A due giorni dalla primavera Berlino è ancora in pieno inverno, nevica un giorno sì e l'altro pure. In casa sentono roba inascoltabile ad un volume che a malapena si riescono a capire le risposte. Intervistati Riccardo Biondetti e Claudio Rocchetti, mancano all'appello Alessandro De Zan e Stefano Pilia: il primo rimasto in Friuli a fare l'archivista, l'altro preso tra il prossimo disco dei Massimo Volume e la world music. Ci parlano del nuovo album degli In Zaire, che è una bomba; di Italia contro il resto del mondo, degli A-Team, di metal, droghe, pianeti e, ovviamente, di rock'n'roll.
Quindi siete parti da Johnny Wakelin?
Riccardo: Si, c'è quel pezzo che si chiama “In Zaire”, che puoi fu remixato in versione afro da due dj italiani, i Round One. Il gruppo nasce dall'unione tra i G.I. Joe, cioè io e Ale, e Claudio Rocchetti: l'idea iniziale era fare un progetto tribale, africaneggiante, e volevamo un nome che riportasse ad un certo esotismo ma anche alla falsità di tutto questo, l'afro ma fatta in Italia, un nome di uno stato dell'Africa ma che in realtà non esiste, era il nome con cui veniva chiamato il Congo negli anni '70. Cose di questo tipo, insomma.
Parliamo del disco e del suo aspetto cosmico. Dedicare ogni canzone ad un pianeta è tutto sommato un cliché della psichedelia; quest'anno “Space Is The Place” di Sun Ra compie 30 anni, per dire. E' una cosa in cui credete davvero oppure è più un pretesto per ricalcare quel tipo di immaginario?
Claudio: E' venuta da Ste (Stefano Pilia, il quarto In Zaire, NdR) da qualche anno si è interessato a questo tipo di immaginario, ma obbiettivamente non sono cose così fondamentali per il progetto. Credo che In Zaire sia più una pratica rispetto ad un gruppo di persone che si siedono a tavolino e decidono di fare musica psichedelica. Questa e molte altre idee sono uscite spontaneamente, così come quando suoniamo, improvvisiamo senza darci molte direttive.
Quindi è tutta improvvisazione, prima di entrare in studio non avevate scritto niente?
R: Siamo andati in studio senza aver nulla da parte, avevamo fatto dei tour e si era creato un certo suono. Questa volta, inoltre, ci siamo imposti di mantenere in mente una struttura di forma-canzone, infatti i pezzi prima duravano l'intero lato del vinile mentre ora sono più corti. E ora le canzoni registrate hanno preso il sopravvento sui live, ogni volta le risuoniamo come su disco, ovviamente cercando di aggiungere sempre qualcosa di nuovo, scomponendo la struttura o arricchendola.
Chi sono questi in sottofondo?
R: Non lo so, i Liturgy? Non saprei...
Mettete negli In Zaire cose che non potreste fare da soli, o semplicemente gli In Zaire sono la somma di quattro persone che suonano insieme e ognuno porta la sua attitudine?
C: Sicuramente è il mio progetto rock, è la mia prima vera band rock. Pur essendo musica improvvisata, che è un terreno che conosco abbastanza bene, per me è un punto di vista completamente nuovo.
R: All'inizio i G.I. Joe erano pura matematica, tutto quanto era provato e riprovato. Ad un certo punto avevamo raggiunto il limite, infatti per l'ultimo disco, “Tropico”, alcune cose erano nate in studio improvvisando. Quando avevamo iniziato a suonare ascoltavamo certa musica, i June Of 44, ecc. ecc., ma abbiamo sempre sentito il bisogno di mantenere questa intensità senza dover ricorrere a tutta questa matematica. Pian piano ci siamo arrivati, ed è un percorso naturale da cui non torni indietro, vai a unire il noise al rock'n'roll, e giungi ai Black Sabbath (sorride, NdA).
