Coez è uno di quegli artisti che ne ha passate tante: nella sua vita, ma anche e soprattutto nella sua carriera ormai ultradecennale. Il nuovo "Faccio un casino" (uscito lo scorso 5 maggio per Undamento) è un punto d'arrivo niente male: Coez ha ormai trovato il punto d'equilibrio perfetto tra il suo passato rap e il suo presente pop, e la cosa migliore è che suona tutto davvero bene. Per questo siamo felici di averlo ospite al nostro MI AMI Festival, il prossimo venerdì 26 maggio (qui le prevendite del concerto). Intanto, però, ci abbiamo fatto quattro chiacchiere.
Se dovessi spiegare in poche parole cosa c’è dentro il nuovo disco, cosa diresti?
Non potrei parlarne a livello troppo emotivo però è un disco che sicuramente racchiude tutto il mio percorso, dagli inizi fino ad adesso. Infatti non è un caso che l’intro di questo album sia identico a quello di un vecchio mixtape, che si chiamava “Fenomeno”. Le metriche e le rime sono le stesse, ma il testo è diverso.
E sul titolo che mi dici?
Il mixtape iniziava con questa frase: “Ho un piccolo disturbo bipolare, da piccolo ho distrutto un bilocale” e nella copertina di questo album c’è una foto di me da ragazzino che mi divincolo da mia madre che mi tiene. “Amami o faccio un casino” è una frase che mi racchiude tanto come persona. Sono un passionale e sono anche uno che in varie fasi della vita quando si è sentito non amato ha fatto un casino, in senso positivo. Se venivo mollato, facevo una canzone e poi suonavo tutto l’anno. “Faccio un casino” quindi non è da intendersi in senso negativo o violento, anzi alla fine del video ci sono io che mi pettino con un finto coltello. È un po’ una metafora: qualsiasi esperienza mi riservi la vita, non mi faccio del male, mi pettino e salgo sul palco. Per me è così, potete farmi tutti i torti che vi pare tanto alla fine io faccio un casino, prenderò la forza anche dalle brutte storie.
È un messaggio davvero bello.
Infatti secondo me questo disco è molto positivo. Un altro dei miei pezzi preferiti è “La musica non c’è”, canzone scritta in un giorno con Niccolò Contessa de I Cani. Dovevamo andare in studio io, lui e Sine. Era il mio compleanno, l’undici luglio. Poi Sine si è sentito poco bene e allora io e Niccolò ci siamo messi a scrivere. In poco più di cinque ore la canzone era finita e pronta per il mix, incredibile. Buon compleanno Silvano!
Ha mantenuto la sua freschezza, insomma.
Esatto. E poi era un sacco che volevo lavorare con Niccolò, gli rompo i coglioni da anni (ride). Quando scrissi “Ali sporche” lo mandai a tre/quattro persone, uno dei primi è stato lui.
In cosa ti ha influenzato?
Nic per me è stato uno stimolo nuovo. I testi sono tutti miei, le storie sono le mie, però devo ammettere che i pezzi più belli sono partiti da lui... Mi ha da subito ispirato come persona, infonde una buona vibrazione, è quello che definirebbero un “artistoide”, ma sapevo che ci sarei andato d'accordo. Insomma, poche ore dopo il nostro primo incontro mi suona al piano gli accordi di "Faccio un casino" e la cosa mi è piaciuta da subito. Era qualcosa che non avevo mai fatto: di solito sono abituato a scrivere le parole su basi già complete, oppure a lavorare per ore in studio su dei miei memo vocali, invece quella volta lì è stato diverso, una vibrazione nuova. A livello artistico Niccolò è stato solo una presa bene, è molto creativo. Con Sinigallia invece c’è stato più scontro. In un'intervista lui disse di me: "Coez è uno con le spalle larghe, viene in studio, non sa suonare nessuno strumento, ma sa esattamente che pezzo vuole". Io in quella frase ci ho visto tutte le discussioni che abbiamo fatto, ci siamo letteralmente scornati su certi pezzi (ride). Questo disco invece è nato in maniera più rilassata e naturale. Penso che il vero sbattimento verrà dopo, visto che usciamo da soli, da indipendenti. Se sbaglieremo una cosa sarà colpa nostra, visto che siamo in quattro. E quando qualcosa non va per il verso giusto io mi incazzo come una bestia, divento proprio brutto da vedere. Per quelli che lavorano con me è un po' greve (ride).
