Da Cremonini a Fabri Fibra, da Elisa a Jovanotti, a tutti quanti sarà capitato di ascoltare una sua canzone. C’è chi ne ignorava l’esistenza e chi l’idolatra dai tempi de Le strisce, ad un anno di distanza dal suo debutto solista, Davide Petrella ha abbandonato nome e cognome per fare finalmente musica in totale libertà. Tra Napoli e L’Havana, lo abbiamo incontrato per farci raccontare la genesi del suo nuovo progetto.
Innanzitutto, ripercorriamo la tua storia, da Le Strisce a Tropico passando per il tuo album solista.
Le Strisce sono state la mia scuola di formazione. La gavetta: tour in furgone, i primi avvicinamenti al mondo della discografia. Mentre militavo nella band mi è arrivata una proposta come autore, era un’opportunità che non avevo mai preso in considerazione. Non me l’aspettavo, ma non è stato la ragione che ha determinato il mio passaggio a solista. Le Strisce sono durate dieci anni, la classica formazione da rock band cominciava a starmi stretta. L’anno scorso è partito il mio progetto solista ed è uscito un album che s’intitolava “Litigare”. In realtà avevo scritto due dischi ma uno è stato cestinato prima di essere pubblicato. Erano arrivate nuove canzoni, aveva capito che un nome ed un cognome non bastassero per rispecchiare un progetto che è più ampio come influenze e references. Con Tropico, finalmente, tutte le mie esperienza hanno trovato un senso.
Prestare la penna a se stessi è più divertente che scrivere canzoni per altri interpreti?
Sono molto professionale ma cerco sempre di mischiare lavoro e divertimento. Musicalmente questo è il periodo più sereno della mia vita. Sono libero di fare quello che voglio. Sto ricevendo feedback positivi ma non devo badare ai passaggi in radio. Ho la grande fortuna di vivere questa doppia vita da autore e cantante, alla seconda carriera non devo chiedere nulla. Sono libero di sbagliare. La condizione migliore per proporre arte.
Questo singolo, presumibilmente, lascia presagire un album?
Ci sono già tante canzoni pronte, è un lavoro che mi sta emozionando. Sto cercando di mettermi alla prova di rendere facili tante cose complicate.
Il tropicalismo è un genere musicale nato dall’unione di diverse sfumature ed influenze. C’entra qualcosa col nome che ha deciso di adottare per questo nuovo progetto?
Il tropicalismo, come concetto, c'entra, ma ci sono tante ragioni, è frutto di tutta una serie d’incastri. “Tropico del cancro” di Henry Miller è il mio libro preferito da anni. Di recente sono stato in vacanza a Cuba e mi è capitato di ascoltare “Anna” dei Beatles. Ascoltare Lennon tra le case diroccate de L’Avana, vedere gente felice di ascoltare quella canzone è stata una vera e propria epifania. Certo i Beatles sono gli artisti più famosi del mondo, non è strano ascoltarli ovunque, sono io che tendo ad attribuirgli un significato più grande. Tante decisioni importanti della mia vita sono avvenute dopo che ho ascoltato i Beatles in posti improbabili. Posso giurartelo.
Quindi in realtà Tropico è un progetto veramente recente?
Sì, è una follia degli ultimi mesi. Non pensavo di dover cambiare nome ma a Cuba ho capito la direzione verso la quale stava virando la mia musica. È stata anche una questione prettamente emotiva, L’Avana ricorda veramente la Napoli degli anni 50: l’umanità contagiosa, il discorso degli ex voto che, seppur con simbologie e rituali diversi, ricoprono un ruolo importante tanto nella cultura latina quanto in quella partenopea. Tutto il mondo e paese.
Il primo riferimento che mi sovviene è “Creuza de Ma”, un album che ruotava intorno al concetto di Genova ancor più che sulla città stessa. Il tuo prossimo album, ideologicamente, sarà qualcosa di simile con Napoli?
C’è tanta Napoli, non me lo aspettavo. Come verrà costruito lo capirò passo per passo. In “Creuza de ma” l’elemento del dialetto era fondamentale. Io non sono in grado di cantare il dialetto napoletano perché non lo parlo quotidianamente, risulterei fake. Certamente, le canzoni sono state scritte tutte a Napoli, sto lavorando con due producer napoletani. Rispetto al passato, per le mie cose, sto lavorando di più nella mia città. Napoli mi ha dato tantissimo dal punto di vista della scrittura, mi baso tanto sulle storie della gente, a me basta poco per scrivere una canzone, Napoli è una fucina di spunti istantanei. Per la prima volta in un mio lavoro c’è tanta Napoli, ma non la Napoli del dialetto, di Gomorra e Liberato.
La “nuova scena” ha contribuito alla contaminazione urban riscontrabile nel tuo primo singolo “Non esiste amore a Napoli”?
A me piace ascoltare la musica, ne ascolto tantissima. Appena un ragazzino fa quattro visualizzazioni devo andare a vedere se è mio amico o nemico, se mi piace o meno. Sono proprio curioso. Penso che fra la miriade di roba che esce ogni giorno debba per forza esistere qualcosa di buono. Ci sono tutta una serie di stilemi che ormai sono presenti e non puoi fare a meno di ignorare, forse anche per questo riesco a scrivere canzoni per altri. Personalmente mi piace tantissimo mischiare le carte.
Dal video alla copertina, il progetto musicale sembra correlato ad un coerente discorso estetico\narrativo.
Si, è importante, stiamo cercando di cucire un abito su misura per questo progetto musicale. Il concept di base è mio ma mi limito a dare degli input e lasciare sviluppare le idee a chi ha più competenze del sottoscritto in quell’ambito. Devo dire che sono molto contento, per le grafiche stiamo lavorando con una ragazza napoletana, Vittoria Piscitelli, artista ed art director. Per i video mi sto affidando ad un collettivo di registi milanesi, la Bendo, bravissimi, mentre lo styling è curato da Tiny Idols. Tutta gente con cui ho avuto la possibilità di lavorare in passato, soprattutto, gente affamata. Preferisco lavorare con loro che con nomi affermati. Sono giovani, stanno recependo perfettamente il messaggio che voglio mandare.
Se dovessi definire la tua musica quale genere sceglieresti?
Per me è tutto pop. Per me Sfera Ebbasta è un cantante pop. Le definizioni servono per distinguere gli artisti e indirizzare la gente, dal mio punto di vista però, dal punto di vista compositivo, non cambia nulla. Per me è tutto pop, ed è una cosa positiva. Ti spiego: gli artisti oggi sono molto più attenti e molti più aperti a collaborare con artisti ed esponenti di ambiti diversi, questo si rispecchia anche sul pubblico. Molti ragazzi che ascoltano Calcutta vanno anche ai concerti trap e viceversa. Banalmente, anche a livello di look, puoi notare una nuova eterogeneità ai concerti. A mio avviso è una cosa positiva, quando ero ragazzino i giovani si schieravano in fazioni musicali. Tra metallari, punk, tamarri e raver e il rapporto era molto più ostile. A me piace tutto, pop, trap, rap, cantautorato, musica indie, elettronica. In Tropico spero di riflettere tutto ciò che mi piace, al di fuori da ogni etichetta. In questo senso sì, Tropicalismo.
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L'articolo TROPICO, il nuovo progetto di Davide Petrella di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2019-09-18 12:00:00
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