Quindi tu sei quello più rock'n'roll, gli altri?
R: Siamo personalità molto diverse e ognuno porta del proprio nella musica. Claudio è l'anima metal del gruppo, anche se non si sente troppo nel disco è proprio quello che dà la tensione, la massa di volume sonoro che può creare è notevole. Io e Stefano siamo molto rock'n'roll, anche se Stefano ha una sensibilità più raffinata, in furgone può metterti il disco garage come la musica classica. Ale invece è quello più nero di tutti...
Quindi lui è P. E. Baracus, chi sono gli altri?
R: (Ride, NdA) Io ascolto molta dance e funk, vorrei esserlo io P. E., ma in realtà è Ale. Diciamo che io sono Sberla perchè chiavo più di tutti... A parte questo, la musica nera, in particolar modo la dance, è un punto fondamentale per noi. Parte tutto dalla dance, è una dinamica che vogliamo sempre nei concerti. E poi i Motorhead e le droghe eccitanti. La droga è molto importante per gli In Zaire, possiamo considerarci grandi sostenitori.
Mi devo preocupare?
R: No figurati, nessuno è mai svenuto sul palco se è questo che intendi.
Allargando il discorso alle vostre molteplici esperienze, secondo voi potrà mai capitare che si crei un grosso hype attorno al noise o all'ambient? Tipo che gli Wolf Eyes o i Black Dice inizino a riempire i palazzetti?
C: In realtà gli Wolf Eyes sono già un gruppo che fa molto pubblico, non mainstream nel senso vero del termine, ma possono essere paragonati ad un gruppo indie medio. Io li ho visti alla Volksbuehne, che è un posto grosso, da 500 persone, oltretutto assieme ai Black Dice, ed era sold out. L'ambient è già mainstream nelle sue versioni più pulite e storicizzate, vedi il solito Brian Eno. Il noise teoricamente non dovrebbe mai arrivarci perché per il noise è una cosa programmatica essere disturbante: nel momento in cui diventi, non dico commerciale ma quantomeno riconosciuto e assimilato, sarebbe ora di cambiare...
... per vari motivi, non ultimo quello performativo, si può trovare un parallelo tra questa musica e l'arte contemporanea. Un volta chiacchieravo con Giacomo Spazio e mi fa: arriva un punto in cui la gente crede che tu valga dei soldi e te li dà, tu li prendi ma devi essere lungimirante, devi metterli da parte perchè sai che questo periodo non è eterno, è ciclico. Secondo te funziona così anche per l'avanguardia musicale?
C: E' un discorso che vale per tutti, nell'arte è una cosa conclamata e assume dimensioni considerevoli, ma accade anche nella musica e accade in tutti generi. Lo puoi chiamare trend, moda, hype. Anche per la musica sperimentale ci sono dei momenti migliori di altri: ad esempio, a me è capitato di andare in Svezia, ed è sempre andata bene, particolarmente bene. Ad un certo punto mi è sembrato che quel momento si fosse chiuso, per cui è un anno che non ci torno. Anche in Italia l'ultimo tour è andato molto bene. Quindi mi vien da dire: si, il ferro va battuto fin che è caldo...
R: ...oltre al fatto che si può lavorare per creare questi momenti.
Secondo te l'hype si monta davvero a tavolino?
R: Assolutamente, ovviamente il livello di qualità deve essere alto. Ad esempio, adesso sto seguendo un gruppo qui di Berlino, i Kadavar, fanno un hard rock sabbattiano. In un solo anno, lavorando seriamente, suonando tanto, ponendosi in un certo modo, presentandosi con carattere, sono diventati grossissimi: hanno firmato per la Nuclear Blast, suoneranno ad un festival con gli Slayer. Ci vuole professionalità per farlo, ma lo sai meglio di me, con Rockit. Ci sono degli artisti che vi piacciono più di altri e il vostro parere può influenzare altre webzine. Prendi come ha lavorato Modern Love, l'etichetta di Andy Stott, l'ultimo “Luxury Problems” è stato prima scoperto da The Wire, poi pian piano la voce si è allargata, ha fatto dei festival importanti e, a distanza di un anno, tutti ne parlavano. Il lavoro di un'etichetta è proprio quello di creare connessioni.
