D'amore, di paure e d'altre sciocchezze con Giuseppe Peveri in arte Dente

Dente è sempre Dente: lo stesso ciuffo, la stessa barba, lo stesso pessimismo ironico. E al contrario di quanto pensiate non rosica per niente e nessuno.

Eravamo preoccupati per Dente. Preoccupati perché gli vogliamo bene, lo sosteniamo da sempre e da troppo tempo non ascoltiamo qualcosa di nuovo, proprio in un momento in cui tutto è esploso e la musica italiana ha sommerso ogni cosa. Nomi vecchi e nomi nuovi, ma non Dente. Perchè nasconderlo? Eravamo preoccupati, poi abbiamo sentito il suo nuovo album, che è pronto per uscire, ma non si sa ancora quando uscirà. L’abbiamo sentito e ci siamo tranquillizzati. Allora abbiamo deciso di andare a trovarlo in studio (il Mono Studio di Matteo Cantaluppi, dove queste nuove canzoni sono state confezionate), per chiedergli come ha vissuto questi tre anni seguiti a un disco che non è andato bene e a un silenzio che nessuno si sarebbe aspettato. E Dente è sempre Dente: lo stesso ciuffo, la stessa barba, lo stesso pessimismo ironico. Ci ha parlato della profezia dei dieci anni, di come ha rivoluzionato il suo modo di scrivere e di tutte le paure che si porta dietro. Ma anche della gran voglia che ha di tornare a farsi sentire. 

La prima domanda è semplice. L’ultima volta che sei stato intervistato su Rockit stavi presentando “Canzoni per metà”: noi pensavamo fosse un album minore, tu eri convinto che fosse un album vero e proprio. Cosa è successo in questi anni?
È successo che ne ero convinto solo io (ride, NdR). È successo che quel disco là è stato un esperimento che ho voluto fare: ci tenevo a capire se un disco così strano potesse funzionare come un disco vero, anche perché per me era un disco vero. Probabilmente è uscito anche in un momento sbagliato, è stato trattato in modo non consono e ho anche fatto un tour completamente diverso da quel disco. Ho fatto un disco suonato tutto da solo con le canzoni strampalate, poi ho fatto un tour con una super band che suonava di brutto e con solo tre canzoni del disco in scaletta. C’è stata un po’ di confusione, anche per il pubblico.

E poi?
Poi nella mia testa avrei dovuto fare quel disco e subito dopo un altro più normale, però i tempi si sono allungati lievemente (ride, NdR). Si sono allungati perché c’è stata la possibilità di fare il tour con Guido Catalano - che mi sembrava una cosa bella da fare - e perché tutti mi hanno detto di non avere fretta di fare un disco nuovo solo perché quello prima non aveva avuto i risultati sperati. Io avevo molta foga di fare uscire qualcosa di nuovo e ce l’ho ancora: sono tre anni che ce l’ho, potete immaginare quanto la molla sia tirata. Alla fine però ho dilatato i tempi e sono contento di averlo fatto, perché ho capito meglio cosa ho intorno e perché ho scritto delle cose nuove che mi piacciono. Ci ho messo tanto tempo, finché non ho trovato una quadra di composizione, di produzione, di musicisti, di tutto. Ci ho messo due anni.

E adesso sei contento?
Per quanto io possa essere felice (ride, NdR), sì, sono molto contento di questo disco, è la prima volta che ascolto qualcosa di mio e mi dico che suona come un disco vero. Non mi era mai successo.

Però non si sa ancora quando escono queste canzoni?
Si sa ma non si sa, non c’è ancora una data precisa, in teoria dovrebbe uscire in autunno. Però visto che lo rimando da due anni non oso dire niente.

Prima di ascoltare il disco eravamo un po’ preoccupati: dopo questo salto di discontinuità che c’è stato nella musica italiana, c’è gente che sta raccogliendo forse più di quanto meriti, ma all’appello mancava Dente. E volevamo capire quale fosse il tuo stato d’animo…
…cioè quanto rosico?

