A due anni di distanza da "D'iO", Dargen D'Amico è tornato con un disco in collaborazione con la pianista Isabella Turso: l'ennesima sfida con se stesso affrontata dal rapper meno prevedibile d'Italia, che cerca di mantenere la propria sostanza pur rinnovandosi disco per disco con soluzioni sempre in anticipo sui tempi. Molti rapper più giovani lo riconoscono come ispirazione, e non si può dire che sia un'esagerazione: quando il rap italiano arriva a una soluzione, è molto probabile che sia stata già sperimentata da Dargen qualche anno prima. Abbiamo intervistato lui e Isabella, per capire come questo disco sparigli ancora una volta le carte in tavola.
"Variazioni" contiene sia brani inediti che, appunto, variazioni di tuoi brani tratti da tutta la tua discografia. Come mai hai deciso di rimetterci mano?
Dargen: Sicuramente il fatto che sia un momento in cui non mi dispiace quello che ho fatto in passato e riesca ad ascoltarlo senza insofferenza. Prima tendevo a non pensare a quanto fatto in precedenza e a guardare solo avanti. Invece, in questo momento, mi trovo abbastanza a mio agio con tutto quello che ho fatto, e nell'ultimo anno ho dovuto reimparare i brani di "Musica Senza Musicisti" per rifarli dal vivo per i dieci anni del disco. Riascoltando "Musica Senza Musicisti" ho ritrovato anche altri brani e ce n'erano alcuni che avevo forse un po' bistrattato, altri che proprio non avevo più riascoltato ed erano legati a un determinato periodo. Per esempio “Prendi per mano D'Amico” era un brano che stava su D' parte prima e che avevo totalmente lasciato indietro quando i due ep si sono uniti in un disco. C'era quella parte finale che non mi convinceva e infatti non c'è più. Alcuni brani li avevo un pochino dimenticati.
E come sei arrivato alla selezione che poi è finita sul disco?
D: Quando hai la fortuna di lavorare con dei professionisti, arrivi a vedere quali sono i brani più adatti anche dal punto di vista delle altre persone che ci lavorano. Dal mio punto di vista, volevo riuscire ad avere un percorso coerente nella tracklist, e quindi che tutti i brani, ad un ascoltatore che non li avesse mai ascoltati, sembrassero appartenere allo stesso periodo di composizione. Era la mia priorità, effettivamente l'unica cosa a cui pensavo realizzando questi rifacimenti. Non sono delle cover, non sono dei remix, non mi permetterei mai di dire a una persona che segue il progetto sin dai primi dischi che questi sono dei remix. In alcuni casi sono proprio brani diversi, con lo stesso testo ma con un significato diverso.
Il fatto che tu abbia deciso di cambiare i titoli dei brani, anche se conservano dei riferimenti dei testi delle canzoni, è un modo per comunicare che dobbiamo considerarli come brani del tutto nuovi?
D: Sì, secondo me sono altri brani perché è cambiata la persona che ha percepito il testo e l'ha rimesso in musica, ed è cambiato l'ascoltatore. Se tu hai ascoltato "Musica Senza Musicisti" quando è uscito, appartiene a un tuo momento della vita che io non sono in grado di recuperare neanche rifacendo quello stesso brano. E allo stesso modo, per me non ci sarà mai più quel momento, capisci? Poi l'ho fatto anche per rispetto dei brani del passato e per rispetto delle persone che ci hanno lavorato e che li hanno resi “altri”. Per questo ho sottolineato molto la parola “altra”.
Hai la sensazione che adesso ti comunichino delle cose diverse?
D: Sì, hanno cominciato a comunicare con me nel momento in cui li ho riselezionati. In alcuni ho visto cose che magari facevo finta di non vedere o dettagli che erano più collegati alla vita che conducevo quando ho scritto quei testi. I brani hanno vita propria, ti comunicano un messaggio ma non è un processo immediato neanche per chi scrive. Alle volte mi chiedono quale sia il messaggio di certe canzoni, ma neanche io lo so; mi trovo nello stesso punto di vista di chi lo ascolta.