C'è mercato per la vostra musica? Mi riferisco sia agli In Zaire ma anche ai dischi della tua etichetta, Sound Of Cobra, o ai dischi solisti di Claudio Rocchetti.
R: C'è mercato, 500 copie vanno sold out velocemente e senza problemi. Finora tutto il catalogo è andato, non ci sono rimanenze. Devi lavorarci, e devi suonare tanto dal vivo, sopratutto più all'estero che in Italia.
C: In Italia, mi vien da dire, non va male. Nell'ultimo tour ero in giro con il libro sulle cassette, credevo che fosse una cosa un po' troppo particolare invece ne ho venduti parecchi.
Quanto sono importanti, a livello economico intendo, gli In Zaire? Diventarà il vostro progetto principale, bloccherete tutto il resto e vi dedicherete solo alla promozione di questo disco?
R: Purtroppo no. Siamo tutti molto impegnati. Ale ha un lavoro fisso, fa l'archivista in Italia, io sono impegnato con l'etichetta e la mia agenzia di management, Stefano sta lavorando al disco dei Massimo Volume e poi tra poco parte per quattro mesi di tour mondiale con questa cantante world music, Rokia; io non sono un grande conosciutore della sua musica ma è davvero una star, il tour precedente aveva ospiti come Paul McCartney, John Paul Jones, Damon Albarn.
Finora quanti in quanti paesi europei avete suonato?
R: Abbiamo fatto quattro tour molto grossi, praticamente abbiamo girato tutta l'Europa.
E normalmente suonate in locali o prediligete gli squat?
R: Cerchiamo di evitare gli squat, ci abbiamo suonato tante volte ma in alcuni casi siamo rimasti un po' scottati. Sono realtà interessanti ma a livello di pensiero, sia politico che culturale, sono troppo rigidi. Ci sono degli stardard oltre i quali è difficile andare, non parlo di soldi, intendo la mancanza di una serie di attenzioni che ti fa capire come a loro non interessi tener conto della particolarità e delle differenze che possono esserci tra un artista e l'altro.
In Italia si suona bene? Bruno Dorella in un'intervista fatta tempo fa mi aveva raccontato che ha lasciato Berlino ed è ritornato da noi anche per quello.
R: Penso che sia uno dei posti peggiori in Europa, assolutamente. E io l'Europa la giro tanto, sei-sette mesi all'anno sono in tour con i gruppi della mia agenzia. Tra gli organizzatori, chi fa booking, ecc ecc, manca quella professionalità che altrove incontri tranquillamente.
C: Secondo me dipende molto dai generi. Per il rock, in Italia, ci sono i club più grandi e quelli super underground. Manca la via di mezzo: se non sei commerciale, o non sei esploso perchè è il tuo momento, ti ritrovi a suonare sempre nelle stesse situazioni, alla lunga diventa faticoso. Idem per il fattore economico: c'è il “ti faccio un favore, suonate gratis e aprite il concerto di qualcuno” o il "vi carico di soldi”, avere un compenso decente, medio, è difficile. Per la musica sperimentale, noise, o anche solo bizzarra, c'è un'attenzione particolare. Vedo parecchi musicisti sperimentatori che non mi sembra facciano troppa fatica a farsi pubblicare dei dischi, ad esempio. E ci sono parecchi posti, perché, più che tutto, l'Italia funziona anche in provincia: se tu vai in giro per l'Europa con un progetto tipo il mio, in qualsiasi stato puoi far le città principali ma è difficile che tu riesca ad arrivare in quelle piccoline. In Italia, invece, ci sono moltissime situazioni ovunque: l'ultimo tour che ho fatto, su tredici concerti una buona metà erano in paesini, piccole cittadine, e sono tutti andate bene.
