Due anni dal tuo ultimo disco. Cos’hai fatto nel frattempo? Hai viaggiato?
No, perché l’ultimo concerto che ho fatto dal vivo è stato all’Arena di Verona a maggio dell’anno scorso. Quindi in realtà sono “fermo” da un anno, ho iniziato a scrivere canzoni proprio in quel momento e un mese dopo ero in studio di registrazione per la preproduzione del disco. Ho finito a gennaio, ho iniziato a registrare le canzoni verso febbraio e oggi son qui. Per cui non c’è stato in realtà un momento fermo, ecco.
In un certo senso quindi c’è molta continuità con “La teoria dei colori”, almeno a livello di tempistiche…
Assolutamente sì. Più di ogni altro disco questo album è legato con la mano a quello precedente. È come se in qualche modo mi fossi portato dietro tutte le esperienze vissute in quel periodo invece che fermarmi, mettermi a maggese, andare a vivere chissà dove poi tornare e raccontare cos’ho vissuto. C’è tanto dell’entusiasmo vissuto in quel periodo lì per il successo del disco precedente, portato dal vivo e poi trascinato fino a quando sono partito a scrivere le nuove canzoni.
In “Logico” lo stile è sempre il tuo: pop beatlesiano con ritornelli che si aprono e si spiegano come vele. Nei suoni però c’è un’evoluzione, sono più ‘sintetici’, quasi elettronici. Diciamo che si avvicinano molto ai suoni del pop internazionale contemporaneo. Suona moderno, ecco.
Sì, ma questo credo sia dovuto al fatto che per me ogni disco è un po’ una reazione allergica a quello precedente. Per una questione personale, forse caratteriale, non riesco a non reagire, a pensare di poter fare la copia di un disco che ho già fatto, perché poi sarebbe comunque una brutta copia; al di là di tutto vorrebbe dire restare fermi, e restare fermi è proprio la cosa che mi spegne di più. Allo stesso tempo credo che sia giusto cercare di incuriosire se stessi e gli altri, perché altrimenti succede quello che troppo spesso succede in Italia, e cioè che i dischi di un artista possono essere molto simili nell’arco di 10 anni di carriera, quasi identici. Poi dopo ci si lamenta che il disco non è più interessante come oggetto. La mia ambizione e presunzione è quella di riuscire a fare in modo che ogni volta che esco con un disco ci sia curiosità attorno. Questo secondo me è un album che può avere quest’intento.
A livello di ricerca musicale c’è qualche ascolto che ti ha influenzato durante la scrittura? Sei entrato in studio con un’idea di suono in particolare?
Sono entrato in studio con l’idea di cercarlo, non avevo un’idea di suono premeditata da poter ricalcare. Allo stesso tempo credo che questo album rappresenti un mix tra tanti miei ascolti, sia attivi che passivi. Quelli attivi sono quelli che ascoltiamo perché magari compriamo un disco di un artista che ci piace.
Fammi qualche nome...
Tutta la musica inglese dagli anni 60 a oggi; è difficile che ora come ora io diventi fan di un gruppo in particolare…non è che se esce il disco dei Kasabian allora mi metto la fascetta dei Kasabian in testa, ecco. Non sono più così perché è difficile esserlo alla mia età, soprattutto se fai il mio mestiere. Però mi lascio influenzare, perché mi riconosco in quello sguardo folle che hanno gli inglesi in ogni cosa che fanno, dal modo in cui parlano a quello in cui suonano e cantano. Tutto ciò che è inglese per me rappresenta un punto di riferimento. Quello che intendevo dire però è che ci sono un mucchio di ascolti passivi che sono quelli che magari rappresentano la musica che non stai scegliendo per forza, che è la musica che ti attraversa. Ce n’è tanta oggi, di brutta e di bella: per esempio gli spot della televisione che ascolti mentre aspetti di guardare il tuo programma, senti pezzi magari anche fighi e belli, non sai cosa sono e comunque ti influenzano indirettamente; oppure i suoni che senti mentre fai la spesa al supermercato, quando esci con gli amici e vai a ballare, dal posto più bello in cui c’è musica elettronica figa, al posto più brutto in cui capiti per caso e lo odi. È tutta musica che ti attraversa. Questo album sicuramente raccoglie questi input e cerca di mixarli insieme, il più delle volte cercando suoni che però non trovi in un preset elettronico, o che potresti già trovare uguali in un altro disco. La maggior parte dei suoni nuovi che ho utilizzato in questo album sono suoni cercati, alle volte trovati quasi per caso, di cui ci siamo innamorati. Non sono suoni per forza appartenenti a un genere musicale preciso. A volte li abbiamo tirati fuori da macchine molto antiche, molto vintage, attraverso una manipolazione di pomelli infiniti. Suoni e pomelli che sarà un casino ritrovare, ma abbiamo fatto le foto!
