Davide Shorty - Tutti stranieri: perché l'Italia non è un buon posto per fare musica

Questa sera porterà al MI AMI le migliori vibrazioni black e soul, vi consigliamo di esserci. Intanto ci racconta "Straniero", il suo ultimo album, in un'intervista senza peli sulla lingua.

Questa sera porterà sul Palco Rizzla del MI AMI le migliori vibrazioni black e soul, vi consigliamo di esserci. Il suo “Straniero” è stato uno dei dischi che più ci ha stupito quest’anno: Shorty è riuscito nel difficile compito di mettere insieme la soul music e la parola italiana, scrivendo canzoni molto personali ma capaci di raccontare la storia di tutti. Da Palermo a Londra - passando per X Factor - dal rap alla musica dell’anima. Ci racconta il suo percorso in questa lunga intervista.

La parola “straniero” fa da filo conduttore dell’intero disco, cosa vuol dire per te essere straniero?
In primo luogo, mi sono sentito straniero nel mio Paese tutte le volte in cui non venivo considerato in quanto musicista o quando, per riuscire a realizzare il mio progetto artistico, sono stato costretto a lasciare l’Italia per trasferirmi a Londra. In Italia i lavori artistici non vengono considerati. Il nostro è un Paese in cui si tende a sopprimere o comunque a mettere in oscuro la creatività. Nel sistema italiano tu devi essere una macchina con il preciso obbligo di dare indietro alla società un qualcosa di utile e, a quanto pare, la musica non è tra queste cose.

Mentre in Inghilterra la situazione era diversa?
Mi sono sentito straniero anche quando sono arrivato in Inghilterra. La conoscenza di una lingua è fondamentale per farti sentire parte di un gruppo, poichè, altrimenti, ti si innalzano davanti delle barriere comunicative che non permettono alla tua personalità di emergere, che non ti fanno apparire per quello che sei veramente. Nonostante ciò, ho avuto la fortuna di riuscire poi a circondarmi di buoni amici (la mia cosidetta “chosen family”), ma non è stata una passeggiata. L’essere straniero, il sentirsi tale, significa anche possedere un preciso status mentale che ti induce a conoscere il diverso e a celebrarlo in tutte le sue forme. Non tutti - purtroppo - la pensano così. In italia si parla del diverso e dell’immigrazione come se fossero il peggiore dei problemi, quando invece ce ne sono altri ben più grandi. Spesso dovremmo avere paura di noi stessi e non degli immigrati. Più che spaventarci, dovremmo rimboccarci le maniche, sorridere e lavorare insieme. Le differenze devono divenire i nostri punti di forza e di unione.

Prima di parlare del tuo ultimo lavoro, facciamo un passo indietro. Nel 2010 ti trasferisci a Londra per poter realizzare il tuo progetto artistico e, due anni dopo, dai vita ai Retrospective for love. Com’è nata questa band e quali sono i suoi progetti progetti?
I Retrospective For Love nascono tra i banchi dell’università che ho frequentato a Londra. Alcuni componenti della band già li conoscevo in quanto miei conterranei, mentre gli altri li ho conosciuti tra una lezione l’altra. A marzo è uscito il nostro nuovo disco, “Random Activities of a Heart”. Si tratta di un disco che terminammo di comporre due anni fa, solo che, per fini contrattuali dovuti alla mia partecipazione ad X Factor, l’abbiamo fatto uscire con un po’ di ritardo. In effetti ci suona già un po’ vecchio!
Quanto ai progetti futuri, nulla è ancora certo al 100%. Intanto, quest'estate suoneremo in diversi festival Inglesi. Stiamo lavorando a nuovi pezzi, ma non sappiamo ancora quale direzione prenderemo. Sicuramente ci teniamo a migliorare e a portare avanti il lavoro di questa band.