No, non è rosicare, ma capire come ti sei sentito in questi anni. Immagino che per un musicista questo cambiamento sia stato qualcosa di profondo da vivere.
Io è dal 2007 che ho paura del 2017-2018. È da allora che profetizzo il cambio della guardia e ho sempre avuto paura di questa cosa. Quando ero ragazzino seguivo il Consorzio Produttori Indipendenti, i CSI, i Marlene Kuntz, Umberto Palazzo, gli Ustmamò e tutta questa gente qua… sono durati dieci anni. Ne sono rimasti in piedi un paio: qualcuno ha cambiato nome, qualcuno ha tirato dritto, la maggior parte è svanita nel nulla. Questo succede ogni tot ed essendo io un pessimista totale, quando ho iniziato pensavo: “Come sarà finire nel dimenticatoio tra dieci anni?”. Quindi ero abbastanza preparato, però è diverso essere preparati e vivere le cose. Quando ho fatto “Canzoni per metà” sapevo benissimo che stavo facendo una cosa molto rischiosa, perché non era nei gusti che erano nell’aria. L’ho fatto apposta: stavano andando tutti da una parte, io sono andato nelle direzione opposta. Saperlo e viverlo, però, è diverso e quando mi sono crollate delle cose intorno non è stato bellissimo e non è stato facile. Quando pensavo al tracollo dei dieci anni, mi sarebbe piaciuto essere tra quelli che restano e continuo a sperarlo. Non so se succederà, non lo sappiamo oggi e nemmeno l’anno prossimo.

Ma non è nemmeno un pensiero da fare.
Eh, dipende come prendi la vita. Per come sono fatto io, puoi immaginare come l’ho vissuta, tra l’altro con tutte le persone intorno che mi dicevano: “Sono tutti figli tuoi, se non ci fossi stato tu, oggi non esisterebbero”. Però a me non interessa far la parte del padre o di quello che ha acceso una miccia e poi è sparito. Mi piacerebbe continuare a fare quello che faccio e ci sto provando.

Questo però non ha inciso sulla scrittura: le canzoni nuove non sono corse dietro a mode o modi di scrivere di successo.
Io non ho mai guardato questa nuova generazione come si guarda un nemico, anche perché molte cose mi piacciono. Anzi, sicuramente gli ascolti che ho fatto di questa nuova generazione hanno influito sul modo di scrivere: se è vero che io ho influito su di loro, come dicono loro stessi, anche loro hanno influito su di me. Ci sono cose che mi piacciono molto e sento che ho scritto delle cose che senza quest’onda non avrei scritto così. Ho messo del mio per cambiare: di dieci canzoni che ci sono in questo disco, almeno sette le ho scritte al pianoforte, cosa che non avevo mai fatto. In questo disco non c’è la chitarra acustica, l’ho proprio tolta.

Quanto ha inciso avere una produzione più strutturata del solito al tuo fianco?
Avevo fatto due dischi con Tommaso Colliva (“Io tra di noi” e “Almanacco del giorno prima”) con un tipo di produzione però non così invasiva: Tommaso è stato molto importante per dare una linea di suono e arrangiamenti, soprattutto in “Io tra di noi” c’è tanto di lui, però io avevo le idee molto chiare. Ho sempre avuto questa presunzione di avere le idee molto chiare e l’ho avuta per tanto tempo. Il lavoro sul disco nuovo invece è maturato in questi anni di confusione mentale, in cui non sapevo cosa volessi o dovessi fare e ho delegato tanto. Mi sono detto: “Proviamo a togliermi e vediamo cosa succede: scrivo le canzoni e vediamo se trovo qualcuno che le veste bene”. Ho provato a vestirle io, ma l’ho fatto come le avrei sempre vestite: ho capito che ero arrivato al mio limite naturale di capacità tecniche per fare una produzione. Ho trovato finalmente qualcuno che le ha vestite bene, che è Federico Laini, il bassista dei Plastic Made Sofa, la band che mi ha accompagnato nell’ultimo tour. Da un po’ di tempo fa anche il produttore e in un momento di mio grande sbandamento mi ha chiesto di poter fare delle prove: mi è tornata indietro una cosa vestita bene, una canzone come io non l’avrei mai vestita, che però mi piaceva tanto. E quindi ho capito che c’era qualcosa che poteva funzionare molto bene: abbiamo lavorato insieme nel suo studio, abbiamo arrangiato i pezzi, fatto la pre-produzione e poi siamo venuti qui al Mono Studio con Matteo Cantaluppi e Ivan Rossi a registrare tutto e a farci dare delle dritte perché ci mancano alcune nozioni tecniche o anche di cazzimma per fare una cosa di un certo tipo.