Si sente.
“Niente che non va” è un disco che ho portato avanti in maniera molto cerebrale. Ho cercato di trattare temi sociali, tipo “La rabbia dei secondi”, “Costole rotte”… è comunque roba che non mi riguarda troppo da vicino, però in quel momento sentivo che volevo staccarmi da temi molto intimi. Sono stato attento a tutti gli aspetti tecnici, a come fare delle metriche più complesse, meno ABAB, a fare una cosa che si avvicinasse più alla forma canzone e che si staccasse dal rap. In più ho pensato molto ai live, cercando di inserire pezzi uptempo… Insomma, su quel disco lì ci ho ragionato veramente tanto e ti dico che alla fine, dopo qualche mese, mi è mancato il fare le cose un po’ più di pancia, che è quello che mi contraddistingue. Non ho sbagliato, anche in quel caso ho dato il massimo. “Non erano fiori” è un disco che sulle prime non è stato capito, e solo dopo un anno la gente ha cominciato a riscoprirlo. A quel punto quando sono entrato in studio volevo fare le cose diversamente, e un po’ sentivo il peso di dover confermare chi ero artisticamente.
Non dev’essere semplice portare il peso delle proprie stesse canzoni.
C’è un momento in cui devi un po’ distruggerle per separartene. Perché se fai un disco bellissimo e la gente impazzisce, noi puoi dire di averlo fatto apposta. Recentemente ho visto un documentario su Nas: il suo “Illmatic” ancora adesso è considerato il disco che ha cambiato la storia del rap, e lui in una scena diceva di sapere di star scrivendo un disco leggendario. Guardandolo pensavo che no, non è possibile, quella roba ti esce e basta. Perché se tu hai il potere di fare qualcosa di leggendario a comando, allora lo faresti sempre.
Prima mi raccontato di come hai chiamato Niccolò Contessa de I Cani a collaborare, ma non pensavo ti potesse piacere quel tipo di musica...
Mi piacevano le cose de I Cani, mi piacevano i suoni dei synth, in fondo anche “Ali sporche” l’ho scritta su una base dei Ratatat. Ci ho scritto molti pezzi sulla roba dei Ratatat (ride). Alla fine, ho smesso di fare rap proprio perché non mi sentivo più rap. Mi aveva stancato. Qualcosa di ibrido mi piaceva ancora, come ad esempio Kid Cudi. Avevo intorno Sine e Stabber che mi facevano sentire cose nuove. “Fenomeno Mixtape” ad esempio era tutto basato sull’elettronica, sulla dubstep. Era lo stesso periodo in cui anche Salmo stava iniziando a farlo, però io rappavo su roba tipo Boregore, che era già una nicchia nella dupstep. Mi ricordo che rappavo su Lunice e Hudson Mohawke che dopo un anno fecero il primo progetto insieme, “TNGHT”, che è stato quello che ha creato la trap. Quindi io mi sono inventato la trap praticamente! (ride). No, diciamo che stavo nel passo prima della trap, prima che tutti si mettessero a farla. Suonavano elettronica ma era tutta gente che veniva anche dal rap, e io mi ci sono trovato da paura. Nella trap vera e propria invece poi non c’ho più visto niente, stavo già passando a fare un’altra cosa. Anche con Sine è andata così, lui iniziava a fare l’elettronica e io la canzone, ci siamo beccati nel mezzo ed è uscito “E invece no”, che comunque è quasi dubstep, con le strofe a 70 bpm. Alla gente è “arrivata” tanto la canzone, un po’ meno il sound, che in quel momento là era figo. Purtroppo in Italia la gente non sa da dove viene un certo suono, non riesce a capire i riferimenti, non sa da cosa stai pescando.