Quali differenze hai potuto notare tra il fare musica in Inghilterra rispetto al farlo in Italia?
La differenza del fare musica in Inghilterra e il farlo in Italia? La cultura qui non viene esaltata e, dal momento in cui le persone non vengono stimolate a conoscere e a creare nuovo materiale, la situazione diventa stagnante, poco differenziata e di qualità pressochè scadente. Poi, una volta che un musicista valido riesce ad emergere, vengono a mancare le persone capaci di riconoscere e promuovere la sua qualità. Per poterla riconoscere ci vuole della conoscenza, dello studio. Il problema principale dell’italia dal punto di vista musicale è l’assenza di un valido insegnamento delle materie inerenti alla musica nelle scuole. Se vuoi un Paese educato all’ascolto, devi educarlo all’ascolto. Se non metti la musica nelle scuole, i ragazzi non si interesseranno alla musica. Ascolteranno Fedez e J –Ax alla radio, ma non saranno mai abituati ad ascoltare Miles Davis o John Coltrane. Su questo fatto influisce pure l’industria musicale, ormai morta nel territorio italiano. A meno che tu non abbia un determinato circuito che ti sostenga, è quasi impossibile emergere. Le etichette indipendenti che riescono a sopravvivere sono sempre meno e le major faticano a vendere i dischi arrivando, talvolta, a falsare i dati delle vendite. Il lavoro del musicista, qui in Italia, viene poi ostacolato delle radio. Queste non hanno un equilibrio nel promuovere un certo tipo di musica. Si promuove solo quello che già si conosce piuttosto che la novità. E riuscire ad essere la novità è praticamente impossibile. Ed è un peccato pazzesco, perchè di artisti grandiosi, in Italia, ne abbiamo a fiumi. Purtroppo però, non viene dato loro uno spazio per farsi conoscere.
In Inghilterra, invece, la situazione è differente. Lì il mercato è più ampio e se tu, artista indipendente, credi veramente nel tuo progetto, riesci molto più facilmente a trovare il tuo canale, a crearti la tua fanbase e a trovare l’agente che fa al caso tuo.

Nel 2015 decidi di tornare in italia per partecipare alla nona edizione di X Factor. Com’è stata l’esperienza nel programma?
X Factor certamente è stata una parentesi molto costruttiva della mia carriera, che ho preso sin dall’inizio come un grande gioco. All’epoca avevo visto le audizioni dell’anno precedente al mio, stavo chiacchierando con la mia ragazza e ci siamo detti: “Ci sono le audizioni di X Factor. Che dici, ci facciamo un viaggetto a Roma?”. Sicuramente il mio intento era quello di condividere la mia musica con più gente possibile.

Il prodotto finale di questa tua esperienza è stato l’inedito “My Soul Trigger”, brano che ti ha lanciato con decisione sul panorama musicale italiano. Ora, a quasi due anni dalla sua nascita, cosa provi nei confronti di questa canzone?
È una canzone che rappresenta parzialmente quello che sono dal punto di vista musicale e dal punto di vista artistico. "My Soul Trigger" è una canzone della quale ho scritto solo il rap. Naturalmente ci sono molto legato, ma essendo io un cantautore, la sento vicina fino ad un certo punto. Sicuramente è una canzone che mi piace cantare e che mi diverte, però non mi rappresenta come cantautore.

Parlando invece di “Straniero”, il tuo ultimo album, quanto c’è di autobiografico in questo nuovo lavoro?
Sono tutte emozioni, parti di vita, di vissuto, è una fotografia. Nina Simone diceva: “Il dovere di un artista dovrebbe essere quello di rappresentare i tempi in cui vive”. Per quanto mi riguarda io sono al servizio dei miei tempi. Non posso raccontare qualcosa che non mi rappresenta e che non vivo in prima persona. Posso provare a fare lo storyteller ma, per come la vedo, il mio dovere è quello di rispettare i tempi in cui sono nato.

Sebbene tu viva a Londra da diversi anni e ti senta a tutti gli effetti un cittadino del mondo, hai scelto di scrivere tutti i testi del tuo nuovo disco in italiano. Perché?
Uno dei miei più grandi sogni era quello di fare soul music in italiano. Perché? Perché sentivo di voler fare così. Volevo dare alla musica scritta in italiano la mia personale impronta. Mi sento parte di un movimento culturale legato alla diffusione della soul music, composto da chi ha preso una cosa che non gli appartiene e si è messo a studiarla per farla il più possibile propria, rispettandola e dandole il giusto peso. Non ci si può appropriare di qualcosa che non è nostro senza conoscere quello di cui ci si sta appropriando. Io faccio soul perchè ne sono follemente innamorato, perchè ne conosco le radici e voglio che più persone possibili si innamorino di questo genere musicale. Lo scrivere in italiano è stato quindi un esperimento per mescolare culture diverse e poter creare nuove e meravigliose entità. Cerchiamo di fondere le nostre conoscenze con quelle di altre culture! Già lo hanno fatto in moltissimi nella musica... Gaber, Tenco, Niccolò Fabi, Daniele Silvestri. Abbiamo un panorama in italia che è caratterizzato da tantissime influenze e i risultati sono un qualcosa di fenomenale. 

