L’incontro con gli altri è ciò che ci manca di più in questo periodo. Non a caso il musicista friulano Delmoro ha deciso di intitolare il suo ultimo disco Rendez-vous: un’esortazione alla socialità, un bisogno di riconnettersi col prossimo – e anche con se stessi, in realtà –, possibilmente sulla pista da ballo. Il tutto senza perdere una vena di malinconia che accentua quanto ancora siamo immersi in questa situazione all’apparenza senza fine e che mostra come anche la musica stessa di Delmoro sia un rendez-vous, un punto d’incontro tra l’elettronica da dancefloor e il cantautorato.
Rendez-vous, in 10 tracce dense e ricche di brezze mediterranee, ci porta in un’ideale estate che possiamo solo sognare, nel freddo di un inverno agli sgoccioli e tra quattro mura che ci comprimono sempre di più. È un disco da assembramento, un’esplosione di energia sedimentata nel corso dei mesi, a partire dal primo lockdown, e che emerge adesso in attesa di poterla sfogare in tutto il suo splendore il prima possibile. Senza perdere l’occasione di esporsi e di lanciare un messaggio di critica, all’interno della traccia Il cielo se ne frega: c’è un altro virus da combattere, "che non si trasmette al contatto, ma si trasmette dietro il profitto" e che sta distruggendo il nostro pianeta da ben prima della comparsa del covid.
Rendez-vous è un disco in cui si sente molto il peso della quarantena. Hai iniziato a scrivere col lockdown o è un album che parte da prima?
Non smetto quasi mai di scrivere, mi è difficile quando finisce un ciclo e ne inizia un altro. Man mano che continuo a scrivere ovviamente vivo, quindi questo flusso viene deviato. Mi sono trovato già all’inizio dell’anno scorso con del materiale, ma non tantissimo. Da lì ha preso una piega dettata dal lockdown, ma anche in senso contrario: è un disco ancora più energico anche come reazione negativa alla chiusura.
Perché pubblicare un disco che rivendica così tanta libertà adesso, quando ancora siamo molto condizionati dal covid? Tu come lo stai passando questo momento?
In questo momento sono in difficoltà, come tutti, anche se siamo diversificati in questa situazione comune. Per me la musica è andare verso qualcosa, quindi se mi sento dalla vita in una direzione, io istintivamente voglio andare dall’altra parte. Un po’ come gli scandinavi che si prendono bene per la italo disco. Io vengo dalle montagne del Friuli, fare musica per me è come avvicinarmi al mare. L’energia era improntata alla fisicità, perché mancava. Come non finisco mai di scrivere, come dicevo prima, non riesco a dare neanche un tempo giusto di uscita per un lavoro, fa parte di un grande processo. Ho seguito l’istinto.
Durante il primo lockdown eri da solo?
Il lockdown l’ho passato col produttore, Davide Cairo. Siamo molto amici, viverlo assieme è stato un passaggio intenso, in qualche modo abbiamo sublimato quello che stavamo vivendo in musica. Il disco è una testimonianza di vita che ho condiviso con un’altra persona che è a sua volta dentro al disco. Anche questo è un motivo che mi ha spinto a farlo uscire, rappresenta un passaggio importante.
Visto questo tema così presente nel disco, diresti che è un concept album?
Più che concept, segue un viaggio sonoro con dei temi ricorrenti: i miei scrittori preferiti rincorrono anche un solo un tema per tutta la vita. A me piace continuare a riflettere su certi temi, come la distanza relazionale, l’incomunicabilità, la sensazione di non andare mai a fondo nei rapporti con gli altri. Non la pongo come critica sociale, ma sono dei temi che anche nei lavori precedenti compaiono. Sono un po’ le mie ossessioni.
Hai anche creato la playlist Ritmo! Ritmo!, per accompagnare l’uscita del disco. Com’è nata?
Io mi faccio molte playlist a seconda di quello che sento, per me sono un retino acchiappamood che mi costruisco in testa, quando sento dei brani che accendono il radar del retino li metto dentro. Quella in particolare voleva essere come sottofondo agli afterparty dei miei concerti, è un calderone di ricerca che per forza di cose adesso non si suona, quindi ho voluto renderla una playlist così può fare il nostro djset in casa.
A proposito, sei riuscito a suonare dal vivo quest’estate?
Ho fatto due date: ho aperto il concerto di Diodato al No Borders Festival in Friuli e ho partecipato a una rassegna organizzata dal collettivo HMCF sui colli bolognesi. In entrambe le situazioni ho portato i miei brani in forma acustica, visto che si prestano, però non è la loro vera dimensione.
Tutte le tracce sono molto dense, gli intermezzi strumentali sono ridotti all’osso. Come mai?
