“Negli anni ottanta l’inverno era ovunque, bastava desiderarlo” diceva Aldo Nove, e i Decibel, il gruppo formato da Enrico Ruggeri adolescente insieme agli amici Silvio Capeccia e Fulvio Muzio quel gelo se l’erano cercato fin dagli anni ’70, nelle cantine delle prime prove. Quelle prove dove suonavano piccoli esistenzialisti arrabbiati, destinati a passare alla storia in camicia bianca e cravattina nera. Erano piccoli perché una volta si diventava adulti prima, ma non così tanto prima, ma anche allora prima di diventare adulti a qualcosa si doveva ribellare: quindi i Decibel sarebbero stati punk.
Il primo album targato Decibel infatti arriva nel 1978, esce che Enrico Ruggeri ha neanche 20 anni, i compagni di avventura uno di più e ufficialmente non ha titolo: la cover, firmata da Mario Convertino - artista enorme, che meriterebbe una dissertazione a parte: e che in quegli anni firmerà anche le grafiche di Mr. Fantasy - è un pugno nero borchiato che sfonda un vetro, mentre le schegge esplodono in ogni direzione.
Nella miriade di frantumi un collage di ritagli, dove c’è tutto e il contrario di tutto, la svastica e la falce e il martello, la bandiera americana e il simbolo della pace, i Beatles e una silhouette di Bob Dylan, Rolling Stones, e in alto a sinistra il logo della band, un beffardo cazzone stilizzato col loro nome sopra. Passato alla storia con il titolo "Punk", è considerato un disco influente negli annali del genere in Italia, però sembra più una tappa per i Decibel, dà l’idea di essere stato un passo fatto ingenuamente, senza pensarci troppo. A quello dopo di album invece i Decibel un po’ ci penseranno, ma lo faranno come possono farlo dei ventenni milanesi usciti dal Liceo Berchet meno di tre anni prima; un po’ di più, ma nemmeno troppo.
Nel giro di un anno e mezzo dal 1978 infatti cambiano stile e virano dal punk alla new wave e nel giugno del 1980 pubblicano la loro pietra miliare, "Vivo da re". È ancora oggi un album strepitoso: prodotto da Shel Shapiro, uscito per la Spaghetti Records, vende discretamente - Ruggeri parlerà di 30-40mila copie - contiene gemme come la title track, "Pernod", "Contessa" e tutto il senso di inadeguatezza di un Enrico Ruggeri mai più così in down - se non negli esordi da solista in "Polvere" (1983) e "Presente" (1984) - mai più così disperato, splenico, un Ruggeri che vive male ed è sempre ferito da qualcosa, soprattutto dall’amore.
Parte delle tracce sono infatti ispirate da delusioni sentimentali di Ruggeri, nel disco si legge nei crediti un “Peggio per Ilaria”, da linkare all’incazzatissima e rancorosa "Peggio per te". L’album parla di amori finiti male, di alienazione da supermercato - "Supermarket" - di malesseri post-adolescenziali assortiti, e va bene così. Rouge firma tutti i testi di "Vivo da re" - tranne la cover "Ho in mente te", di Mogol - ed è nato nel 1957: all’epoca in cui scrive di uno struggimento identico nel 1880 come nel 1980 o nel 2017 ha 21, forse 22 anni. L’età migliore di tutte per farlo. I suoi compagni Muzio e Capeccia hanno un anno in più ma gli stanno dietro, a loro forse mancano le parole così ci mettono la musica: come per esempio in "Contessa", scritta da Fulvio Muzio.
È un grande inizio l’album "Vivo da re", coronato da una partecipazione a Sanremo di cui si trova traccia su YouTube, proprio con "Contessa": lì i Decibel sono degli alieni. Camicia bianca, cravatta nera, occhiali Lozza, arriveranno in finale. Resteranno nella memoria collettiva, diffonderanno la voce che la canzone sia dedicata a Renato Zero - non era vero, oggi definiremmo la cosa come “pr spin” - e soprattutto diventeranno famosi, ma non per il pubblico che vorrebbero.