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Hai scelto come primo singolo del disco “Nessuno mi sente”. Sembra una grande richiesta d'aiuto, ce la racconti meglio?
Più che una richiesta di aiuto è proprio un grido di sfogo. Inizialmente l’ho scritta sotto forma di poesia. Non doveva essere una canzone. Nasce dalla descrizione di uno stato d’animo che spesso ci accumuna. Quello che ci spinge, nel momento in cui si incrocia un’altra persona per strada, a non scambiare con questa nemmeno uno sguardo. Oppure, facendo un esempio concreto, quando sono in taxi capita spesso che io incontri persone e cerchi di chiacchierare, volendo creare con queste una connessione. Ed è veramente difficile staccarle dallo schermo del telefono. È difficile farle connettere con le circostanze reali. Noi siamo fatti per guardarci negli occhi, non per fissare uno schermo luminoso. È normale che poi ci si alieni e ci si senta male... ed è un peccato, ci si preclude veramente tanto.
Una cosa che mi ha fatto sorridere è stato un brano che ho ascoltato poco tempo fa, “Non me ne frega niente”, scritto da Levante. Nella canzone si parla proprio di questa cosa. È bello che finalmente ci sia qualcuno che lo urli al mondo. Le auguro veramente il meglio, il massimo del successo.

“Straniero” può vantare delle collaborazioni molto interessanti. Accanto al tuo nome appaiono infatti quelli di Daniele Silvestri, Tormento, i Throwback e Johnny Marsiglia. Come sono nati questi featuring?
Con Daniele Silvestri l’incontro l’abbiamo fatto succedere. Sotto consiglio della mia ragazza, grande fan di Daniele, ho scritto a Niccolò Fabi, che ho la fortuna di chiamare amico, per chiedergli qualche consiglio. Insomma, in cinque minuti mi risponde e mi dice “Daniele ti aspetta!”. Io sono rimasto pietrificato. Vado al soundcheck di un concerto di Daniele e lui mi accoglie con un sorriso incredibile dicendomi: “Shorty, tu sei un grande!”. Da quel momento, oltre che una collaborazione artistica, è nata una bella amicizia. Lui è una persona di un’umiltà disarmante, una mente incredibile, per cui è veramente bello lavorare con lui. Ti lascia libero di essere te stesso, non impone la sua personalità. Non c’è ego in quello che fa, c’è solamente musica. È un’anima messa al servizio della musica.
Quella di Tormento, invece, è un’altra storia pazzesca: io avevo 17 anni, avevo appena scritto un disco che si chiama “Piccolo” con il nome di SHORTY e Tormento l’aveva sentito per caso in rete. Un giorno andai a vedere il programma di MTV “Trl” sulla spiaggia di Mondello, dove tra gli ospiti c'era anche Tormento. Per puro caso mi vide e disse: “Ma tu sei Shorty! Io sono un tuo fan!”; lì sono morto. A 17 anni avevo l'estremo bisgno che qualcuno mi incoraggiasse, in una città chiusa come Palermo tutti mi prendevano in giro solo perché facevo rap. Il fatto che uno dei miei idoli mi avesse fatto un complimento, in quel momento, mi ha davvero cambiato la vita. Per quanto riguarda Jhonny Marsiglia, ci conosciamo da quando eravamo piccoli. Facevamo rap in crew avversarie, lui spaccava veramente. Poi con gli anni ci siamo resi conto che ci piacevano le stesse cose e siamo diventati grandi amici. Lui, ora come ora, è il mio rapper preferito in italia. Infine ci sono i Throwback, ai quali ho “fregato” tutta la sezione ritmica per la realizzazione di alcuni miei brani. 

Nella traccia di apertura dell’album, “Terra”, canti “Ogni volta che ritorno quasi non me ne andrei”. Ora, alla luce dei feedback che stai ricevendo, pensi sia arrivato il momento di rimanere in Italia?
Il “quasi non me ne andrei” è dato dal fatto che quando senti profumo di casa, ci resteresti. Putroppo, il problema del restare a casa, dalle mie parti, è dato dal fatto che vi sono dei problemi gestionali profondi nella società. Ora come ora, non riesco a vedere la mia vità in italia, o quanto meno in Sicilia. Sono fieramente siciliano e con la mia fierezza sono anche consapevole dei limiti del vivere in una terra come quella. Sicuramente tornerei a Palermo per fare un disco, ma non per viverci, non in questo momento. Sarebbe un tornare indietro piuttosto che un andare avanti. Però non si sa mai, vedremo dove mi porterà la carriera e la vita. 

In conclusione, considerando la tua esperienza, cosa consiglieresti ai giovani che vogliono intraprendere la carriera del cantante?
Innanzitutto, studiate e rispettate la musica. Dovete sapere perchè fate musica. Quello che fai non è così importante come il motivo per cui lo fai. Io faccio musica perchè altrimenti non vivrei, sarei triste. Ricordate poi che la musica non deve mai essere un motivo per mettersi al centro dell’attenzione, un momento per farsi vedere. Circondatevi di belle persone, non siate mai invidiosi, ‘ché l’invidia fa guardare agli altri senza far mai pensare a sé stessi. Andate oltre i vostri limiti, superatevi.

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L'articolo Davide Shorty - Tutti stranieri: perché l'Italia non è un buon posto per fare musica di Davide Lotto è apparso su Rockit.it il 2017-05-26 01:00:00

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