Berlino quanto aiuta a fare il mestiere del musicista?
R: Berlino ha un'energia strana, devi saperla coltivare. All'inizio arrivi e sei stordito da quanto puoi fare, c'è il rischio che tu finisca col viverla come un'enorme pensionato, tanto puoi andare avanti facendo a malapena qualcosa, vivacchi, e alla fine ti siedi. Un sacco di gente arriva con delle idee e poi finisce che non conclude nulla. Poi il livello di integrazione non è semplicissimo, da italiano non è facile assimilare la cultura tedesca. Ma se vuoi lavorare con la musica è il miglior posto in assoluto: è molto attiva, è molto facile creare delle connessioni, e c'è quella professionalità di cui ti parlavo prima, qui uno uno non fa il promoter per hobby, è davvero il suo lavoro. Poi ci sono tanti concerti e c'è pubblico, c'è (sottolinea la parola, NdA) tanto pubblico, è veramente difficile andare ad un concerto e non trovare gente.
C: Magari ultimamente alcuni generi sono un pochino scomparsi dal calendario, fino ad un paio di anni fa c'era un concerto di improvvisazione radicale tutti i giorni, adesso l'appuntamento è settimanale o bisettimanale. Ma è ancora tremendamente attiva, ieri sera sono stato al Berghain a vedere un concerto di Marcelo Aguirre, chitarrista metal, e Thomas Ankersmit, improvvisatore olandese, in un contesto come quello del Berghain, con quest'impianto incredibile... Era martedì e c'erano duecento persone.
Non vi manca l'Italia?
R: Ora come ora no. Ovvio, mi manca il cibo, mi mancano le ragazze, la mamma e il papà, ma non vorrei tornarci. Claudio ci tornerà...
C: ... non me ne sto andando perché ho dei problemi con la città, figuriamoci, semplicemente sono qui da tanto tempo, sono quasi nove anni, mi sembra che si sia chiuso un ciclo. Più che scendere in Italia, vado a vivere a Venezia, che è un progetto di vita diverso. Se Venezia fosse in Sud America ti direi che vado in Sud America. Come è stato quando sono venuto qui a Berlino, non ho detto “Vado in Germania” volevo esattamente venire qui, a Friedrichshain, che è il quartiere che ho scelto fin da subito. E' un buon bilanciamento tra questioni alternative, concerti, negozi di dischi, ristoranti, e tranquillità. E lavorando in casa, ho bisogno di tranquillità.
Ritorniamo a parlare di rumore. Voi avete mai studiato musica in senso accademico?
C: No, ho fatto un po' di corsi al Dams ma erano di storia della musica, non di pratica musicale. Niente a che a fare con conservatori o cose simili.
R: La mia è una ricerca empirica, ascolti più musica possibile e vedi tantissimi concerti. Più che un metodo penso di aver sviluppato un linguaggio, prendi determinate influenze e provi a manipolarle, a trasformarle.
Claudio, riusciresti a sintetizzare una definizione della tua ricerca sonora?
C: No, mi è molto difficile. Di solito del mio lavoro si parla di più del suono, in realtà lavoro molto più sulla memoria, sul concetto di stratificazione. Solitamente parto da una cosa che non è musicale, un field recording, un'oggetto trovato, uno strumento che non so suonare, e cerco di creare un'ambiente attorno a questo primo impulso. Continuo a sommare le varie registrazioni, magari alcune non c'entrano nulla con le altre, ma io provo a vedere che cosa succede, magari saltano fuori delle idee o addirittura funzionano.
