La sua ultima hit è "Occhi profondi" scritta per Emma Marrone. Ha scritto brani di successo per Mengoni, per Renga, per Annalisa, per Giusy Ferreri e per molti altri. Maniaco della melodia, dell'arrangiamento e della forma canzone, ci racconta il pop italiano di oggi ed è più che speranzoso per quello di domani.
È possibile tratteggiare quali sono le caratteristiche principali del pop italiano di oggi?
È una domanda difficile. Generalizzare o individuare una regola è sempre un rischio. Io ti posso dire di essere un maniaco dell'armonia, della melodia, della forma canzone. Mi interessa tutto l'arrangiamento: non consegno solo un provino piano e voce ma l'intera canzone, definita nei più piccoli dettagli. Se, invece, mi chiedi di trovare un tratto distintivo per il pop degli ultimi anni, lo individuerei in una standardizzazione armonica, una sorta di minimalismo.
Definisci minimalismo.
Prendi un capolavoro come “Almeno tu nell'universo”: è un brano assurdo, quel tipo di scrittura lì oggi risulterebbe troppo complicata. Adesso guardiamo all'estero per capire quali giri armonici scegliere con il risultato che tutto, alla fine, è ridotto all'osso. In più l'hip hop ha introdotto un'idea di metrica molto serrata e le melodie vanno di conseguenza. Si riduce quello che io chiamo il gesto melodico: la melodia ha un'anima, c'è un livello espressivo, ce n'è uno emotivo, veicola un testo...
Quindi tutto deve accadere subito: la canzone esplode entro pochi secondi, le singole parti si susseguono velocemente, ci sono più generi compressi in un unico brano?
Non solo deve accadere subito ma devi anche scegliere accordi ben precisi: se metti una quinta bemolle o una settima aumentata risulti “retrò”. Oggi con un giro armonico standard fai la hit di Avicii e, contemporaneamente, quattromila hit italiane.
Io pensavo, invece, che il trend di adesso fossero i Modà, e fatico a pensarli come “minimali”.
Quello è il melodramma all'italiana. Io l'ho studiato con grande passione, Diego Mancino per prendermi in giro mi chiama sempre il “re del melodramma”. Ascolta un disco come “Oltre” di Baglioni: sul lato della ricerca melodica è un must imprescindibile, andrebbe studiato passaggio dopo passaggio, nessuno in Italia è mai arrivato a tanto. Quel disco ha un balance perfetto tra melodia, testo, suono della parola, è incredibile. Scusa, qual era la domanda?
Che i Modà hanno rotto un po' le palle.
(Ride, NdA) È solo una delle tendenza che puoi trovare oggi, c'è tutta una nuova scena... prendi Fortunato Zampaglione, lui davvero ha fatto fare un passo in avanti alla melodia e alla scrittura pop italiana. Brani come “Guerriero”, per Marco Mengoni, o “L'amore esiste”, per Francesca Michielin, hanno aperto un nuovo scenario ed un nuovo tipo di contemporaneità.
Parliamo dei Modà come se fossero una band di trent'anni fa.
Io non ho mai detto questo.
Hai ragione, intendevo dire che nel pop italiano, oggi, è molto difficile distinguere il vecchio dal nuovo.
Kekko ha la particolarità precisa - e la considero una cosa bella - di prendere quest'enfasi melodica tipica della tradizione italiana. Alcune volte l'ho fatto anch'io: ad esempio “Inverno”, che ho scritto per Annalisa, ha questo gusto retrò nella melodia.
In “Alice il blu” - sempre scritta per Annalisa - c'è quel “grammo di nuvole” che potrebbe avere più di un'interpretazione.
“Alice e il blu” è un brano che parla di dipendenza, non c'è solo il grammo di nuvole, c'è anche il pezzo di blu, il gatto blu... questo continuo rimando al blu inteso come down. Parla del rapporto tra una ragazza ed il suo spacciatore.
Non so se gli ascoltatori di Radio Italia la intendono così, sai?
Annalisa lo dice nelle interviste, poi, ovviamente, ha preso il tema della dipendenza e l'ha reso più generico e osservabile da diversi punti di vista. Volevano anche che mettessi un lieto fine ma l'ho lasciata così, andando contro il parere di tutti. Per me era una fiaba acida: Alice doveva rimanere sola ad aspettare un pusher che non sarebbe mai tornato.
