa del teatro, ma non ha nessuna protezione.
In che senso protezione?
L: Nel senso che il contesto in cui ci troviamo a farlo quasi mai coincide con quello che ci si potrebbe aspettare, ma se dio vuole non c'è alcuna sofisticazione in questo, è tutta pura verità, avanspettacolo, assurdo, coincidenze. Noi suoniamo e facciamo i conti con questo, con limiti di altoparlanti e cavi e interferenze. Di sopra e di sotto e dietro al palco non si può sapere cosa succede e in quel brancolare noi cerchiamo di dire le cose più precise che possiamo.
Se è vero che, come dicevate prima, si tratta pur sempre di rock, possiamo dire che è una forma di rock in movimento, molto variegata. Anche la genesi del disco, dando una rapida occhiata al comunicato stampa, è avvenuta in luoghi diversi. Da cosa fuggono musicalmente i Blue Willa?
L: Il punto è: verso dove stiamo fuggendo?
M: Più che fuggire da qualcosa direi che stiamo andando verso qualcos'altro Serena: Non credo si stia fuggendo, piuttosto ci stiamo cercando. E non è per nulla facile.
Ok, Verso dove state fuggendo?
M: Direi che è un direzione, non una meta. Si tratta di dirigersi sempre più verso la liberazione della nostra musica.
Liberazione da cosa?
M: Da tutto quello che non è musica, intesa come suono, vibrazione, spogliata da tutto il resto, che sono sovrastrutture che ci siamo costruiti noi attorno e che non fanno altro che limitare le potenzialità della musica. È un obiettivo piuttosto alto, me ne rendo conto, e ne siamo decisamente lontani, ma tanto vale puntare in alto.
L'idea di movimento di cui vi parlavo prima è suggerito anche dall'artwork della bravissima Alessia/Cuore di Cane. Mi dite qualcosa di lei?
S: La copertina di Alessia ha fatto immediatamente breccia su di noi, appena l'abbiamo vista abbiamo capito che era quella giusta, pensiamo rappresenti bene la pallina di vetro sognante dentro cui abbiamo pescato suoni e personaggi del disco. Ha saputo interpretarlo da vicino. Abbiamo la fortuna di averci già lavorato per locandine e delle cartoline e ci aveva davvero colpito il modo romantico e anche un po' macabro con cui sapeva animare la nostra musica. Per me lei ha completato un quadro altrimenti sfocato.
L: Alessia ha ascoltato il disco e l'ha direttamente tradotto e impastato nel suo terreno di immagini, come se la copertina fosse un'altra canzone.
Tra l'altro lei ha realizzato anche la copertina del tributo ai Codeine, al quale avete partecipato come Baby Blue. Come vi siete trovati coinvolti in questo progetto? Cosa ha significato questa band per voi?
M: In realtà abbiamo partecipato principalmente perchè i ragazzi della White Birch Records ce l'hanno proposto e ci tenevamo a collaborare con loro. Avevamo già collaborato varie volte con i Ka Mate Ka Ora - che gesticono l'etichetta - che hanno addirittura fatto una cover di un nostro pezzo nel loro penultimo disco, e per questo saranno sempre nei nostri cuori.
L: Ci siam presi la libertà di maltrattare un pochino i Codeine che rispettiamo ma che non sono un nostro intoccabile punto di riferimento. Per noi è stato l'ultimo pezzo su cui ci siamo arrovellati da Baby Blue, quindi forse bisogna leggerci dentro la metafora di qualcosa.
Mi arrovello sulla metafora. L'ultimo pezzo dei Baby Blue sul tributo a una band storica che dopo essersi sciolta si riunisce per un ultimo tour insieme. Ci sarebbe da scrivere un libro sui potenziali significati latenti...
M: Sì, tra l'altro è il pezzo più caotico che abbiamo mai fatto.
Come Blue Willa invece di quale band vorreste fare un tributo?
M: A me piacerebbe fare una cover degli Os Mutantes. Anzi no: Tom Zè
S: Io tributerei Kurt Weill. Lo hanno fatto in mille ma secondo me non mancherebbero sorprese vista la sua immensità.
L: Una volta (solo una volta purtroppo) abbiamo fatto una cover di una canzone americana antica che si chiama "King kong kitchie kitchie ki-me-o". Era un progetto legato a musica e infanzia, e tra i vari pezzi nel repertorio di quella sera abbiamo inserito quella, che tra l'altro sta nel disco più bello di ogni tempo e luogo che è l'Anthology of american folk music curata da Harry Smith.
Tra l'altro noto che il testo parla di animaletti.
S: Sì! Mi entusiasmano un monte...
Volevo appunto chiederti perché i titoli dei brani dell'ultimo disco sono tutti nomi di animali. Ma credo tu mi abbia già risposto. Ma passiamo all'ultima domanda: com'è, a livello umano, emozionale ed artistico, lavorare con Carla Bozulich?
L: In una parola sola: indescrivibile. È stato un incontro fondamentale anche per quanto riguarda la sua dimestichezza artigianale. Abbiamo avuto la fortuna di avere a che fare con una musicista con tutte le lettere maiuscole, cosa rara.
S: Carla è stata una sciamana. Non ha forzato il percorso, ha spinto i nostri sguardi lontanissimo senza che nemmeno ce ne rendessimo conto. Non aveva l'ossessione del dettaglio, ma piuttosto era tesa a far confluire tutte le scie del disco e a valorizzarle tutte e questo è stato liberatorio per tutti, credo.
M: È stata un'esperienza piuttosto forte, sia dal punto di vista fisico che mentale. Quando fa musica lei si dà completamente, è la sua qualità più incredibile, e con noi ha fatto lo stesso. Quando hai accanto qualcuno che è su quella lunghezza d'onda non puoi fare altro che sintonizzartici anche tu. I primi giorni prima di andare a letto ci guardavamo increduli di quello che stava succedendo. Lei viaggia a dei ritmi elevatissimi quando lavora e non bada a orari né schemi di lavoro. Talvolta ci siamo ritrovati a iniziare le registrazioni di un pezzo alle tre di notte. Abbiamo imparato tantissimo in ogni caso e ci siamo resi conto molto chiaramente che abbiamo ancora molto da imparare.
S: È stato come andare a scuola, al ginnasio in senso stretto: una palestra, esempio e respiro e libertà.
M: Esatto, e questo ci ha portato a ridimensionare anche molte altre cose, noi stessi per primi. S: Ma mentre ci ridimensionavamo, ci stavamo espandendo.
Se non volete aggiungere altro, per me va bene così. È stato bello. Non lo dico per dire.
S: Anche per noi. Buon Micheal Jackson a tutti!
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L'articolo Blue Willa - Punk Cabaret di Roberta D'Orazio è apparso su Rockit.it il 2013-01-29 14:06:21
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