I Deaf Kaki Chumpy sono diciotto musicisti uniti da influenze funk, R’n’B, latin, elettroniche, progressive; un eclettico organico di pelli, ottoni, legni, voci, corde, organi e synth a raccontare storie affascinanti in musica. Abbiamo incontrato a Milano, in occasione dell’uscita dell’EP “Stories”, Alberto Mancini e Andrea Daolio, rispettivamente tastierista e bassista del gruppo, con cui abbiamo parlato della storia del collettivo, delle rispettive influenze musicali, di letteratura e dell’arte di fare musica esplorando sempre nuove possibilità. Un manipolo di outsider pronti a condurci dove non avremmo immaginato.
Il nome dell’ensemble mi ha sin da subito incuriosito…
Il nome del gruppo riflette l’esuberanza, la stranezza, la varietà dei musicisti che lo compongono. Potrebbe far pensare a un difetto fisico, a un frutto, al nome di un ex presidente italiano, ma è solo un gioco di parole che non ha un vero significato.
Il gruppo è composto da diciotto elementi, dunque un buon numero di musicisti, uniti in un progetto musicale innovativo e trasversale che spazia dal funk all’R‘n‘B, dall’elettronica al progressive, fino al pop. Come è nata la vostra collaborazione?
Siamo nati all’interno dei Civici Corsi di Jazz di Milano inizialmente come trio, e a un certo punto Andrea (il bassista, ndr) ha proposto di ampliare la formazione, così da avere più colori a disposizione. Il risultato è stato quello di aggiungere una sezione di fiati, due batterie, una chitarra, delle percussioni, tastiere e cinque cantanti. In questo modo creiamo delle narrazioni melodiche piene di sfumature, come la natura della musica che ci circonda. Questo gruppo ci permette di assorbire tutto quello che musicalmente ci attrae, per poi utilizzarlo nei nostri racconti.
Suppongo che il background musicale di ognuno di voi sia differente e variegato, o provenite tutti dagli stessi retroterra musicali? Come riuscite a far convergere gusti diversi in un’unica intenzione?
Il percorso di studi che abbiamo seguito è comune, provenendo dai medesimi studi musicali. Tutti abbiamo studiato jazz, ma ognuno di noi ha delle passioni veramente diverse l’una dall’altra. Il nostro batterista è un amante del free, una delle nostre cantanti adora il soul, a molti di noi piace l’elettronica, il percussionista predilige l’afro, il tastierista è una bomba nel ragtime, il sassofonista tenore è un re del rockabilly. La matrice comune è il jazz ma i gusti sono diversissimi. Inoltre, la nostra musica non è totalmente scritta, come la classica, né è studiata a tavolino, incasellata, come la musica pop. È una musica di stampo afroamericano, ed è scritta specificamente per i musicisti che sono nella formazione. Questo, secondo me (Alberto, ndr), la fa rientrare nel grande calderone del jazz di oggi. I brani vengono spesso scritti da una sola persona, ma lasciando grande libertà ai musicisti di interpretare ciò che è scritto. Lavoriamo insieme e, in studio, ognuno è libero di dire la propria e di cambiare l’arrangiamento, anche radicalmente. La nostra musica vive sul momento: modifichiamo spesso i brani in corsa, anche tra un live e l’altro, o nel momento preciso dell’esibizione dal vivo. Ci piace sperimentare, dar nuova forma alle nostre idee, senza mai tradire l’intenzione di partenza.
Il vostro EP, uscito alla fine di settembre, si chiama “Stories”. Che tipo di “storie” contiene questo album?
Il filo rosso che lega tutte le storie dell’album è il concetto di resilienza. Qualsiasi cosa succeda, soprattutto quando ci ferisce o ci rattrista, occorre sempre trovare la forza di reagire. Ogni storia che raccontiamo contiene pensieri e punti di vista differenti; alcune le definiremmo narrative, altre più psicologiche, altre ancora di matrice politico-sociale. A questo proposito, la traccia che apre il disco, “Turn on the light”, è dedicata al centro sociale Lume di Milano a cui siamo molto legati e di cui supportiamo con convinzione le iniziative. Ebbene, il pezzo è stato scritto a ricordo di quando, diverso tempo fa, venne sgomberato. Così ci è venuta l’idea di tirar dentro alla canzone alcuni ragazzi del centro: un rapper, un’attrice di Lume Teatro, e proprio in questi giorni stiamo ragionando anche sul video che li vedrà protagonisti.
La letteratura è presente nell’album: mi riferisco a nomi che danno il titolo a diverse tracce (“Haydée” e “Dantés”), e che appartengono ad alcuni personaggi de “Il Conte di Montecristo”, giusto?
Giustissimo. Haydée è un personaggio minore de “Il conte di Montecristo” che mi ha affascinato. Lei è una una principessa araba il cui padre, quando era piccola, viene tradito da un ufficiale francese. Haydée perde così la famiglia e il regno. È costretta a una vita di prigionia e schiavitù fino a quando il Conte di Montecristo non la fa sua ancella. Haydée vive serbando un dolore indicibile, ma non prova rancore o spirito di vendetta. È una donna schiva ma piena di speranza, guarda al futuro con incanto, nonostante il lutto e i patimenti subiti. In un passaggio del romanzo lei racconta la sua storia, parlando di un tempo lontano in cui era felice e di quanto le bruci nell’anima una perenne malinconia. La composizione del brano musicale contenuto nell’album, che trae spunto da questo episodio, si sviluppa su due binari paralleli: quello che Haydée dice realmente attraverso le pagine del libro e quello che io (Alberto, ndr) ho immaginato provasse dentro di sé. Una grande calma mista a rabbia, rancore, vendetta ma anche gioia e gratitudine per essere sopravvissuta alla tragedia della sua famiglia. Il brano “I Santi”, ultima sezione della composizione, è una specie di commento dell’intera storia del romanzo; una storia incredibile, in cui ognuno persegue i propri interessi, necessità e passioni, e dove il tempo e i punti di vista fanno sì che le differenze tra giusto e sbagliato si facciano indistinguibili. “I Santi” simboleggia il fatto che giudicare le azioni terrene non è cosa che spetta agli uomini, ma forse a qualcosa di più alto, ai Santi, per l’appunto.