Secondo me è anche perché chi ascolta rap in Italia è (era?) molto tradizionalista, poco aperto alle influenze di altri generi, non vuole allontanarsi dalla regola. Nei commenti alla tua intervista su Banana Burger un fan ti scriveva “Ah zì sei passato da Lucci ai Cani!”, e ovviamente non era un complimento.
Hai visto cosa gli ho risposto? “Non me dovete cagà il cazzo!” (ride).
Nel video di “Faccio un casino” arredi e sistemi da zero un appartamento. È veramente la tua casa?
Ho scritto questa canzone poco prima di trasferirmi, e il pezzo parla proprio di quel periodo là, di quando stavo chiudendo l’accordo per la casa. E quindi sì: la casa è la mia, ho passato ore a montare mobili e sistemare cose nell’appartamento mentre venivo ripreso. Il video l’ho girato io con una GoPro, mentre gli altri li ho fatti con Younuts: uno girato con gli iPhone e un altro con una telecamera con cui facevamo i Brokenspeakers ontheroad dieci anni fa. Tutto è low-budget. Non c’è niente di artefatto nel disco: anche la copertina è una foto vecchia di me da bambino con mia madre che mi tiene mentre mi divincolo, con su scritto “faccio un casino”.
Com’è cambiato il tuo approccio alla composizione, dall’inizio della tua carriera ad oggi?
“Non erano fiori” è un disco che, in qualche modo, non ho faticato a scrivere. Stavo là, sentivo due o tre note e cominciavo a scrivere testi. Forse avevo difficoltà solo quando mi ritrovavo a scrivere una canzone d’amore. Ad esempio “E yo mamma” e “Le luci della città” le ho scritte in quel periodo là, ma non le ho inserite nella versione definitiva. E anche per “Niente che non va” mi dicevo che non potevo inserire pezzi troppo lenti. Però sono tutte cazzate. Se hai pezzi lenti che sono comunque una bomba, non ha senso autocensurarsi. E per questo quelle canzoni hanno visto la luce solo ora. Poi resta il fatto che ai concerti i lenti sono quelli che il pubblico canta più di tutti gli altri. Insomma, io non ho mai detto di essere uno che ha capito tutto, sicuramente ho sbagliato e sbaglierò un sacco di cose, sicuramente ogni disco avrà una cosa ma gliene mancherà un’altra, come in tutti i dischi.
Parlando di cose da capire, errori, sbagli… raccontami una cosa che se non avessi fatto il musicista non avresti fatto.
Non lo posso dire perché quando fai il musicista dopo dieci anni sei un musicista. Non lo puoi sapere... Magari, avendo 33 anni, mi sarebbe piaciuto avere una brava ragazza, un figlio, un bel lavoro.
In effetti arrivati ai 30 si inizia a fare sul serio. Cominci a farti due conti, cosa vuoi fare, chi vuoi vicino, se vuoi una famiglia, cosa hai imparato e cosa no, a quali tuoi difetti ti sei affezionato...
Certo. Ma le persone che fanno il mio lavoro spesso sono un po' squilibrate. Nel senso che non hanno equilibrio. Penso di rientrare un minimo in questa categoria. Uno che fa il lavoro mio i conti con sé stesso non riesce nemmeno a farli. Come se nel lavoro, nella musica, vivesse una specie di vita parallela. Per questo forse tante persone che scrivono dischi sono un po' squilibrate: metti tutta la testa lì dentro e pensi poco alla tua vita reale. Quello che vivi nel contesto artistico non è poi troppo reale: il fatto che tu possa aprire Facebook, dire una cazzata e vedere che centomila persone mettono like è strano, si creano un po' di squilibri. Poi devo dire che ormai la so gestire, anche perché è tanto che ci sto dentro. Non immagino cosa possa passare per la testa di un Calcutta adesso... con il primo disco ha fatto il botto, ci mancava poco andasse a riempire i palazzetti. Io invece non ho visto la mia pagina esplodere dall'oggi al domani, sono dieci anni che scrivo canzoni, ho coltivato e lavorato molto per portare la gente ai miei live, ho faticato tanto e ho visto tutto crescere mattone dopo mattone in maniera organica, lentamente.