Ci fai un esempio di un qualche dettaglio che non era saltato fuori quando hai scritto il brano, di cui non ti eri reso conto all'epoca?
D: Tutto il modo in cui scaturiscono le immagini di “Prima fila Mississippi” che adesso s'intitola “La mia testa prima di me”, tutte quelle immagini che erano legate a episodi di vita vissuta, adesso guardarle è come sfogliare un album di ricordi. Per me è stato molto forte.
Lavorare a questi brani è stato anche un modo per tirare un bilancio di quello che sei stato e di quello che hai scritto fin qui?
D: Sì, sì. Sicuramente questo è un disco che fa il punto. Chiude un cerchio che poi probabilmente ricomincerà. Ci sarà “Musica Senza Musicisti 2”? Non lo so. Però per me è sicuramente così.
I brani inediti del disco, invece, li avevi scritti prima di sapere che il disco avrebbe avuto questa forma e questa produzione, con il pianoforte, gli archi e tutto il resto?
D: No, ho iniziato a scriverli quando avevamo già cominciato a lavorare ai brani editi. Per esempio “Il ritornello” è nato dopo che eravamo stati in una tavernetta nei pressi della SAE a Milano, dove abbiamo registrato. Chiacchierando con Tommaso (Colliva, produttore del disco, ndr)e Isabella delle nostre visioni è saltata fuori la necessità di avere un ritornello. Ho scritto il brano la sera stessa, appena rientrato a casa.
E ti è sembrato di avere un approccio diverso alla scrittura?
D: Sì, molto. Dal mio punto di vista ne “Le squadre” riconosco delle cose che ci sono in "Musica Senza Musicisti". Chiaramente però il mio punto di vista è abituale e quindi so dove si assomigliano le cose e sto magari meno attento nel far caso alle caratteristiche che possono differenziarle. È stato interessante per me crescere con questo disco. Ero abituato a lavorare in una maniera molto diversa: sapere esattamente quello che volevo, cercare di realizzarlo e finirlo in tempi brevi. Le lavorazioni erano molto più rapide. Questa volta, ci sono state fasi di lavorazione molto lunghe perché sai, se anche vuoi cambiare due o tre accordi nella strofa devi richiamare il quartetto d'archi, trovare lo studio giusto, il pianoforte giusto. Siamo stati molto fortunati a incontrare subito le persone giuste che davvero hanno compreso il senso di scoperta che c'era nel fare un disco di questo tipo. Era difficile dare dei riferimenti, non c'era nulla a cui ispirarsi. Anche a un musicista classico, se non ci sono abituati, è difficile spiegare cosa vuoi ottenere, ma è bello. Lo struggle che trovi nel disco è anche lo sforzo, la volontà di creare la coesione vera e l'unità nella musica.
Isabella, visto che vieni da una formazione diversa, com'è stata la fase compositiva di questo disco?
Isabella: Venendo da una formazione completamente classica, ho un modo di lavorare molto rigoroso. Da un punto di vista musicale mi ero un po' intestardita su alcune cose, soprattutto sul mio modo di scrivere forse un po' troppo complesso, e all'inizio ci siamo un po' scontrati, ma poi mi sono "spogliata": ho semplificato, e "semplificazione" è stata la parola chiave di tutto il lavoro, ma senza cadere nell'ovvio. All'inizio avevo paura di non riuscire ad avvicinarmi a questo linguaggio, ad inquadrare bene il suo discorso rap con degli interventi ritmici, ricavandomi anche uno spazio autonomo.
Conoscevi la discografia di Dargen prima che ti arrivasse la proposta di lavorare con lui?
I: No, sul rap in generale non ero particolarmente ferrata, dico ero perché ora qualcosina... devi considerare che io vengo dal mondo della musica classica, ho studiato pianoforte al conservatorio e anche qualche anno di composizione, mi sono specializzata nel repertorio pianistico in Spagna, ma avevo già sentito la necessità di non fare solo l'interprete ma anche musica mia, e ho avuto la possibilità di esibirmi in progetti importanti, per esempio con Elio, Paolo Fresu e l'orchestra sinfonica. Quando ho pensato di fare qualcosa di radicalmente diverso, il mio manager Charlie Rapino mi ha suggerito che Dargen avrebbe potuto essere la persona giusta con cui sperimentare.