Ero tentato di ampliare il discorso strumentale, dilatarlo con degli interventi che uno chiamerebbe riempitivi. Poi non l’ho voluto fare, ho deciso di mantenerlo denso perché sono appassionato della forma canzone, anche se non è detto che debba stare stretta: mantenere tutto al di sotto di una certa misura è un qualcosa che sento mio. Anche perché in realtà tendo a esagerare e a mettere troppi elementi insieme, quindi per la paura di essere troppo verboso finisco per essere troppo denso.
C’è più nostalgia o più ottimismo?
Io sono concentrato nel mettere dentro entrambi questi aspetti. Mi viene naturale inserire sia ottimismo che nostalgia, senza pensarci troppo: quando sto scrivendo e vedo che sto pendendo troppo verso una direzione, prendo il timone e raddrizzo la rotta. Non so dirti cosa emerga di più, lo lascio decidere all’ascoltatore.
Citi anche il regista Lanthimos nel brano omonimo. Che rapporto hai con i suoi film?
La citazione sua nella canzone voleva essere un gag. A me il suo cinema piace molto, come il cinema in generale in realtà, l’intenzione era proprio quella di creare un gancio reale con quel mondo. La mia canzone è molto più leggera dei suoi film, però penso che entrambi in comune l’ossessione per il nonsense di certi rapporti umani. Lui ovviamente li sviscera molto di più e molto meglio di me, ma mi piaceva accomunare la storia che racconto nella canzone a un tema che attraversa i suoi film. Funziona se conosci Lanthimos, se non hai mai visto niente pensi sia una citazione snob.
Tu hai studiato architettura e spesso le tue copertine riprendono questa passione. In Rendez-vous, invece, ci sei tu per tre volte in una spiaggia, senza costruzioni. Come mai?
La copertina è nata con la collaborazione di Rachel Bullock e anche lì ritorna l’allontanarmi da quello che ho fatto finora. Mi interessava andare verso uno spazio contrario che non avesse a che fare con l’architettura. Volevo accentuare il fatto che sia un rendez-vous con me stesso, perché riprende la condizione in cui ho scritto il disco, mentre lo scenario aperto è per immergermi nell’ambiente in cui avrei voluto essere in realtà. Sono le due facce che rientrano nell’album, la voglia di apertura e di guardare fuori e l’incapacità di farlo. È un triangolo con me stesso in cui non mi guardo mai, rappresenta come mi sono sentito negli ultimi mesi e come mi sento forse ancora adesso.
Nell’ultima traccia del disco, Casa nuova, dici che hai cambiato casa 20 volte. Cos’è casa per te?
Quel verso è vero e penso di non essere il solo della mia generazione. Ai nostri genitori penso non sia successo neanche la metà delle volte. Questa condizione influenza tanto il nostro senso di casa e spesso mi sono chiesto anch’io cosa fosse, al di là del luogo. Girando tanto, sposti l’attenzione sulle persone, le relazioni. Io non te lo so dire cos’è casa adesso, anche perché ho sviluppato un’ossessione per l’accumulo al contrario: tutti i bagagli che ti porti dietro iniziano a essere un peso quando ti sposti tanto, per un periodo non ho più comprato libri, come dico nella canzone. Forse i ricordi sono casa, il che non significa guardarli con nostalgia: se hai un buon ricordo di qualcosa, quello ti conforta, ti dà un’identità.
Ne Il cielo se ne frega parli della gestione del covid, in cui si percepiscono il tuo pensiero e la tua frustrazione. Perché hai voluto fare un brano così diretto?
Questa è la prima volta in cui mi esprimo su un tema così, di solito non faccio canzoni "politiche" esplicitamente, ho sempre evitato perché mi piace dare delle suggestioni più che delle risposte. Anzi, preferisco le domande alle risposte, il che è un po’ difficile oggi, perché per porre delle domande si presuppone che chi ascolta sia attento, a volte io stesso come ascoltatore non sono attento. Io ho vissuto intensamente quei momenti, poi li ho processati e mi sono trovato quasi a vomitare delle cose che poi ho lasciato lì per un po’, volevo capire se aveva ancora senso quello che avevo scritto dopo qualche mese. Alla fine mi sono convinto di quello che dicevo e vuole essere il punto di partenza per un dialogo, non è un tema che può esaurirsi in una canzone. È una sequenza di immagini che mi sono trovato a vivere e a vedere, soprattutto per quanto riguarda il passaggio del tempo.
E per te com’è passato? Io ho la percezione di un anno in cui non abbiamo vissuto.
In cui però abbiamo sofferto. Io sono stato più che privilegiato, guardando a chi ha pagato davvero questa situazione, però per esempio sono a Milano da due anni e metà della mia permanenza qua l’ho passata in casa. La vivo male perché non sono qua per stare chiuso dentro quattro mura, e se a tutti pesa stare in casa, lo è ancora di più per chi come me ha fatto delle scelte e dei sacrifici per seguire un percorso di vita. Non credo finirà entro breve, però the show must go on e per fortuna c’è ancora chi pubblica dischi.
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L'articolo Delmoro, ballare adesso per abbracciarci domani di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2021-02-22 15:30:00
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