E chi ha deciso che Annalisa dovesse parlare di droga in una sua canzone?
Io, ovviamente. Ci sono dei riferimenti scritti apposta per Annalisa: blu è il nome del suo gatto, poi c'erano Alice ed i gatti, riferimento a De Gregori, ci ho messo tante cose in quel pezzo. È una canzone nata in maniera autentica, speravo davvero che Annalisa la scegliesse, che la capisse, idem i produttori ed i discografici. È quella la nostra “lotta”: scrivere una canzone e sperare che esca nella maniera più fedele possibile alla tua idea originale.
Sui suoni hai voce in capitolo? Sinceramente credo che “Io ti aspetto” - che hai scritto per Mengoni - sia un bel pezzo ma sulla produzione è indifendibile.
Quella della produzione è una fase a cui non siamo ammessi.
Quella, insieme a “Fatti avanti amore” di Nek, “Fantastica” di Dolcenera e molte altre, rientra nel filone che chiamerei “A sky full of stars”.
Anche Cesare Cremonini con “Logico” allora, era il mood di quel periodo. Non ti so dire se in “Io ti aspetto” ci sento davvero i Coldplay, forse era nell'aria. È normale che una hit internazionale vada a influenzare il sound del pop mainstream di un certo momento.
Facciamo un passo indietro, spiegami il tuo lavoro: per ogni pezzo che scrivi ricevi delle note dai discografici con riferimenti precisi ad altre canzoni e tu da queste devi trarre ispirazione?
Non esattamente. Non mi capita spesso di dover fare un lavoro su commissione così dettagliato. A volte ricevo delle reference, ovvero dei riferimenti a canzoni o artisti ben precisi, ma da quelle io devo capire più il mondo sonoro e produttivo dell'artista e come utilizzarlo nel il mio pezzo; non copio necessariamente il suo songwrting. Perché, poi, quando passi da un input internazionale allo scrivere in italiano c'è un lavoro enorme da fare, sia a livello metrico che di adattamento delle melodie. Ma ti assicuro che le reference sono sempre molto particolari, anche fin troppo avanti rispetto a quello che si ascolta normalmente in Italia. L'editore vuole spronarti ad essere curioso, ad andare oltre. Poi, il perché si parta da Woodkid e si arrivi a tutt'altro non te lo so spiegare. Ci sono eccezioni, come ad esempio “Guerriero” e scusa se ritorno ancora su questo pezzo.
È un bel pezzo, certo non è James Blake.
Cose alla James Blake non ci saranno mai nel pop in Italia. Io sono un fan di Jon Hopkins, mi piace molto Blake, spesso inserisco alcuni dettagli vicini a quello che fanno - ad esempio quei riverberi sui tom, tipici di Blake - e puntualmente me li tagliano.
Quindi la colpa è dei produttori.
“Colpa” non è la parola giusta, semplicemente non fa parte del gusto italiano. Non vorrei passare per paraculo ma sinceramente non so dirti se la “colpa” è delle radio, dei produttori, dei discografici, del pubblico, ecc. Il mio lavoro è partire da una scintilla emotiva onesta e scriverci attorno una canzone. La curo nei minimi dettagli, divento maniacale a trovare un balance giusto in ogni suo aspetto. Non mi interessa essere un puro mestierante, posso passare anche tre giorni consecutivi su una melodia perché sia come la voglio io ma, una volta consegnato il pezzo, l'interprete può farne ciò che vuole. Non è più un mio problema.
L'onestà come la riconosci?
Dal mio feedback emotivo, da quello che mi accade mentre la sento. La individuo subito, non c'è un cazzo da fare.
Perché c'è poca sensualità nelle canzoni italiane?
Non saprei risponderti, mi è più facile abbinare la sensualità di una canzone alla fisicità dell'artista che la interpreta. Ci sono interpreti considerati “sensuali” nell'immaginario pop come Marco Mengoni, Tiziano Ferro, Emma ma, in generale, essere sexy, a livello di puro songwriting, non è il nostro forte. Se dovessi scegliere un nome mi verrebbe da dirti Tommaso dei Thegiornalisti, ma quello è indie.