Dove speri di arrivare?
Be’, agli stadi! Almeno l'Olimpico (ride). Poi, a parte gli scherzi, non è solo importante il dove per me, ma soprattutto il come. È la cosa che conta di più. Non ci voglio arrivare andando in televisione o facendo una cosa che non è la mia, in un contesto che non è il mio. Il fatto che oggi io stia senza etichetta, il fatto che mi fidi dei tre stronzi che si metterebbero tra me e un proiettile… ha una sua importanza. Stiamo facendo una cosa rara, in Italia al momento non so se c'è un artista in ascesa da solo, così... va bene, ci sono le etichette indipendenti, ma non è la stessa cosa.
Be’, guarda Ghali ad esempio...
Sì lui da indipendente, col suo team, è riuscito a fare grandi cose. Il difficile verrà adesso perché dovrà rispondere a proposte economicamente molto allettanti. Io in qualche modo sto facendo il percorso inverso. I ragazzi di Undamento sono quelli che intratterranno i rapporti con la distribuzione, ma in realtà è come se per questo album l’etichetta non ci fosse... Non c’è una Bomba Dischi o una 42Records (che considero due belle realtà indipendenti) capito? Sono io che mi faccio il disco da solo con il mio team, con tutti i soldi che ho messo di tasca mia. In ogni caso mi sento molto meno solo ora.
Sembri uno che ha passato molte fasi…
Secondo me cercare stabilità in un artista è la cosa più sbagliata da fare. Poi è vero che nel rap ci sono dei personaggi che sono a cavallo tra un discografico e un artista, hanno una mentalità business, e devono sapersi reinventare. Ce ne sono un bel po'. Salmo ad esempio è molto imprenditore, ed è stato uno dei primi a farlo bene, cosa che in America esiste da tempo.
A livello musicale secondo me però Salmo è molto genuino.
Ma è una cosa positiva, significa che potrebbe anche essere un ottimo discografico, che per qualcuno ormai questo termine potrebbe assumere un’accezione negativa. Vuol dire comunque che sei sveglio! Probabilmente questa mossa di tornare indipendente, nell’arco degli anni mi farà guadagnare di più rispetto a prima, anche se la mia non è stata una scelta prettamente economica. Non sarei potuto rimanere ancora in una grande etichetta come Carosello e non per colpa loro, è proprio perché io in questo momento non sono adatto a starci dentro. E comunque ripeto, il miglior posto in cui sarei potuto stare in questi ultimi anni era lì, senza di loro non starei qua. Non ho rancore, insomma, anzi li ringrazio per tutto e continuerò a farlo.
Cambiando argomento: ormai ti sei trasferito a Milano da un po’. Sei uno di quei romani che anche se non abitano più a Roma continuano a frequentare solo altri romani?
A Milano becco un botto il Noyz, è un grande, è il più pulito di tutti. È la persona con meno dietrologie in assoluto di tutti quanti. Sembra il più “sporco” ma in realtà è il più genuino. Anche se da giovincelli abbiamo avuto le nostre scaramucce… La scena romana non era un posto molto carino ai tempi.
E ora come te la vivi questa scena romana?
Ora non c’è più una scena romana.
Ma come! È pieno di artisti, sia nel rap che negli altri generi.
Sì, ma non è più come una volta. Andavamo tutti al Teddy Pub, beccavi Sparo, Noyz, Er Costa, facevamo le serate tutti insieme, il Colle aveva rapporti anche con Brokenspeakers, con il Truce Klan. Era piccola, ma una scena c'era. Adesso no. Forse gli unici che in Italia sono riusciti a crearne una sono quelli della trap. Izi, Rkomi, Ghali e via dicendo... E visto che mi sembrano tutti in procinto di firmare con etichette, bisogna vedere se durerà. Per me a Roma non c'è proprio una scena ora, ci sono cani sciolti, e anche io lo sono ormai… Anche perché, chi dovrei frequentare a Roma? Nel momento in cui arriva Bomba Dischi a mettere sotto contratto Carl Brave & Franco 126, nel momento in cui si mettono in mezzo le etichette, basta, non fai più parte di niente... al massimo fai parte della scena indie.