E tutto questo si è tradotto in un modo diverso di scrivere?
Sì, perché c’è una scrittura diversa data dal modo di comporre, ma anche da quello che c’è nell’aria, ma questo credo sia normale, non vorrei rifare le cose che ho sempre fatto o ripetermi troppo. Con “Canzoni per metà” invece avevo fatto proprio il contrario, ho voluto riprendere il Dente degli inizi e rifare una cosa esattamente così, come se fosse suonata in cameretta. Una cosa che in quegli anni là funzionava: tra il 2004 e il 2006 la cosa della cameretta ha funzionato in modo naturale e io ci sono capitato in mezzo. Facevo le cose in cameretta e nel mondo piacevano quelle cose lì. Dieci anni dopo, piacciono le canzoni da cantare tutti insieme urlando e chi le ha fatte in quel momento lì è ok. Succede. Anche perché non è arrivata un’ondata di metal in dialetto e adesso all’improvviso tutti fanno i palazzetti e gli stadi con il metal in dialetto. Non è arrivata un’ondata barbara di cose orribili…

Tranne la tanto demonizzata trap…
Ma quello è un altro campionato, anzi è un altro sport. Io parlo di quello che vorrei giocare io. Anche se ci sono cose interessanti anche lì. Però ho 43 anni, molte cose della trap per natura non mi arrivano: si fermano a un metro di distanza, possono piacermi o no, ma non mi entrano dentro. Altre cose invece mi entrano anche dentro.

Dalla cameretta alle canzoni da urlare, sembra quasi che i musicisti subiscano quello che succede. Però siete voi artisti ad aiutare a far succedere le cose, no?
Non solo sai? Perché se ci sono 5 colori che vengono proposti nella musica, ma nell'aria ce n'è uno che funziona, allora sarà quello che andrà avanti. Se a tutti piace il blu e io faccio il rosso, quello che fa blu ovviamente avrà più ascolto. È un po' come la moda: c'è un qualcosa nell'aria e poi a un certo punto ti trovi vestito come tutti gli altri e dici: “Ma quando è successo che ci siamo vestiti tutti così?”, che quando guardi le foto di 10 anni fa dici: “Ma eravamo davvero davvero vestiti così? Sembrano passati 30 anni...”. Sono cose che succedono e che non ti accorgi neanche.

Secondo te questo “nell'aria” è qualcosa di imponderabile o è qualcosa che può essere controllato o indirizzato in qualche modo?
Secondo me no, non è controllabile. Io poi sono molto ingenuo su queste cose e sicuramente una qualsiasi agenzia di marketing farebbe partire le slide con le equazioni e le freccine e ti direbbe il contrario. Nella mia ingenuità penso che sono uscite delle cose che potevano rimanere dov'erano, come ne sono uscite altre che sono rimaste dov'erano e non so davvero perché. Non lo so cos'è che decide lo svilupparsi o il moltiplicarsi di una canzone, di un artista, di un modo di fare le cose. Perché è così con il passaparola di una volta che è diventato l'internet, c'è una diffusione tipo virus a un certo punto... e infatti si dice “virale”. Non credo che si possa del tutto studiare a tavolino questa cosa. L'esempio sono le cose palesemente studiate a tavolino tipo le classiche canzoni per l'estate che non sempre vanno, anzi nella maggior parte dei casi non funzionano proprio.