E come ti sei preparata?
I: Ho iniziato ad ascoltare i suoi brani per conoscere il nemico (ride) avevo bisogno di capire che tipologia di poetica fosse la sua, e sottolineo poetica perché di questo si tratta a tutti gli effetti. Sono rimasta piacevolmente colpita e ho pensato che portare il mio percorso e metterlo a sua disposizione sarebbe stata una bomba. Dopo diversi ascolti ho avuto l'opportunità di conoscerlo di persona. In particolare, mi era piaciuta molto "Modigliani", e dopo l'incontro l'ho bombardato per fare questa cosa un po' matta con lui. Poi Dargen è partito in giro per il mondo per 2 mesi e mezzo e io ho approfittato di quel periodo per scrivere tante, tante cose, tanti pezzi, glieli ho spediti e ci siamo confrontati per capirci e studiarci, e soprattutto ascoltarci, che ha fatto la differenza e ci ha avvicinati.
A questo punto, se doveste fare un bilancio, quanto c'è di Dargen, quanto di Isabella e quanto di Tommaso nei pezzi?
D: I dischi che fa Tommaso sono sicuramente molto diversi da questo. A volte so di forzare alcuni processi nel lavoro di altre persone ma perché a me piace essere messo sotto pressione, mi stimola molto. Per questo alcune scelte sono lontane delle mie.
Nei fiati si riconosce la mano di Colliva.
D: Sicuramente. Io ti dico che riconosco perfettamente anche la mano di Isa. È proprio di questa coesione che si tratta: le scelte sono diventate la scelta. Colliva è pazzesco nella registrazione di pianoforti. Mi ritengo molto fortunato ad avere incontrato in questo momento Isa e Tommaso, sono stati veramente due angeli per me. Tralasciando poi il fatto che ti passa anche la voglia di farci le tue cose. Ti viene da dirgli "Suona tu, io sto qua, è bellissimo". Senza di loro non sarebbe stato possibile fare un disco del genere.
Isabella, secondo te qual è la migliore qualità di Dargen come autore?
I: Quello che ho riscontrato in lui è soprattutto la capacità di ascolto. Ha le sue idee e le porta avanti con grande autorevolezza, ma è bravo ad ascoltare. Da un punto di vista musicale ho apprezzato tanto il suo modo di fare rap perché non è scontato, anche lui come me è un classico ma complesso, e a parere mio è un valore aggiunto. Inoltre è predisposto alla melodia, ha una musicalità che lo rende flessibile, un'elasticità che mi è piaciuta e mi piace ancora, infatti non vedo l'ora di sperimentare nei live, non saranno mai uguali uno all'altro. Ci sono tanti rapper in Italia, ma non ho colto una grande varietà stilistica negli altri, in lui sì.
A parte Isa e Tommaso, nel disco ci sono tanti musicisti coinvolti che provengono a vario titolo da vari progetti italiani: Daniel dei Selton, Sebastiano de Gennaro, Daniela Savoldi e altri ancora. Il fatto di aver scelto dei musicisti e non dei producer è un modo per delimitare il territorio tra te e il resto del rap italiano?
D: No, non mi vedo in opposizione verso il resto della musica che viene fatta in Italia. Non sto a considerare cosa succede altrove quando decido di fare un mio disco. Considero solo quello che avviene dentro di me, dentro le persone che lavorano con me, per costruire. A parte che troverei un pochino triste tentare di riferirsi a questo periodo culturale che stiamo vivendo in Italia e quindi anche alla musica. Ora, io faccio parte di questa cosa però sapete, uno cerca di guardare oltre. Non ho fatto una scelta negando la figura del producer. Dall'inizio, quello che volevo era mantenere la purezza degli intenti delle persone che lavoravano a questo disco: lasciare che tutti liberamente potessero dare il proprio contributo che è quello che ho fatto anche io. Dal mio punto di vista, il disco è davvero la sintesi, non mi vergogno di dire perfetta, delle persone che sono entrate in quegli studi.