Il mondo underground che amavano e da cui venivano infatti dopo Sanremo ’80 li rinnega, mentre le ragazzine li adorano. A completare il quadro dissidi interni all’etichetta porteranno i Decibel alla scissione: da una parte Ruggeri, dall’altra Capeccia e Muzio, che mantengono il nome Decibel e pubblicano nel 1982 "Novecento" - disco gelido che sembra registrato a Vienna, ma esce dagli Stone Castle Studios di Carimate, Varese - mantengono amicizia e contatti, e nel 1998 pubblicano l’album ambient - new age "Desaparecida".
Fino a oggi il silenzio, qualche sporadica reunion del trio al completo, fino a oggi: a Noblesse Oblige.
Nel 1977 è morto Elvis Presley, è finito Carosello, e c’è stato anche il primo episodio di Guerre Stellari al cinema: e avete cominciato a suonare insieme
Enrico Ruggeri: E ci sono stati i Sex Pistols. Io parto subito a schiaffo con i Sex Pistols, quindi con il punk. Che fu importantissimo per una serie di musicisti della nostra generazione, perché noi suonavamo già, ma in qualche modo avevi questa sensazione di inarrivabilità. Suonavi però sentivi gli Yes, sentivi Emerson Lake & Palmer, sentivi i Jethro Tull, in qualche modo c’era un po’ di frustrazione nel dire “Non ce la farò mai a suonare mai come questi, eppure avrei tante cose da dire”. Poi è arrivato il punk, e dei ragazzi che suonavano peggio di noi. Che però avevano un sacco di cose da dire: rabbia, riconoscibilità, identità di suono, per motivi che non ti so spiegare i Sex Pistols capisci subito che sono i Sex Pistols, appena partono. In qualche modo è stata una sferzata clamorosa per tutti. Ricordiamoci poi che dal punk sono nati musicisti completamente lontani da quel genere, Elvis Costello, Joe Jackson, i Television.
Il punk dava la possibilità anche a chi non sapeva suonare di esprimersi: voi però sapevate suonare.
ER: Loro due più di me. Io avevo la madre pianista, ma non sono mai riuscito a dedicarmi.
Fulvio Muzio: Enrico era più bravo in italiano…
Silvio Capeccia: Io mi occupo anche oggi delle tastiere, ma non uscivo dal Conservatorio, anche perché a 14 anni noi già suonavamo in giro, nelle scuole, io avevo scelto quella direzione lì. Al primissimo concerto che ho fatto nel 1974, a 16 anni, avevo suonato Re-Make / Re-Model dei Roxy Music…
ER: Dipende molto il “come” suonavamo. Per fortuna non esistono prove…
FM: Noi alla fine siamo cresciuti con il progressive, per cui comunque qualcosina dovevi saper fare…
SC: Sempre in quel concerto, dato che nella band avevamo due o tre elementi che amavano il prog, facevamo dei pezzi dei Gentle Giant.
ER: Io all’epoca cantavo e suonavo il basso, se Dio vuole non esistono registrazioni: cantavo e suonavo nei pezzi dei Genesis…
David Bowie, John Cale, Lou Reed, Talking Heads, Roxy Music, Sparks, Sex Pistols, Stranglers Clash, Devo, Nico, Mink DeVille, New York Dolls, Who, Iggy Pop, Ramones. È il vostro pantheon, che avete inserito nel primo singolo di Noblesse Oblige, My My Generation. Sono tutti artisti di almeno quarant’anni fa: a costruirlo adesso quel pantheon?