Vero anche questo.
L'esempio classico che si fa è quello del “Cielo in una stanza” di Gino Paoli, che venne rifiutata da un lungimirantissimo e illuminatissimo discografico con il solito banale: “Non c'è il ritornello”. Fa cadere le braccia questa cosa, no? Quella canzone che sulla carta doveva tornarsene a casa, non doveva nemmeno uscire perché non aveva il ritornello, è diventata invece una delle 5 canzoni più famose della musica italiana.

Tornando alla scrittura e all’impegno che hai messo nello scrivere, oltre alla chitarra hai tolto anche i giochi di parole: questo vuol dire che hai a casa 15 canzoni piene di giochi di parole in cui ti sei sfogato o hai proprio cambiato pagina?
Ahahahah a dire la verità ho davvero 15 canzoni che sono rimaste fuori dal disco!

E non le dai a qualcun altro? Non ti viene da fare l'autore per altri? Te l'hanno chiesto?
No, non lo faccio. Anni fa mi avevano chiesto di fare un contratto come autore e ho detto di no. Perché purtroppo c'è sempre questa mia ingenuità per cui le canzoni si scrivono per un motivo e non perché devi scriverle. All'epoca avevo proprio detto: “Il modo migliore per non farmi scrivere è farmi un contratto dove c'è scritto che devo scrivere delle canzoni” e quindi ho sempre rifiutato. Poi qualche volta l'ho fatto anche eh, perché mi è stato chiesto direttamente da alcuni amici o interpreti... e ti dirò che in realtà non mi dispiace. Ma deve essere qualcosa di mirato e pensato apposta, non un canzonificio.

Però è anche vero che di canzoni nuove ne hai scritte in questi 3 anni di “silenzio”...
È vero: per questo disco mi è stato detto: “Scrivi, scrivi, scrivi. Mettiti lì e scrivi, che poi magari succede che fra 20 cose che butti lì, alla fine una buona ce n'è”. E io devo dire che ho fatto un po' così, mi son messo lì ogni giorno e ho scritto, a differenza di come facevo prima che aspettavo una qualche ispirazione, fosse un giro o un qualcosa da dire. E ti dirò che funziona. Alla fine devo sempre trovarci un senso mio ovviamente, però questo esercizio, questa produzione di materiale aiuta molto e mi è servito.

Ci siamo dimenticati dei giochi di parole.
Ah sì giusto! È vero non ci sono giochi di parole in questo disco, è importante questa cosa. Il gioco di parole lo fanno talmente tutti che mi ha stomacato. È abusato tantissimo e a volte faccio fatica a seguire delle canzoni per star lì a sentire quanti giochi di parole ci sono, soprattutto perché sono fini a se stessi e non sono funzionali a dire niente. Io quando li ho fatti erano funzionali a ribaltare un senso, a dire due cose dicendone una, a stupire. Oggi li vedo usati perché fanno ridere, perché sono una cosa simpatica. Bellissimi eh, ma boh.

Però io volevo farti ancora una domanda, legata al tema dell'età, dell'invecchiare. Diciamo che i 30-40enni sono il pubblico che è cresciuto con te in questi anni, giusto? Bene, i 40enni li hai persi, spacciati, se ancora ascoltano musica di certo non ascoltano canzoni nuove.
Ma questa è una tua visione negativa però!

Beh ma solo te puoi avere visioni negative scusa?
Ahahahah, beh no. Ma ascolteranno musica anche i 40enni, dai. Davvero? Non l'ascoltano più?