Dentro al vostro lavoro ho sentito il jazz dei Manhattan Transfer, tanto funk e pure l’hip hop. Quale musica vi ispira, quali musicisti ascoltate?
I Manhattan Transfer sono mostri sacri ma non rientrano nei gruppi che ci hanno maggiormente formato. Io (Andrea, ndr) sono stato largamente influenzato dal progressive rock degli anni ’70: gli Area, e soprattutto Frank Zappa. Un genio. Mi piace moltissimo la black music degli Incognito, gli Hiatus Kaiyote, i Radiohead, Steven Wilson. Per me (Alberto, ndr) invece, gli Snarky Puppy sono stati una folgorazione, quando ho iniziato a pensare alla musica da scrivere per questo gruppo. Fighissimi. Ma mi appassiona anche la musica classica del Novecento, l’R'n'B, certa musica elettronica, il jazz degli anni zero.
Deaf Kaki Chumpy "Stories" (cover)
Avete già sperimentato il disco in un contesto dal vivo? Che effetto ha sul pubblico?
Abbiamo suonato recentemente al Santeria Social Club di Milano e il concerto è stato una bomba. C’era tantissima gente ad ascoltarci e abbiamo avuto un ottimo feedback. Noi eravamo carichi e il pubblico ballava e si divertiva. Ci piace che le persone si sentano coinvolte e per noi è importante che la nostra musica possa essere apprezzata sia da un ascoltatore più acuto, colto, ma anche da coloro che vengono al concerto per godersi la musica senza particolari pretese musicali. Dal vivo ci siamo resi conto che riusciamo ad arrivare a tantissime persone e questo ci rende contenti.
Vi sentite più un gruppo da studio o una formazione live?
Una formazione live, di sicuro. Molti ci dicono che il disco funziona ma che suonato dal vivo spacca. Nel disco non c’è l’immediatezza del suono, manca il contatto col pubblico che cattura la nostra energia e la passione del live. Siamo diciotto elementi e dal vivo diventiamo un’unica anima. Non scambieremmo mai un palco con uno studio di registrazione.
C’è qualche luogo musicale che non avete sperimentato e che vi piacerebbe esplorare?
Stiamo pianificando un concerto circolare in cui il pubblico è al centro e i musicisti sono disposti in tondo. Abbiamo trovato il posto dove farlo, occorre solo pensare al momento più giusto.
Qual è la canzone centrale del disco, ammesso che ce ne sia una, e perché?
Non c’è una canzone a rappresentare il disco, una più significativa di altre. Ci piace moltissimo il brano “Shake it up”. Subito la cassa in quattro ci introduce nel cuore della canzone, un pezzo dance il cui titolo è emblematico. “Datti una mossa, svegliati, scuotiti” non si riferisce solo al fatto di ballare, ma anche all’invito a uscire dalla noia, a vivere in maniera attiva, consapevole. In effetti racconta una storia che potrebbe essere quella di chiunque, e corre su due binari paralleli rappresentati dalle due voci che cantano. Viene descritta l’esistenza di una ragazza che non trova stimolo nella vita, immersa com’è nell’apatia. Una voce racconta questa storia, l’altra invece, nel bridge del pezzo, sembra essere la stessa ragazza che si sveglia da un lungo letargo e reagisce finalmente all’indolenza. Nella conclusione, bellissimo è il coro a più voci che invita a spiccare il volo, a tornare nuovamente a vivere.
La vostra musica è ostica, impervia, non immediata, mi verrebbe da dire non per l’ascoltatore di facile e veloce consumo: dunque verso chi la pensate rivolta?
Trovi? La nostra musica è scritta per quelle persone che non si sentono totalmente rappresentate dalla musica che è diffusa oggi. Parliamo del pop ma anche dell’indie, della trap, o del jazz. La musica ha milioni di colori diversi e vogliamo dimostrare cosa si può raccontare con questi colori, far vedere alla gente che un’altra musica, più variegata, complessa, narrativa, è possibile ed esiste. Comunque, l’ideale per noi è di confezionare dei brani che abbiano una loro coerenza, che seguano le nostre passioni, che raccontino una storia ben precisa e siano orecchiabili. Di fondo amiamo la semplicità, e le nostre composizioni sono dirette e schiette. Non ci crederai, ma il nostro pubblico nei live è piuttosto variegato e caciarone, non così intellettualoide, sai.
Domanda di rito: progetti per il futuro?
Dovremmo fare dei video, stiamo pensando a delle collaborazioni con alcuni rapper, al concerto circolare di cui ti parlavamo prima, alle esibizioni live a febbraio e al tour estivo. Ora ci godiamo l’uscita del disco, e speriamo di incontrarvi ai nostri prossimi concerti!
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L'articolo Diciotto elementi, milioni di colori, un'unica anima: intervista ai Deaf Kaki Chumpy di Libera Capozucca è apparso su Rockit.it il 2018-11-26 10:10:00
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