A proposito del periodo in cui vivi però, nel disco troviamo proprio le voci di Tedua, Rkomi e Izi, rappresentanti della "nuova ondata trap", diciamo così. Com'è nata questa collaborazione? Come ti sei trovato in studio con loro?
D: Devo dirvi la verità: molto bene. Sono dei ragazzi giovani che hanno davvero tantissima voglia di fare musica. Sono tra quelli che stanno facendo parlare di più e non mettono davanti l'estetica. Nonostante siano dei bellissimi ragazzi, quello che preme di più a tutti e tre è fare musica e questa è già una cosa che tende ad avvicinarci. Alla fine, nonostante io sia bellissimo, in realtà faccio musica e scrivo le canzoni, tutto il resto è una conseguenza o una coincidenza. Poi, Izi l'ho conosciuto mentre stava facendo il film ("Zeta", ndr) perché avevamo un amico in comune. Rkomi me l'ha presentato una mia amica. Tedua me l'ha fatto scoprire il produttore Marco Zangirolami. Mi sembra siano ragazzi che hanno molto da dire, quello che volevo era costringerli a venire fuori in un modo che era diverso dal loro e diverso anche dal mio.
C'era l'intenzione di produrre lo stesso effetto negli ascoltatori?
D: Sì, ma il bello della musica è quando ti ascolti una canzone e scopri che ti dice qualcosa di nuovo. Ti fissi su una canzone, succede qualcosa che non ti aspettavi e dici: “Ah questa canzone è di un artista sconosciuto, non me lo sarei mai aspettato” e diventa il tuo brano di riferimento e lo ascolti per mesi. È questa la cosa bella, anche se quando diventa un'abitudine perdi un po' la voglia di ascoltarlo, è esattamente questo quello che accade con le canzoni. Sempre.
Di che cosa parla davvero "Le squadre"?
D:Quello che scrive il brano si trova a non prendere una decisione come scelta. Come scelta, sceglie di non scegliere. Poi non è una scelta, infatti da lì è nata l'idea de “Lo stesso colore” in cui lo stesso scrittore fa le pulci a quello che ha scritto “Le squadre”. Però è proprio intrinseco nel brano che tu debba essere sbilanciato nei significati. C'è sicuramente la famiglia, c'è sicuramente la tecnologia, c'è la facilità con cui oggi si tende a dare la propria opinione. Per esempio: io seguo Brian Eno su Facebook, poi vedo che Dargen D'Amico ha scritto una cosa, Brian Eno ne ha scritta un'altra allo stesso livello e arrivo a pensare in qualche modo che entrambi siano sullo stesso livello. Non è così. Magari vedo che mio cugino si sente allo stesso livello di Brian Eno e possa permettersi di commentare: non è così. Chiaramente non è così, perché Brian Eno è Brian Eno e noi no. La facilità è questa. però la distanza tra chi fa e chi guarda si è accorciata di molto. Essendoci questa poca distanza, chi guarda in qualche modo pensa di essere lì a fare anche lui. Purtroppo non è così.
Nei rifacimenti c'è una volontà di stravolgere il mood delle canzoni? Ad esempio “L'amore è quell'intertempo / Qualsiasi movimento faccia” diventa molto più pacato, proprio come “Tra la noia e il valzer / L'aggettivo adatto”.
D: Non c'è stata una scelta meccanica, diciamo che in quel momento mi sono lasciato guidare dalle musiche e da quello che stavamo facendo. Sono stato io a seguire quella che era la direzione della musica. Nei brani originali è sempre la musica che deve seguire la direzione che impongo io. A me incuriosiva vedere il risultato, ma anche in precedenza gran parte delle canzoni che ho fatto le ho fatte perché volevo vedere come sarebbe venuto fare quella canzone. “Amo Milano” l'ho fatto per vedere cosa sarebbe successo a fare un brano un po' rap inizio anni '90, o comunque fatto in quel modo lì. Gran parte delle mie canzoni, anche in passato, sono curiosità.