Eh, no. Mi spiace dirtelo ma no. Se ascoltano qualcosa è quello che ascoltavano a 20-30 anni, forse arrivano ai 35 se gli è andata particolarmente bene. Ti parlo ovviamente della gente normale, non degli addetti ai lavori.
Credo sia la stessa cosa che sia successa anche a De Gregori negli anni '80: di tutto il pubblico di ragazzi universitari che lo ascoltava negli anni '70, molti avranno smesso di ascoltare i suoi dischi nuovi. Succede, è fisiologico. Noi che siamo dell'ambiente l'ascolteremo per sempre, fino alla tomba, anzi spero di poterla ascoltare anche nella tomba. Però è vero, è come è successo ai miei genitori, che negli anni '60 avevano tutti i loro dischi, poi si son sposati, han fatto figli e tra famiglia e lavoro non c'avevano cazzi di andare a comprarsi l'ultimo disco uscito. E ascoltavano magari quello che passava alla radio, è normale no?

Certo che è normale, però pensando all’ascolto da parte dei più giovani… che aspettative hai su di loro?
No ma a me non deve interessare questo. A uno di 16 anni magari non arriva neanche la notizia dell'uscita del mio disco, magari invece lo sente e gli piace. Le persone non sono 15enni – 20enni – 30enni - 40enni. Le persone sono persone. Se uno di 15 anni ha la sensibilità per ascoltare alcune cose, farà le sue scelte e avrà ascolti disallineati dagli altri suoi coetanei. Io a 13 anni ascoltavo musica che nessuno della mia età sapeva nemmeno cosa fosse. Io non mi devo preoccupare di fare canzoni per nessuno, come invece alcuni mi han detto... io devo dire quello che voglio dire, senza pensare a chi.

Ecco allora forse questa era la domanda giusta: di cosa parla oggi un musicista che ha 43 anni?
Io ad esempio parlo di me, come fanno in tantissimi, no? Io ho sempre parlato di me, ho parlato d'amore. Perché era quello che mi succedeva, che mi muoveva il desiderio di scrivere le canzoni, i tormenti che avevo dentro amorosi, come direbbe Catalano. È un po' di tempo che non ne ho più e quindi parlo di altre cose. In questo disco c'è una canzone d'amore ed è anche felice, sempre se posso usare questo termine (ride, NdR). Parlo di me, del mio futuro, del mio passato, delle mie paure, della paura che ho di quello che pensano gli altri di me. Paure che mi girano in testa e a volte ho così forti che mi metto al pianoforte per buttarle fuori. Ma non lo sto facendo perché penso che qualcuno possa riconoscersi. Come quando ho scritto quelle canzoni là, all'inizio… semplicemente è successo, io ero molto sbalordito, perché erano canzoni che avevo scritto per me e quando la gente mi diceva: “Questa canzone parla di me, l'hai scritta per me, come fai a sapere tutte queste cose”, io rimanevo sbalordito. Non ne avevo assolutamente idea. Ho scritto delle cose che vivevamo, sono riuscito a dare una voce e dire delle cose in un modo che loro non riuscivano a dire, e ascoltandole si sono sentiti capiti. Quello l'ho fatto in modo naturale. Non l'ho fatto per comprare la piscina. Perché tanto la piscina non la compro lo stesso. Che non mi piace nemmeno nuotare.

Ok, ma quindi tra 10 anni cosa succede?
Fra 10 anni sono cazzi loro, non sono più affari miei! Io ormai il decennio l'ho passato, non ho più quest'ansia. Io forse tornerò di moda. Forse verrà rivalutato anche “Canzoni per metà”, di solito i dischi non capiti vengono rivalutati dopo 20 anni. Comunque nella carriera di un artista ci vogliono sempre un disco incompreso, un disco omonimo - come questo che è pronto e uscirà - e un disco postumo.

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L'articolo D'amore, di paure e d'altre sciocchezze con Giuseppe Peveri in arte Dente di Marco Villa & Stefano Fiz Bottura è apparso su Rockit.it il 2019-08-26 10:38:00

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