Che tu dividi ancora in maniera netta dal mainstream.
Quando ho iniziato a far questo lavoro, una decina di anni fa, lo era. Oggi sono due mondi che si corteggiano a vicenda.
Il fatto che le major stiano assoldando autori come Dimartino, Nicolò Carnesi o lo stesso Tommaso Paradiso è una mera questione economica – possono pagarli meno di quelli affermati – o c'è qualcosa di più?
Credo sinceramente che ci sia della vera lungimiranza in questo tipo di scelte. Uno come Klaus Bonoldi, il mio capo all'Universal, ha davvero una preparazione ed una curiosità musicale decisamente viva.
Le canzoni pop italiane parlano solo d'amore?
Al 90% sì, parliamo solo d'amore. La cosa interessante, a mio avviso, è che i brani di successo degli ultimi anni vedono nell'esperienza dell'amore un riscontro positivo, sia nell'abbandono che nella costruzione dell'amore.
Stiamo abbandonando il dolore? È una svolta epocale.
Non lo stiamo abbandonando, lo approcciamo in maniera costruttiva, gli diamo un colore emotivo positivo. Prendi “L'essenziale” di Roberto Casalino scritta per Marco Mengoni: “mentre il mondo cade a pezzi, io compongo nuovi spazi”, mi sembra un atteggiamento meno distruttivo rispetto a quanto ci eravamo abituati.
A mio avviso nel pop, non solo quello italiano, c'è una sorta di pudore nei confronti del dolore (di quello spaccastomaco alla Non Voglio Che Clara, per intenderci). In pochi si mettono davvero a nudo, giusto Tiziano Ferro e non molti altri.
Dipende da cosa intendi per "mettersi a nudo". Magari Emma non svela la sua intimità in una maniera passiva o drammatica, ha un modo forte di presentarsi, molto personale, non è una che si piange addosso ma non direi che non affronta determinati sentimenti.
Raccontami “Occhi Profondi”, l'ultima che hai scritto per lei.
L'ho scritta insieme a Ermal Meta, parla del non riuscire a dimenticare una persona. Dice che ci vorrebbero degli “occhi profondi, grandi come due pozzi neri”, dove buttare tutto quello che non vuoi più vedere. Non mi sembra così superficiale. Però, è vero quello che dici: spesso si tende ad attenuare il dolore, infatti quando scrivo con Diego Mancino, che ha un immaginario molto visionario, decisamente estremo, ci siamo trovati più di una volta a livellare determinate cose, anche perché gli interpreti che ci sono adesso sono molto giovani, non sarebbe credibile accostarli ad una complessità simile. Mentre per “Il cielo è vuoto”, che abbiamo scritto insieme per Cristiano De André, abbiamo potuto lasciare questo tipo "pesantezza"...
Altro pezzo dove i Coldplay ritornano in maniera evidente.
(Ride, NdA) Gli archi li ha curati Davide Rossi, lo stesso che ha scritto quelli di “Viva la vida”, ti rispondi da solo.
Tra quelle che hai scritto, la mia preferita è “Ti porto a cena con me”.
È anche una delle mie preferite. Avevo appuntato sul mio quaderno “ti porto a cena con me, il tuo passato non è invitato, lascia a casa le pene”. Roberto Casalino, che è assolutamente geniale nel raccontare una certa drammaticità, è riuscito da questo incipit a sceneggiare tutta la canzone. Quando mi sono seduto al piano e abbiamo iniziato a scrivere le melodie ci siamo davvero emozionati, quel pezzo è nato in meno di due ore. Spesso mi criticano di non avergli dato un'apertura così maestosa ma ho sempre risposto con un elegante e 'sti cazzi. A me quel ritornello spacca in due lo stomaco, idem le strofe. Sarebbe interessante farti sentire com'era su provino.
Per Emma hai scritto canzoni molto diverse tra di loro – c'è quella più melodrammatica, quella alla Pink, quella dove sembra la Nannini – non c'è il rischio che il pubblico si confonda?
Non funziona così con gli interpreti. Senza fare paragoni perché parliamo di epoche diverse, prendi Mina, ha fatto miliardi di cose: è passata dal repertorio crooner alle cover di Battisti, ha fatto pure un disco di Celentano, eppure per tutti è sempre Mina. Io credo che Emma abbia un talento vocale e una personalità talmente forte che non rischierà mai di non essere riconosciuta.