A me incuriosisce moltissimo anche la parte degli arrangiamenti, perché nei tuoi dischi sono sempre maestosi: archi, pianoforti, fiati in quantità. Credo tu sia tra gli unici nel pop italiano contemporaneo che si avvicinano come produzione a quelle del ventennio ‘60-’70. Come lavori alla scrittura, da questo punto di vista?
Il mio è un team di lavoro, ma non come può esserlo del mondo hip hop in cui esiste uno scrittore di testi, uno per le basi, un dj che sa costruire la struttura di un lancio o di un beat e cose del genere. Il mio team di lavoro è un gruppo che riesce a interagire in maniera molto unita, quasi come se fosse una squadra. Come se stessimo in qualche modo dipingendo insieme, ecco. È chiaro che poi il “decisionista” devo essere io, perché poi sono io quello che porta sul palco questa cosa. Però esiste un collaboratore molto importante per me che è Walter Mameli, che in qualche modo sa smorzare gli entusiasmi; questo perché io sono un iperentusiasta e lui invece, come tutte le persone un po’ più grandi, sa dirti “calma!” e mi impone di riflettere un po’ sulle cose, sui suoni che sto cercando, mi mette di fronte a delle scelte. Per alcune canzoni a volte si arriva alla soluzione finale dopo otto versioni diverse che attraversano tutti i generi musicali della storia della musica. Alla fine poi ho capito che questa fatica, questa pazienza che mi viene imposto di utilizzare, è molto utile.
Oltre a lui esiste una persona più operativa, che è quella che fa le notti insieme a me a cercare i suoni, quella con la quale si toccano gli strumenti con le mani sporche di pizza, la persona che vive sul campo in maniera un pochino più tecnica, che è Alessandro Magnanini. Oltre ad essere un artista è anche un bravissimo arrangiatore, e quindi in qualche modo c’è un’influenza continua tra me, Walter e Alessandro nel cercare di tirare fuori l’idea o il suono che cerchiamo.
Ognuno porta il suo contributo: Alessandro è un ottimo arrangiatore di archi per esempio, e quindi da una mia idea che gli porto lui sa costruirmi un arrangiamento completo e quasi orchestrale, cosa che per me sarebbe un pochino più complessa. Proprio perché è stato lavorato così, “Logico” è un album che mi ha fatto crescere molto come musicista. Può succedere invece che durante la scrittura di un disco tu sei lì che lavori, arrangi e scrivi tutto il tempo, ma ti fermi come persona e come artista, ti metti in stand by e devi solo cercare di portare le cose fino al loro termine. Invece questa volta mi sono accorto di essere molto cresciuto, ho scoperto tante cose nuove; penso che sia un buono sparti acque per il futuro.
Ho avuto un po’ la sensazione che in questo disco per la prima volta tu ti sia lasciato andare, hai fatto un certo “salto” di maturità. Cos’è che ti frenava, in passato?
Diciamo che è un album che ha battuto, in modo anche se vuoi improvviso e inaspettato, un po’ di paure che avevo. Nel senso che è facile nella musica italiana aggrapparsi a quelli che sono gli stereotipi o pilastri, cioè i grandi cantautori del passato con un certo tipo di serietà nell’arrangiamento. In qualche modo è come vestirsi in modo classico, non sbagli. Però un po’ di eccentricità, un po’ di apertura mentale verso quello che fanno all’estero gli artisti stranieri, quella ci vuole. Tu pensa quanto può essere dissacrante un artista come Beck di fronte a generi musicali che lui attraversa; prendi il country o il folk che lui sa trasformare, rompere, spaccare, rigirare, poi raccoglie le briciole e le sparge di nuovo... è creativo, ecco. E l’approccio creativo credo che sia un approccio molto contemporaneo. Se tu ascolti un artista come Ed Harcourt ti accorgi che è un pop sentimentale, ma creativo. Questo è un po’ l’approccio che in questo momento secondo me manca in Italia, e mi piacerebbe essere il rappresentate di questo modo di fare le cose. Lì fuori ci sono 15 artisti che fanno lo stesso arrangiamento, con lo stesso stile, nella stessa lingua, e non c’è più differenza.