Per certi versi il noise è come l'hip hop, basta poco per farlo. In teoria è sufficiente un pedale e tu puoi generare rumore. Essendo rumore, però, diventa difficile distinguere quello bello da quello brutto. Voi avete un'idea chiara della musica che vi piace e di quella che non vi piace?
C: Capisco bene l'esempio che fai, ti controproporrei l'hardcore, che è una musica che conosco meglio. Nell'hardcore io bado di più all'attitudine rispetto al risultato sonico effettivo. Poi, ovviamente, ci sono band che si distinguono rispetto ad altre, ad esempio, per potenza sonora o perchè hanno un suono molto particolare, ma in linea di massima io apprezzo l'attitudine. E lo stesso vale per il noise, ti assicuro che tu puoi avere un mixer in feedback gestito da una persona, o da un altra, e ti troverai davanti a due mondi completamente diversi, eppure entrambi stanno suonando il nulla.
R: Per me non è una musica facile, anzi. Non è così istintivo come il punk, lì devi saper scrivere le canzoni e devi saperle suonare, qui devi lavorare molto sul suono. E poi c'è tutto l'aspetto emozionale della cosa, è un tipo di sensibilità, è una cosa più spirituale, diciamo.
Vi piacciono le performance più teatrali, quasi vicine all'installazione, o chi si limita a smanettare con i pedali sul proprio tavolo?
R: Odio l'arte contemporanea, non la capisco. Certe performance, però, possono essere interessanti: Lucas Abela, Prurient, sono cose che ti colpiscono al di là della musica, sono esperienze fisiche.
C: Non ho nulla contro chi fa dei live con solo un computer, tendenzialmente preferisco chi si sporca la mani, chi ha una parte performativa con oggetti veri. Certo non mi piace nemmeno il circo. Diciamo che apprezzo più il mistero della cosa, la tensione e, come ti dicevo prima, l'attitudine di tutta l'operazione. Solitamente non vado matto per le perfomance molto teatrali ma in fin dei conti è un equilibrio, magari sulla carta ti sembra una cosa eccessiva, super teatrale, poi assisti al live e dici “Wow”.
Ultima domanda. Ci sono delle "idee" che vi hanno letteralmente segnato? Ad esempio, quando avevo diciott'anni ho scoperto Glenn Branca e sono rimasto fulminato dall'idea che si potesse fare una musica così ripetitiva, pezzi da mezzora fatti di una sola nota, ecc ecc. Per anni ho ricercato molta musica simile a quella. A voi è mai successo qualcosa del genere?
C: In una maniera molto più bassa, l'idea che ci fosse qualcosa dietro alla musica me l'hanno data i gruppi rock che ascoltavo quando avevo dodici anni, gli Iron Maiden ad esempio. Lì ho capito che poteva esistere qualcosa che andasse oltre il semplice intrattenimento, qualcosa che avesse che fare più con la vita, diciamo. A parte tutto il baraccone, era gente che creava immaginari, mondi interi. E in più, nonostante il successo, vedevo una specie di attitudine, sopratutto nel bassista, Steve Harris, che è ancora oggi uno dei miei eroi personali. Diciamo che lì ho intravisto delle idee, se invece vogliamo parlare di quello che mi ha proprio fatto scattare la cosa, ti dico i P16D4. Sono un collettivo tedesco di fine anni 70 che usavano delle cassette analogiche per creare queste canzoni sbilenche, senza senso. Lì è scattato il famoso “lo posso fare anche io”.
R: Io sono sempre stato legato al rock, ci sono delle cose che mi hanno letteralmente cambiato la vita, i Lightning Bolt, ad esempio, c'è un'idea di suono e di ripetitività che mi ha segnato completamente. O quando, da ragazzino, mio fratello mi ha portato a un concerto dei Chrome Cranks ed è stata la cosa più estrema mai vista. Essere così spontanei e al tempo stesso così rumorosi e cazzuti. Fantastico.
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L'articolo Welcome to the jungle di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2013-03-25 00:00:00
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