Pensi che un giorno potresti fare un'operazione al contrario? “Il ritornello” starebbe molto bene con una base che spinge, ad esempio.
D: Sì, sì. Le canzoni hanno tutte una personalità propria, un carattere che a volte confondiamo con il vestito. In Italia siamo molto bravi in questo. È molto difficile andare oltre, spogliare una canzone, ma quando mi trovo dalla parte dell'ascoltatore è quello che preferisco: andare oltre il “l'ho capita, non l'ho capita” e riascoltarla, vedere cosa succede.
Esiste un filo rosso tra questo lavoro e “Balerasteppin” in cui rappavi testi degli altri, oppure “Ottavia”, in cui prendevi dei tuoi testi mai usciti e li rimaneggiavi?
D: Sì, anche nell'Ottavia poi ho ripreso dei testi che era pronti, perché non sono il tipo che ha un testo completo e lo lascia lì o non porta avanti la canzone. Quando mi decido a scrivere un brano lo faccio perché sono convinto sia il momento giusto e abbia qualcosa da dire, e va sempre così. Effettivamente mi piace che non si capisca cosa ho aggiunto quando ho fatto l'Ottavia. Il disco l'ho fatto seguendo quello che mi dava lo spirito della prima parte del testo, ma la cosa che volevo era seguire una direzione, come mi è successo con questi brani; allo stesso modo col progetto Macrobiotics, con il testo volevo seguire quella che era l'intenzione della musica. Lì era anche divertente perché, se cambi vestito al brano, puoi far diventare aggressive anche un brano di Laura Pausini. Con la musica puoi fare tutto con tutto, ed è una cosa divertente: cambi vestito e cambi tutto.
A proposito di come scrivi: per te è un lavoro quotidiano o scrivi quando ti arriva l'ispirazione?
D: Scrivere non è un lavoro quotidiano, però pensare lo è. In qualche modo per me la scrittura è la traduzione di un lavoro che faccio in testa. Le canzoni passano molto tempo dentro la mia testa, solo dopo le riverso.
Quindi, quando scrivi il brano c'è già tutto, dall'inizio alla fine?
D: Non c'è una regola ma spesso capita che mi viene il ritornello e poi attendo di avere materiale a sufficienza per le strofe. Ho sempre un po' paura di mettermi a scrivere una canzone senza sapere dove vanno le strofe: il rischio è di fare un brano un po' dadaista, metti un po' di questo o quello. Però non ho una regola.
Ti è sempre venuto naturale o adesso ti viene più facile? Hai l'impressione di imparare ancora cose nuove?
D: Sì, ho l'impressione di imparare sempre cose nuove. Credo di essere capace di scrivere delle canzoni alla Dargen, ma non di scrivere delle canzoni tout-court. Insomma, le mie mi vengono bene, ma ci mancherebbe. Mi vengono facili. Però mi capita spesso che le canzoni che sento più mie sono quelle che piacciono meno agli altri.
Per esempio?
D: Una canzone che ricordo con molto dolore da questo punto di vista è “L'Italia è una”. A me quel brano piaceva, però nessuno si è mai lasciato andare in apprezzamenti sperticati.
Patisci molto il giudizio degli altri, in questo senso?
D: No, però non dovete vederla come una mancanza di rispetto nei confronti delle opinioni altrui. A volte mi dispiace nei confronti di chi segue il progetto di Dargen D'Amico, però secondo me è anche giusto che per il tipo di cosa che faccio, che hanno dentro di sé questo fatto di andare sempre per i fatti propri, non ci si soffermi su troppo a ragionare. Però mi piace avere un dialogo, quello sempre, molto, anche con gli insulti. Mi piace quando l'insulto è una necessità e c'è un'argomentazione che ti viene spiegata e con cui finisci per capire qualcosa di te. Poi mi piace anche l'insulto gratuito, quello però per dei miei gusti sessuali (ride). Quando l'insulto serve a dare qualcosa all'altra persona, quando dici “sei un pirla perché”, c'è una minima parte di questi insulti che sono necessari per crescere. Ecco, anche un po' meno rispetto a quelli a cui puoi accedere nell'era di internet.