Parole sante, direi. Uno dei temi che ho recepito subito ascoltando i pezzi è una grande voglia di imparare, di andare avanti veloce; c’è un entusiasmo invidiabile, come quando si parte per il viaggio della vita e si ha voglia di conoscere tutto. Ci sono delle domande fondamentali che ti sei posto nella scrittura di questo disco?
Il disco credo che sia pieno di domande. Inizia con quella più difficile, quella che sembra quasi senza risposta: “chissà se amare è una cosa vera”. Ho sempre scritto canzoni che parlavano delle certezze che avevo sull’amore, o di quanto ne ero alla ricerca, o di quante ne promettevo ad una donna. Adesso invece ho un po’ compreso che queste certezze vacillano (ride, ndr). Credo che l’approccio un po’ più disilluso sia un po’ figlio e sinonimo di questi tempi in cui di certezze non ne abbiamo forse tantissime e vediamo crollare anche le persone più insospettabili: genitori che divorziano, l’amico che sembrava essere la persona più seria della terra che si era sposato a 25 anni e che divorzia anche lui. O anche se guardi soltanto la nostra società, come si comporta con noi. Non ti dà grandi certezze. Per questo credo che questo sia un disco figlio di questi tempi, contemporaneo al mondo ma che non rinuncia all’ottimismo e a cercare il talento in quello che si fa. L’entusiasmo in questo disco è perenne, però sicuramente cerca di porsi più domande piuttosto che dare soluzioni.
Nel singolo infatti canti “per ogni domanda componi un verso”
Sì, era un po’ la regola che mi ero imposto per quella canzone. Stavo ragionando ancora mentre la scrivevo, mi ripetevo in testa quell’indicazione che poi è diventata il testo stesso. È per quello che sono molto innamorato di quel pezzo. Credo che ci sia una discreta aspettativa su quello che faccio, è come se io non potessi mai appoggiarmi all’idea di avere un pubblico che qualsiasi cosa faccia gli vada bene. È come se io rappresentassi più di tutti l’artista italiano che se fa bene prende applausi, se fa male viene mandato a cagare.
Che cosa te lo fa pensare?
È più una sensazione. È una sensazione importante perché credo che questo sia un sinonimo di credibilità. Ci si aspetta qualcosa da me in questo momento, forse perché negli ultimi due o tre album i singoli in qualche modo ambiziosi sono stati tanti: da “Mondo” a “Hello” con Malika, “Le sei e ventisei”... erano canzoni che sono entrate un po’ spingendo nel panorama della musica leggera italiana. Però sono stato premiato da questo approccio, e per questo sento che nei miei confronti non ci sia l’attenzione un po’ piatta del fan che pensa di aver “sposato un progetto”. È il contenuto che conta. Mi son dato un po’ la zappa sui piedi da solo, però è quello che mi piace di più, perché mi sento vero, capisci? Mi sento che questo mestiere lo faccio veramente. Siccome nessuno mi costringe ad uscire con un album se non è bello, o se non lo reputo all’altezza, il problema non esiste. Però credo, in questo momento più di altri, di essere un artista con un pubblico che semplicemente lo rispetta, e quando rispetti una persona, se ti delude… lo senti, ecco.
Credo tu abbia ragione, in fondo.
Per me è così. Non voglio dire che “Logico” sia un capolavoro, però penso che sia all’altezza degli altri brani che avevo scritto in passato. L’ho scritta volendo questo. Se avessi sbagliato, o se comunque non avessi avuto nulla da dire in una canzone, sono convinto che avrei deluso molto le aspettative di chi mi sta seguendo.
Una delle canzoni che mi ha colpito di più è “Fare e Disfare”, nella quale ho ritrovato proprio quella voglia di viaggio di cui parlavamo prima: trovare un posto in cui si fugge, si trova rifugio e si sta in pace. Qual è quel tuo posto?