ER: Credo che siamo le persone meno adatte a rispondere. Non per snobismo, io se voglio sentire della musica ho talmente tante cose belle da sentire a casa. E non è che siano tante, saranno 1000 album, non 100.000, o forse meno. Saranno 600/700, però dimmi un genere: mi piace il rock duro? Deep Purple, Black Sabbath. Oggi mi sento fricchettone? Crosby Stills Nash & Young. Voglio cose complicate? Frank Zappa, e così via.
SC: Saremmo ridicoli a occhieggiare a quello che si suona adesso, prima di tutto non sapremmo realizzarlo, ma poi non ci piace, perché? (ride)
Passo indietro: la musica dove andavate a prenderla nella Milano di fine anni settanta?
ER: Quando potevamo a Londra, alla fonte. Poi sui giornali: c’era Ciao2001, giornalisti e critici musicali come Enzo Caffarelli o Manuel Insolera. Cafferelli era più sul prog. Tutte le volte che compravo dei dischi, li compravo solo perché ne aveva parlato bene Manuel Insolera. Erano gli Sparks, erano i Roxy Music, i Cockney Rebel, i Mott The Hoople, David Bowie, tutta questa gente. Quello era un Vangelo. E poi a Milano c’erano due o tre negozi di importazione, sennò i dischi andavi a comprarteli in Inghilterra.
SC: Non avere internet paradossalmente per noi è stato un bel vantaggio: noi arrivavamo in Italia da Londra con la camicia bianca e la cravatta nera, con l’occhiale bianco, quando qui c’erano i gruppi con le camicie a sbuffo e i capelli a boccoli.
Lo shock estetico di Sanremo nel 1980, quando avete portato in gara Contessa, era particolarmente evidente.
ER: Eravamo alieni. Ha ragione Silvio, il vantaggio era che non c’era internet, oggi se un neozelandese si veste in un modo strano lo sai cinque minuti dopo. Noi eravamo dei marziani per questo motivo, perché Londra all’epoca era veramente lontana da Milano.
A proposito di Milano: siete sempre molto legati a Porta Romana: in che vie siete cresciuti?
FM: Io in corso di Porta Vigentina.
ER: In via Muratori.
SC: Io più periferia, verso piazzale Corvetto.
Che cosa aveva in più la Milano di allora rispetto a quella di oggi?
FM: In più non saprei: era molto diversa, un mondo più provinciale. Anche se era la meno provinciale di tutti i capoluoghi italiani alla sera non trovavi niente aperto, anzi, magari correvi anche qualche rischio ad avventurarti in quartieri che oggi invece sono diventati tranquilli.
ER: Era più violenta.
SC: Una violenza concentrata nei sabati pomeriggio, era quasi strano se non c’era il morto.
Erano anni di pesante contrapposizione ideologica: penso a quell’articolo del 7 ottobre 1977 che avete condiviso su Facebook, delirante
ER: Era assurdo. Fantascienza. I punk non si sapeva cosa fossero, tieni conto che tre anni prima era stato interrotto a sassate il concerto di Lou Reed al Lido, dando a Lou Reed del fascista, lui ebreo tra l’altro, perché si vestiva di nero e aveva i capelli corti. Io e Fulvio eravamo in classe insieme al liceo, ma la nostra amicizia ha assunto i connotati del patto di sangue quando ci siamo detti sottovoce “Ma anche a te gli Inti Illimani fanno cagare?”. Era una frase che detta ad alta voce ci avrebbe fatto rischiare la vita: in questo scenario, quando arrivano i punk, col giubbotto nero, vestiti di nero, che non fanno politica, sembravano di destra. Solo un anno dopo era chiaro a tutti che erano dei proletari arrabbiati.
SC: Il fare musica ci ha tenuto al di fuori di quella che era la dicotomia di quel periodo, o sei di destra o sei di sinistra.
ER: Esatto: che scarpe hai, se hai quello, se hai i Ray-Ban, se hai l’eskimo…
Contro cosa vale la pena ribellarsi oggi?