Dai, nel 2017 possiamo anche non pensare più per compartimenti stagni. Le cose più interessanti uscite negli ultimi tempi, Carl Brave & Franco 126 compresi, mescolano un sacco di generi diversi.
Sì, ma io per scena intendo un sottobosco a sé stante da dove escono degli artisti. Magari ci sono 4-5 gruppi che si conoscono, collaborano, si scazzano, quello che vuoi... però creano un movimento. Nel momento in cui fai parte di un'etichetta già non puoi più farlo. Io a un certo punto infatti ho fatto un cambiamento drastico, ho dovuto tagliare i ponti con tutti, ho spento il telefono, chiuso Facebook e sono entrato in studio con Sinigallia per un anno. Se avessi continuato a frequentare un certo giro non avrei potuto scrivere quel disco.
Anche per il tipo di giudizio che avresti avuto addosso, no?
Sì, certo, il giudizio della tua gente pesa. Quando registravo il disco con Sinigallia sentivo solo lui e tutti i miei amici che non c'entrano nulla col rap. Anche se poi magari i Brokenspeakers sono stati i primi ad apprezzare le robe nuove che facevo.
Comunque, per tornare al discorso della scena, secondo me adesso a Roma non c’è o probabilmente potrei essere io che non la percepisco. Se appena esci con il primo lavoro non fai nemmeno in tempo a fare cinque live che hai già un contratto con un'etichetta, vuol dire che la scena non si crea. Questi artisti appena mettono la testa fuori hanno un contratto! Non che facciano male, ma questa cosa prima non esisteva. Dovevi fare 30 o 40 live per portare 100 persone ad un tuo concerto. Quando arrivavi a 200 persone era una cosa allucinante. Anche i giornali adesso sono attenti a qualsiasi cosa nuova esca. Dieci anni fa non era così, eri veramente sotto al sottobosco. Non lo so perché, forse perché il rap era da sfigati. O forse dovevano crescere quelli che ora lavorano nei siti di musica, nelle etichette, insomma le generazioni più giovani della mia. È fico che oggi i giornali siano così attenti ai 20enni...
È una cosa che abbiamo invidiato per una vita agli altri Paesi...
Allo stesso tempo, per contro, le scene non si creano più come prima. Praticamente non ti danno il tempo di crescere... però alla fine anche 'sticazzi. Se queste etichette, o questi giornalisti riescono ad aiutare un ragazzo a non passare quello che abbiamo dovuto passare in tanti, va bene così.
O una ragazza…
Chiaramente, anche una ragazza, ben venga! Vedi... mancano le ragazze!
In realtà un po’ ce ne sono. Però è interessante chiedersi perché nel rap, e nella musica italiana in generale, non ci siano ragazze che scrivano e producano. Le vedi in prima fila a tutti i concerti, ma poi al contrario dei loro amici non provano a mettersi in gioco in prima persona.
Quando ho iniziato a rappare io le donne ai concerti non ce n'erano. Al massimo c'era una raver col cane che era quasi meglio il cane (ride). A Roma i primi a vantare un discreto numero di ragazze siamo stati noi con i Brokenspeakers. Io ero quello che faceva i ritornelli più melodici, c'erano quelle due o tre rime buttate là sull'amore e le ragazze cominciavano a venire ai concerti... poi quando ho fatto il disco con Sinigallia ho proprio visto un grande cambiamento nel pubblico, e mi ha fatto piacere. Mi ricordo il primo concerto solista a Roma: quando ho iniziato a cantare “Ali Sporche” la gente sapeva le parole, addirittura c’erano ragazze sulle spalle dei ragazzi… ero allucinato. Immagina, io che venivo dal rap e dal "su le mani", al mio live vedevo gli accendini e le donne che cantavano. Bellissimo, ho capito che volevo fare quello.
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L'articolo Coez - Di casini bellissimi e altre storie di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2017-05-08 11:21:00
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