È il letto. In questo momento, è il letto. Mai come adesso me lo sto godendo, perché quando iniziamo ad avere ritmi di lavoro elevati, quando inziano le preoccupazioni, quando inizio a sentire le parole che mi girano in testa e altre cose strambe e aliene come queste, durante la realizzazione di un disco praticamente non dormo quasi più. Mi va bene perché fisicamente reggo questo sforzo, e poi quando finisce arriva il lavoro creativo e tutto diventa molto più normale, voglio dire... parlare con te è una cosa molto più piacevole che svegliarsi di notte e andare in studio perché ti è venuta un’idea e hai paura di perderla. E allora oggi mi sto godendo molto ma molto il letto. Se non ho niente da fare ci rimango fino a pomeriggio inoltrato, sveglio a guardare la televisione.
Cosa guardi, in tv?
Sky, soprattutto. Quindi Discovery, History, Sky Arte. Principalmente Sky Arte, anche se a volte ci sono cose talmente belle che mi agitano anziché calmarmi, perché le vorrei afferrare. Allora vado sugli animali, sugli oceani, sulle tartarughe.
Anch’io a volte lo faccio, ma lo uso più per addormentarmi
Ah io non riesco ad addormentarmi senza Discovery Channel. “Animali assassini” e io siamo la stessa cosa praticamente.
Che programma è?
È quello che fa la classifica degli animali più pericolosi della terra, e ieri notte alle due c’erano i falchi, poi l’aquila reale, e tanti altri
C’è un animale che, più degli altri, senti più vicino a te?
Assolutamente sì. L’orso è l’animale che più mi somiglia perché la vita dell’orso è molto umana, secondo me. Anzi alcune vicende che accadono alla vita degli orsi sono quasi più istruttive che una chiacchierata con un amico.
Ma in che senso, scusa?
Se tu guardi la vita degli orsi, il modo in cui attraversano le vicende della vita, la nascita, il parto, la protezione dei cuccioli, la protezione della famiglia… (si ride, ndr) Ma non solo, se tu guardi le zebre, o le orche, sono animali intelligenti almeno quanto gli esseri umani, e non vorrei dire di più… Se tu guardi cos’è successo durante la finale di Coppa Italia, e poi guardi un branco di orche, non c’è dubbio che siano più intelligenti le orche, su questo sono proprio sicuro.
Tu vai allo stadio?
Sì, tifo Bologna.
Ecco, parliamo di Bologna. Qual è il piatto più buono della tua Osteria della Tigre?
Cambiano molto spesso, perché c’è una sfoglina di Ferrara che ci fa dei piatti nuovi quasi ogni due settimane, e sono tutti talmente buoni che è difficile dire il migliore. Però ultimamente ho mangiato un tortellone ripieno di stracchino con un ragù fatto in casa che era incredibile, buonissimo.
Segui un po’ la musica della tua città?
Sì, ma in maniera un po’ disattenta, ammetto. Quando un artista o un gruppo fa una cosa bella che riesce ad emergere dalle cantine, a mettere la testa fuori dall’acqua, io ne sono sempre molto entusiasta, mi vado a informare e se posso cerco di spingerli, anche se non li conosco personalmente.
Hai ascoltato qualcosa di bello ultimamente a Bologna?
Molte cose belle, ma poche che possono restare.
Se ti immaginassi come cicerone della tua città, qual è la prima cosa che mostreresti a una persona che non c’è mai stata?
Penso i colli, sebbene siano esterni alle mura della città, però andare sui colli… cioè un giro con me sui colli secondo me è un buon inizio (ride, ndr). I colli bolognesi sono mitologici, e quindi è giusto rispettare il mito. Finché non ci vai non posso sputtanarli così.
A proposito di miti. In “Quando sarò milionario” parli di tuo padre, e di come sia assetato di conoscenza.
In realtà sono io che sono assetato della sua. Il pezzo in realtà è una disperata richiesta, ma con toni un po’ fiabeschi. Non ha come “Se c’era una volta l’amore ho dovuto ammazzarlo” un territorio geografico molto reale in cui ho scritto e raccontato una storia; al contrario è un po’ surreale ed è una disperata richiesta di ricchezza, una ricchezza interiore che probabilmente per me è irrangiungibile in maniera solitaria, un po’ più semplice se solo qualcuno mi spiega dov’è questo tesoro. Mio padre penso sia uno di quelli che possiede la mappa.
