A fine settembre una delegazione di rappers italiani composta da Coez, Lucci, Kento e Prisma è volata nei Territori Occupati per partecipare ad un progetto promosso da Assopace Palestina. Lo scopo era quello di incidere un disco rap con dei ragazzi del posto e portare avanti laboratori di writing e ballo. Abbiamo contattato Coez per chiedergli com'è andata.
Come vi siete ritrovati a partecipare a quest'esperienza? Non è una cosa molto comune, specialmente nell'ambiente del rap italiano.
Siamo stati contattati da Assopace, che è un'associazione umanitaria pro-Palestina, che ci ha chiesto se volevamo essere coinvolti in questo progetto. A me hanno chiamato in veste di rapper e in realtà non volevo andare, perché come sapete io non faccio più rap, e quindi avevo il dubbio di essere un po' fuori posto. In più sono apolitico, almeno per quanto riguarda la musica, mentre gli altri rapper che sono venuti con me hanno sempre affrontato nei loro pezzi temi politici e sociali. Però alla fine c'era anche Lucci, che era con me nei Broken Speakers ed è per me come un fratello, che mi ha convinto ad andare con lui. Con questo non voglio dire che io non sappia più rappare, solo magari pensavo di non essere il più adatto.
Alla fine ho capito che in realtà il mio ruolo poteva essere positivo per i tanti ragazzi palestinesi con cui abbiamo lavorato, che ascoltano un sacco di rap americano e non solo pezzi che trattano di politica o guerra; anche loro si sparano i pezzi hip hop classiconi, e allo stesso tempo ho preso parte ad un paio di canzoni che trattavano il tema della Palestina e del conflitto.
Conoscevate la situazione del posto o vi siete documentati prima di partire?
Bene o male avevamo già tutti posizioni un po' pro-Palestina, poi una volta che vai fisicamente in quei posti ti rendi anche conto che la situazione è molto più complicata di così. Kento, uno dei rapper che è venuto con noi, era già parecchio addentro alla situazione; il suo rap è proprio quello, e già ne scrive nei suoi testi. Lucci ha la bandiera della Palestina in camera da quando è bambino, mentre io ero quello un po' meno informato, anche se ovviamente la mia idea me l'ero fatta.
Come sono stati i giorni prima della partenza?
Siamo atterrati a Tel Aviv. Prima di partire ci sono state un sacco di paranoie perché avevamo comprato il biglietto sei mesi prima, e quest'estate è scoppiato il conflitto a Gaza e per 2-3 giorni hanno anche sospeso i voli nella tratta Roma - Tel Aviv. Eravamo un po' spaventati, chiaramente tutte le famiglie ci consigliavano di non andare, e qualcuno di noi infatti alla fine ha rinunciato (Don Diegoh) ed è stato sostituito (da Prisma, che ha dato un ottimo aiuto a tutto il progetto). Il rap in quelle zone non è che sia una cosa esattamente popolare, quindi anche a livello istituzionale i fondi che pensavamo di avere alla fine non ci sono stati. Diciamo che ci siamo quasi autofinanziati.
Da Tel Aviv poi ci siamo spostati a Ramallah, e per fortuna ai check point non abbiamo avuto problemi per uscire dal territorio israeliano. Siamo rimasti a Ramallah per molti giorni; dormivamo in una palestra dentro delle tende, non avevamo a disposizione acqua calda... insomma è stato un po' massacrante perché la mattina dovevamo spostarci in taxi e non ce n'erano mai abbastanza, noi eravamo tanti, e una volta arrivati in studio cercavamo di rimanere lì il più possibile. Eravamo quattro rapper italiani e circa 16 ragazzi palestinesi.
Tutti maschi?
Sì, è venuta anche una ragazza ma solo per un paio di giorni. La sua famiglia non era molto d'accordo al suo partecipare agli incontri quindi è venuta solo il primo e l'ultimo giorno, quando ci siamo esibiti in un concerto a cui ha partecipato anche lei.
Sono usciti fuori dei bei pezzi alla fine?
Sono usciti fuori 10 pezzi, uno dei quali l'abbiamo fatto in 20, 8 barre a testa.
Ma in che lingua avete registrato, se voi parlate italiano e loro arabo?
Loro arabo e noi in italiano, appunto! Il disco uscirà presto, stiamo lavorando al mixaggio. Non so quanto interesserà il prodotto musicale in sé alla fine, anche se è un disco molto interessante per quest'alternanza di lingue. La cosa importante è stata l'esperienza, sia per loro che per noi. Chiaramente il disco ci deve essere perché quando lavori in studio devi avere un obiettivo, però in questo caso il fine non era esattamente l'album. In ogni caso ogni volta che scrivevamo una strofa cercavamo di spiegare ai ragazzi di cosa parlasse, soprattutto per i pezzi più tematici.
Cosa ti porti dietro da questa esperienza?
Sicuramente l'aver conosciuto i ragazzi del posto. Ti dico la verità, alla partenza eravamo tutti preoccupati e titubanti, e invece alla fine siamo stati tutti stracontenti di aver passato del tempo lì con loro. Chiaramente il bagaglio che ci portiamo tutti dietro è un bagaglio umano, anche perché la situazione lo favoriva: eravamo tutti a dormire in tenda dentro la palestra, abbiamo vissuto insieme a questi ragazzi per una settimana. Ognuno di loro ha delle storie da raccontarti che quasi ti commuovi solo a parlarci, perché comunque hanno vissuto esperienze molto forti. Quando hai davanti un ragazzo di 19 anni che ha un fratello in carcere, al quale hanno sparato su una gamba, che non può andare a trovare... quando ti raccontano queste cose e immagini te stesso a 19 anni, provi a pensare come avresti reagito se fosse successa a te una cosa del genere. La cosa incredibile è che nonostante tutte queste brutte storie li vedi sempre sorridere.
Sai, credo che sia perché sono abituati. Loro, i loro fratelli e sorelle e i loro genitori sono nati e cresciuti in un contesto di guerra, quindi per loro purtroppo è la normalità, te lo dico perché lo vedo con i miei parenti, vanno avanti come se nulla fosse.
Di dove sono i tuoi?
Nablus.
Questo ragazzo di cui ti ho raccontato era proprio di Nablus. Avevamo nel gruppo tre ragazzi giovanissimi scappati da Gaza, tutti e tre ballerini, mentre gli altri erano rapper. Mi hanno raccontato che vivono in questi campi con le case tutte attaccate, e i soldati israeliani che ogni giorno passano, li interrogano, gli chiedono i documenti... Che poi quando li vedi nemmeno lo diresti che hanno queste situazioni alle spalle, perché sono presi bene tutto il giorno.
Comunque la cosa bella è che nonostante tutti i problemi logistici alla fine ci siamo divertiti e i ragazzi sono stati contenti. All'inizio avevamo paura che potesse essere una situazione troppo strana, e che magari loro si aspettassero qualcosa in più da noi. Certo non è stata una roba super professionale, però abbiamo fatto veramente il massimo che potevamo.
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L'articolo Coez - Come si importa il rap in Palestina di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2014-10-08 15:32:00
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