ER: Contro il luogo comune, contro una società fondata sui luoghi comuni, e quindi è anche facile e divertente, scardini veramente tutto. Oggi è tutto incelophanato, è tutto in punta di piedi, tutti che si offendono, tutti che hanno paura di dire qualcosa di scorretto. Anche allora era un po’ così, però oggi è tutto ingessatissimo.
Che cosa vorreste far vivere dei vostri vent’anni ai ventenni di oggi?
ER: Ai musicisti il concetto di band. Io cantavo, suonavo - e suonavo male - però ero uno che voleva cantare e scrivere canzoni, teoricamente avrei dovuto essere un cantautore. Ma nessuno della mia generazione quando amava la musica pensava a cantare da solo, tu amavi la musica e cercavi in giro qualcuno che suonasse con te, quindi per il piacere di trovarsi a suonare. Io oggi riceverò 10/15 proposte al giorno, provini, gente che mi scrive, che mi manda i file, mi dà il disco. Sono tutti solisti, tutta gente che con 1000 euro si è fatta il micro studio in casa e invece di spendere i soldi per il Gratta & Vinci, tenta questa cosa qua.
SC: I gruppi si scioglievano in continuazione, oppure si sparpagliavano, perché magari uno voleva il batterista che suonasse come Dinky Diamond degli Sparks…
Con i batteristi avete avuto sempre un rapporto difficile: uno l’avete mollato in autostrada.
ER: È vero, è sempre stato un nostro cruccio il batterista.
Artisticamente in quel periodo eravate soli - a parte Faust’O e forse Alberto Camerini - c’era pochissimo di simile a voi. Come facevate a sapere di essere nel giusto?
FM: Una sintonia con quel tipo di musica. Quello che ha fatto un po’ la nostra forza era che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, ma fin da ragazzini, fin da quindicenni.
Enrico in un’intervista a proposito di altri artisti della Milano dei tempi - penso a Faust’O - ha detto che in alcuni casi la follia è stata superiore alla voglia di programmarsi. Voi invece vi siete programmati bene, anche al di là della carriera che ha avuto Enrico. È questo che non vi ha tenuto insieme?
ER: Non lo so, certo nella vita un minimo di organizzazione mentale, ahimé, è necessaria. È chiaro che nel mercato americano se sei un matto che fa qualsiasi cosa - però hai cinque manager e quattro tour manager - anche se sei un disadattato qualcuno che ti mette sul palco e ti fa scendere e ti infila in una camera iperbarica lo trovi. Mentre in Italia le responsabilità te le devi prendere da solo, qui è diverso.
SC: Hai fatto un nome, Faust’O: grande lui.
Tra i pochi che c’erano nel vostro “campo” Faust’O.
ER: Noi abbiamo un’autostima quasi sconfinata, ma se devo dirti un competitor che guardavamo da pari: era Faust’O. Era proprio bravo.
SC: Era proprio nella nostra stessa fascia, un po’ un Bowie milanese.
In quel periodo eravate diventati famosi, ma non presso chi volevate essere famosi: piacevate alle ragazzine, invece che ai punk?
ER: Fu uno dei motivi della destabilizzazione. Se ti piacciono i New York Dolls e mentre suoni ti tirano un peluche rosa, da qualche parte hai sbagliato. Avevamo anche dei promoter disastrosi, le interviste nel 1980 erano su Ragazza In, mentre noi volevamo le fanzine. Poi suonavamo al pomeriggio invece che di sera.
SC: Avevamo anche 19, 20 anni: trovati improvvisamente in un successo come quello che può avere oggi ragazzo che si trova ad Amici in finale.
Esatto, a proposito di Amici e talent…
ER: Cazzo, adesso ci chiede dei talent.
In realtà volevo chiedervi della gavetta. Voi vi siete fatti una gavetta di Cantagiro, di giri d’Italia, di impresari cialtroni.
SC: Suonavamo veramente gratis. Ma molto gratis!