Avere una bella voce è fondamentale per lavorare in Italia?
Dipende, se l'artista viene fuori da un talent è ovvio che, per sopravvivere a quel tipo di selezione spietata, debba avere determinati requisiti e tra questi c'è sicuramente la voce, intesa come una pluralità di abilità tecniche. Ci sono personaggi però che non ne hanno bisogno, prendi Vasco o la Nannini. A mio avviso è più importante il colore e quello che la voce comunica a livello espressivo dal vivo e su disco. Vasco e Nannini non sono voci educate, non li puoi paragonare ad Al Bano, ma funzionano lo stesso. Non è poi così vero che noi italiani abbiamo solo il bel canto nel nostro DNA. Battisti ha una voce educata? Non mi sembra.
Quante canzoni scrivi al mese?
Tre, quattro.
Non hai paura che la tua creatività si esaurisca?
A me piace sempre scrivere in coppia con un altro autore, c'è uno scambio: la relazione nella creatività è fondamentale. Credo di essere una persona umile e, anche se mi trovo a scrivere con un ragazzino di 18 anni, cerco ugualmente di carpire che cosa mi sta comunicando in quel momento. Per ora ha sempre funzionato così.
Hai mai l'ansia che un pezzo non funzioni abbastanza?
Le mie entrate arrivano dalle esclusive con il publishing e dai diritti d'autore derivanti dalle esibizioni live, dai passaggi in tv o in radio. Col tempo impari a capire che non tutto dipende da te. Magari una canzone è una potenziale hit ma per mille motivi non funziona. Ad esempio, basta che scelgano una tonalità che rende meno chiare le parole o la melodia di un ritornello e subito la canzone perde il suo effetto.
Parlando di parole, in tutto questo il tuo nuovo progetto Dardust come si inserisce?
È forse la mia anima meno condizionata da tutto quello che ci siamo detti finora. Ha un suono pop, perché io sono fatto così, ma è un progetto assolutamente genuino, nasce dalla sfida di non mettere le parole, di non mettere la voce o di metterla in maniera non convenzionale. Non avrei mai fatto un progetto cantautorale, non ce n'era bisogno.
Ma a te il pop piace?
Sì ma non lo ascolto. Oltre ad essere un grande fan di Bowie, il mio background è la musica elettronica: Depeche Mode, Chemical Brothers, tutta la scena anni '90, oltre a Jon Hopkins, Nilsh Frahm, quel tipo di sonorità più nordiche. Non mi ascolto Taylor Swift, o meglio: lo faccio per capire dove sta andando il mondo della produzione ma non per il semplice piacere di farlo.
Tolto alcuni esperimenti - l'ultimo disco di Don Joe, ad esempio - non accadrà mai che un interprete pop italiano si affidi ad un produttore elettronico, vero? Come Madonna vuole Diplo, la Pausini non andrà mai da Crookers per chiedergli una base.
Devi essere ben consapevole di come accadono le cose. Te l'ho già detto, uno come James Blake in Italia non ci sarà mai. Ma c'è tutta una serie di producers che stanno portando un rinnovamento nel mainstream, Canova, Ferraguzzo per citartene due. Continuare a dire che le canzoni fanno tutte cagare e che siamo rimasti 20 anni indietro rispetto all'America non mi interessa. Credo sia più utile focalizzarsi sugli aspetti positivi. C'è speranza per il futuro.
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L'articolo Il lavoro dell'autore. L'intervista a Dario Faini di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-07-10 09:39:00
COMMENTI (3)
Bellissima intervista, poi ascolti i pezzi e pensi : Maronna do Carmine ma di che stiamo a parlà??
Queste interviste sono davvero molto utili e le leggo sempre volentieri. La "colpa" di cui si parla ad un certo punto dell'intervista, secondo me è da imputarsi più alle radio che ai produttori. Sarebbe bello che voi di rockit vi dedicaste all'argomento radio italiane. Come giudicate, ad esempio, il legame, in ambito discografico, tra RTL, RDS e Radio Italia?
Molto ma molto interessante....