Ci sono state delle volte che hai ricevuto degli insulti e hai pensato "questo mi è servito"?
D: Mi capita spesso quando incontro le persone dopo i live e mi fermo a chiacchierare. Una percentuale di queste chaicchiere sono interessanti per me, però è anche sensato viverli con naturalezza, perché altrimenti non vivi più. Ascolto quello che mi viene detto, ci ragiono, ma poi me lo lascio alle spalle e vado avanti a fare le mie cose.
A proposito degli insulti su internet che dicevi prima, facciamo parte da “osservatori partecipanti” del gruppo FB dei D'Amici. I tuoi fan hanno un modo del tutto diverso di parlare e confrontarsi tra di loro sul web. Anche in caso di disaccordo, sono molto gentili tra di loro e si invitano a vicenda a fare altrettanto. Sembra strano dirlo, ma è come se i diversi fossero loro, perché non si massacrano con cinismo come succede ormai sempre online. Secondo te come mai?
D: L'ho detto tante volte, mi sento miracolato per il pubblico che segue questo progetto, in molte occasioni mi ha dimostrato di essere veramente della stessa materia di cui è fatto il progetto che abbiamo costruito nel tempo, sono successe delle cose che mi ricorderò per sempre. Per esempio ai tempi di "Nostalgia istantanea", che era un disco particolare, i ragazzi che mi seguivano all'epoca (e che forse mi seguono anche adesso, se non se ne sono andati dopo "Bocciofili") mi dicevano delle frasi bellissime che ti riassumo con: “Io questo disco non lo capisco, ma ci proverò”. Col tempo è diventato un disco apprezzato, tra chi mi segue chiaramente, perché una persona che non mi conosce, ascoltando "Nostalgia istantanea" potrebbe anche chiedersi: ma chi è sto cretino? Ma è giusto così, a me piace quando gli ascoltatori di altri generi mi danno del cretino, mi riempie di gioia. E succederà anche tra “D'iO” e "Variazioni", ma quando si sta sulla stessa barca bisogna remare tutti insieme, la direzione è quella, si capiva dal primo disco.
Sempre sul gruppo dei D'Amici, c'è un livello di interpretazione nel cercare di capire tutti i sottotesti su tutti i tuoi lavori che tocca vette maniacali. Secondo te in un tempo di ascolti fugaci e brevi status su FB, perché sulla tua musica esiste tutta questa attenzione?
D: Perché io vivo questo processo tutti i giorni, e quindi credo sia naturale che le canzoni vengano analizzate. È quello che faccio anch'io quando una persona mi parla, quando guardo un film, parlo con qualcuno, cerco di andare oltre e approfondire. Dipende dal momento in cui ti trovi tu che ascolti la canzone, cosa recepisci. Non ho mai cercato di dare delle risposte, ho sempre fatto delle domande nelle canzoni. Se uno da la sua interpretazione mi rende felice. L'altra sera su genius.com ho letto un'interpretazione bellissima di una mia canzone, iper-pindarica, scritta anche bene, che però non c'entrava niente con le mie intenzioni nella canzone. Però era bellissima e mi ha reso contentissimo.
Per te è una preoccupazione l'essere coerente?
D:Coerente rispetto a quello che ho fatto in passato no, coerente rispetto alla ricerca di una risposta che valga per tutte le domande sì.
Qual è secondo te la domanda che più hai posto nei tuoi testi?
D: Ce n'è una ma secondo me non devo riformularla, perché se avete ascoltato bene le canzoni con lo stesso spirito che ho io nello scriverle, ed è obbligatorio che sia così, è semplicemente quello che avresti voluto dire tu, però non hai avuto tempo, modo o hai fatto un percorso di vita diverso. Forse ci arrivi da un'altra parte, ma sono sensazione comuni. Credo ci sia un'identità tra chi scrive e chi ascolta.
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L'articolo Le rime e il pianoforte: variazioni sul tema Dargen D'Amico di Chiara Longo e Raffaele Lauretti è apparso su Rockit.it il 2017-03-29 17:51:00
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