Adesso sembra che invece sia tutto magico, è una lotteria.
SC: Per tre mesi sei Dio, poi vai all’inferno.
Invece dei Decibel siamo qui a parlarne 40 anni dopo.
ER: È cambiato tutto. Il problema è che le case discografiche, per i noti motivi, non hanno soldi da investire. Una volta firmavi contratti per cinque album, e te li facevano fare. Io quando sono rimasto solo ho fatto il primo disco che non ha venduto niente, e i discografici mi tranquillizzavano. Mi dicevano: “Stai tranquillo, insistiamo, sta andando bene, gradino per gradino” oggi se il primo singolo non va in radio, il cantante cambia mestiere. Per cui è chiaro che se tu vuoi durare quarant’anni devi partire non facendo la cosa di moda. Chiunque ti venga in mente, da Battiato a Lucio Dalla, o Paolo Conte, sono persone che non hanno sfondato al primo singolo. Oggi se sei obbligato a sfondare al primo singolo devi fare una cosa di moda, non puoi precorrere i tempi.
FM: C’è anche una questione di spessore. Il talent ti promuove se hai una bella voce, è un po’ diverso da guadagnarti il successo perché magari sai comunicare qualcosa, un’emozione un po’ più profonda di quella di una voce, o di rifare un pezzo di un altro, cantandolo bene o benissimo.
In sintesi: i talent sono belle voci, ma poche idee?
FM: Belle voci, ma zero idee, non poche. Chi ha lasciato un segno?
ER: Ligabue avrebbe vinto un talent? Paolo Conte? Fossati? Jannacci? Gaber?
Cacciati via, figuriamoci.
ER: È evidente che c’è un vizio di fondo: la casa discografica non ha il denaro per investire sul Fabrizio De André del 2020. Perché da qualche parte c’è, non è che sono tutti diventati scadenti: è che il Fabrizio De André del 2020 ha già cambiato mestiere.
Com’è andata ritrovarsi oggi?
ER: Succede questo nella vita dei cantanti. Fai il primo disco facendo delle musiche che non sai neanche se qualcuno ascolterà. Non sai se qualcuno ti pubblicherà, quindi per quanto tu possa essere a posto con la tua coscienza, dal secondo disco in avanti è una cosa diversa, scrivi delle canzoni che sai che verranno pubblicate. In questo caso siamo tornati al primo disco, perché noi abbiamo iniziato questo disco dicendo “Facciamo dei pezzi”, poi magari facciamo un album che regaliamo agli amici, oppure facciamo un concerto a una festa di compleanno e invitiamo 30 persone. Quindi abbiamo iniziato a lavorare su canzoni che non sapevamo neanche se sarebbero state pubblicate, dopodiché il secondo passo è stato questo: ho un amico fraterno, che per sua fortuna è presidente della Sony, e si chiama Andrea Rosi, che però conosco dall’82, mi accompagnava in macchina a fare le radio. Gli ho fatto sentire tre pezzi, tre provini, non eravamo ancora arrivati qui in studio, gli ho detto, “Guarda, è roba di nicchia…” e lui al terzo pezzo “Nicchia un cazzo”. Nel frattempo le canzoni arrivavano, e siamo venuti qui a suonare, e piano piano attorno a noi cresceva questa cosa. Un amico mi ha detto che c’era la base per fare dei concerti, e fuori da questa stanza le cose crescevano, qua dentro noi facevamo musica, avevamo due amici, un bassista e un batterista e un fonico, e suonavamo, fine. Non c’era “la produzione”, il groove di batteria, i pad, le tastiere virtuali, quell’atmosfera da veglia funebre, ansiogena, che si respira nei dischi che fanno gli altri. Piano piano ci siamo accorti che c’era un’identità di suono ben superiore a quella che senti se accendi la radio.