Cos’è che sul serio ti piacerebbe conoscere? Qual è il campo dello scibile umano che credi ti sia totalmente inesplorato e vorresti un giorno padroneggiare?
Bella domanda. Be’, adesso stiamo parlando in particolar modo di mio padre, perché poi ognuno ha il suo segreto. A me piacerebbe conoscerli tutti, sono sulla buona strada ma credo sia molto difficile. Probabilmente dell’esperienza di vita di mio padre, che è del ‘24 e quindi ha attraversato un secolo di storia, penso il segreto sia nell’equilibrio. Una cosa che io non ho mai avuto del tutto.
Intendi a livello caratteriale?
Equilibrio per me vuol dire non avere demoni che lottano e combattono. La felicità credo che sia un po’ questo: è l’equilibrio, la tranquillità di poter fare scelte, soffrire, sbagliare, ma sempre lungo una linea dritta. La mia unica linea dritta è la musica, ed è lei infatti che riesce a tenermi in piedi in maniera molto buona. Sono orgoglioso di quello che sono, però è grazie alla musica che riesco ad essere così dritto, ecco. Perché dentro di me invece combattono demoni decisamente diversi. E la cosa un po’ pericolosa è che non è che se ne metti uno a bada lui si calma, al contrario si incazza ancora di più, quando esce è ancora più violento. Questa quindi è una cosa che invidio a uno come mio padre, che invece è una persona equilibrata.
Credi dipenda dal momento storico in cui lui è cresciuto?
È una questione di avere una grande testa. Mio padre è uno che non accontenta mai gli altri, io ho una parte di me invece che vuole accontentare gli altri, e questo mi fa sbagliare molto.
Tuo padre è un medico, giusto? Anche mio padre, per questo suppongo che gli episodi della tua infanzia siano stati puntellati da gadget di case farmaceutiche. Mi sbaglio?
Non ti sbagli, e ci aggiungo anche regali, cesti di cibi e di fiori. Tutte le mie prime canzoni le ho scritte con biro regalate da case farmaceutiche, dalla prima fino all’ultima.
A proposito di biro: hai detto che questo disco si incastra alla perfezione con quelli passati e assomiglia un po’ a un cruciverba: sei più bravo a dare definizioni o a fare domande?
Sono negato per i cruciverba, completamente negato. Sono molto curioso, quindi di domande ne faccio a bizzeffe, e sono molto capace con le parole, quindi alla fine qualsiasi domanda tu mi faccia io avrò sempre una risposta. Il problema è che non so mai se è quella giusta. Però sono capace di darle.
Fai il musicista da quando avevi 15 anni. Hai scritto molti album, hai avuto tanti riconoscimenti…
Sì, infatti è ora di andare in vacanza
Dove vorresti andare?
In Vietnam. Ieri sera ho mangiato vietnamita e mi è venuta molta voglia. Comunque non mi interessa dove, mi interessa per quanto tempo.
Però ora sei qui, sei arrivato in un punto molto importante della tua carriera. Senti di aver imparato qualcosa, almeno dal punto di vista professionale?
Qualcosa sì, ma non il segreto dello scrivere canzoni. Penso che quello rimanga un mistero a me sconosciuto, nonostante io ne stia scrivendo tante. Ed è il bello e il brutto di questo mestiere: non capisci bene come si fa, lo fai solo quando ti butti giù dal burrone o dal precipizio. Penso di aver capito quasi tutto tranne questo, e penso che sarà molto dura scoprire la formula magica per far comparire le canzoni. L’importante è provarci, sempre.
La vodka di cui canti, la Grey Goose, come ti piace berla?
Ghiaccio e lime, senza tonica. Liscia.
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L'articolo Cesare Cremonini - 15 anni in classifica di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2014-05-12 12:25:27
COMMENTI (2)
Bella intervista, bei propositi! :-)
Hai parlato di equilibrio eccone il mio punto di vista:m.youtube.com/watch?v=3K6Pk…
ECCO CREMONINI VATTENE IN VIETNAM UN PAESE DALLA BUONA CUCINA E NON SOLO........asianews.it/notizie-it/Il-V…,-perch%C3%A9-cristiani-6395.html