I testi sono un bel flashback, se uno conosce il vostro passato
ER: I testi che ho scritto per i Decibel e per "Noblesse Oblige" sono molto più vicini ai Decibel di quanto non lo siano i pezzi di Ruggeri. Sono molto contento di questo. Il primo pericolo era che questo fosse per la gente un disco di Ruggeri mascherato, la differenza che c’è tra un’idea e una trovata. Questa è un’idea; l’altra sarebbe potuta essere una trovata.
Fin dagli esordi avete cercato di usare i media, invece di esserne usati, dal falso concerto punk organizzato per vedere scontarsi frange estreme dei movimenti, alla profezia che si auto-adempie di "Mistero" vincitrice a Sanremo.
ER: Anche l’attribuzione di "Contessa" come dedicata a Renato Zero, era fasulla totalmente, ma non abbiamo fatto niente per smentirla. In Inghilterra i Sex Pistols andavano a insultare Bill Grundy in trasmissione, era quella la trasgressione. In Italia il potere era diverso, qui il potere contro cui battersi era l’omologazione: per cui la sinistra, e la destra, e le scarpe a punta, e l’eskimo, queste cose qui. Fare il finto concerto punk andava a colpire quel potere lì, che era il vero potere che c’era in Italia in quel momento.
SC: Oppure c’era il potere dei cantanti: Renato Zero. Ci scrivevano i sorcini, lettere infuocate.
I social media si possono usare come i media tradizionali?
ER: Ci sono vari aspetti. Oggi il giornalista scrive l’articolo, poi mette su Twitter, o su Facebook, “Guardate che c’è il mio articolo”. Anch’io metto su Twitter “Domani siamo al concerto…”. Però il rischio che corri come giornalista è che “Fragolina2002” ascolti un disco e dia un parere che potenzialmente è attendibile quanto il tuo, o come quello di Massimo Bernardini che ha 60 anni e legge la musica a prima vista. Quello è il primo problema. Il secondo, però è un vantaggio, è il controllo. Se adesso scrivono che io ho un rapporto sessuale con Silvio Capeccia, una volta dovevi chiamare la conferenza stampa e l’ANSA per smentire, oggi invece facciamo un post dove entrambi abbiamo due belle ragazze in braccio e diciamo che con tutto il bene che vogliamo al mondo gay, non siamo gay. Da un lato puoi rispondere prima a qualsiasi errore, puoi specificare, puoi mettere a fuoco, e dall’altro però è chiaro che vale tutto. Vale tutto.
Dovendo scegliere una canzone dei Decibel da salvare?
FM: Io dico "Contessa", e l’"Ultima Donna".
ER: Di questo album scelgo, ma proprio se me la fai tra cinque minuti questa domanda te ne dico un’altra, "Crudele Poesia", un pezzo un po’ alla Velvet Underground.
SC: Io direi "Fashion".
Per concludere, dobbiamo ristabilire la verità: com’è la storia della tastiera venduta e della canzone scritta per voi da Biagio Antonacci?
FM: Ah questa riguarda me e Fulvio! Io conservo l’originale battuto a macchina da Biagio!
SC: Ai tempi, metà anni '80, pensavamo ancora di suonare come Decibel, ma con un altro cantante. Ai tempi Biagio Antonacci non era ancora Biagio Antonacci, era la promessa di Biagio Antonacci, e l’avevo conosciuto perché la mia vita è passata da una vendita all’altra di tastiere. Un potenziale acquirente era questo ragazzo che faceva il capocantiere a Rozzano. Ci siamo conosciuti, lui mi aveva detto che cantava, per una settimana è venuto a cantare da noi, in una cantina che avevamo in via Larga, e ha anche scritto il testo di una canzone che non è mai stata pubblicata.
FM: Ci confidò però che non se la sentiva tanto di entrare in un gruppo, voleva più una carriera solista.
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L'articolo Decibel: i gentiluomini punk di Porta Romana di Gabriele Ferraresi è apparso su Rockit.it il 2017-03-13 12:58:00
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