Sono arrivati alla Mostra del Cinema di Venezia con le colonne sonore di due film molto diversi tra loro: "La vita oscena" di Renato De Maria e "Italy In A Day" di Gabriele Salvatores. Quello che era partito come un azzardo, è diventato un progetto importante, destinato a crescere sempre di più. Abbiamo incontrato Vittorio Cosma e gli abbiamo chiesto come si scrive una colonna sonora e cosa dobbiamo aspettarci in futuro dai Deproducers, il gruppo che riunisce, oltre a Cosma, anche Gianni Maroccolo, Riccardo Sinigallia e Max Casacci.
I Deproducers sono alla Mostra del Cinema di Venezia con due colonne sonore: è un po’ come far uscire due dischi contemporaneamente?
Nel mio caso le colonne sonore sono addirittura tre, perché con Gianni Maroccolo ho lavorato anche a “The Lack” dei Masbedo, presentato sempre a Venezia nelle Giornate degli Autori. E poi c’è anche l’album vero e proprio di Deproducers. In realtà è nato tutto in tempi diversi. Il primo a contattarci è stato Renato De Maria per “La vita oscena”. Lui ha contattato Riccardo Sinigallia, che conosceva da tanto, nel frattempo Aldo Nove (autore del libro da cui è tratto il film, ndr) mi ha chiamato dicendomi: “vieni a fare la colonna sonora del film sulla mia vita”. Io e Riccardo ci siamo sentiti e abbiamo deciso di estendere la proposta anche a Maroccolo e Casacci, anche per consolidare e lanciare ulteriormente il nome Deproducers.
“La vita oscena” di De Maria è un classico film di finzione, mentre “Italy In A Day” è nato da oltre 40mila video girati da persone comuni, il cui montaggio è stato poi coordinato da Gabriele Salvatores. Due opere molto diverse, che immagino abbiano richiesto due approcci altrettanto diversi.
Il film di Renato racconta la biografia di Aldo Nove, ovviamente in maniera traslata, metaforica: è una discesa agli inferi e una resurrezione, caratterizzata da un io narrante che racconta la storia dall’inizio alla fine. È un film molto psichedelico, lisergico, che rispecchia il tentativo del protagonista di cambiare una realtà che non gli si confà. Noi abbiamo provato a ricreare quello stesso mood utilizzando dei sintetizzatori, nello specifico un Juno 60 della fine degli anni ‘70, un arpeggiatore e Machine che invece è un programma che tratta molto i suoni. Partivamo da cose calde e poi le stravolgevamo per renderle ancora più oniriche. Il nostro ensemble funziona perché io sono uno scrittore di temi e armonie: far passare questo da un sintetizzatore crea già un cortocircuito, farlo toccare poi da mani esperte come quelle di Riccardo, Gianni o Max centuplica il cortocircuito.
Un'immagine di "La vita oscena" di Renato De Maria
Per "Italy In A Day" invece come avete lavorato?
Per "Italy In A Day" il lavoro è stato completamente differente. Di solito le colonne sonore si affrontano cercando un suono, una vibrazione, un mood e utilizzando alcuni temi che si reiterano in più scene, magari riarrangiati, che danno un occhio dell’io narrante, un’interpretazione della realtà. Questo invece è un film di grande realtà. Gli italiani sono stati chiamati a raccontare le proprie vite con un telefono o una videocamera: tante piccole clip che, unite insieme, danno un affresco di una giornata che descrive il paese. E lo descrive in maniera molto vera, molto forte. Se tu metti una musica che interpreta e vuole dirigere lo spettatore verso uno stato d’animo vuol dire implicare una forzatura, un mio modo di vedere le cose che esula dalla realtà. Invece volevamo aiutare quella realtà che era più forte di qualsiasi cosa: nel film c’è una coppia in sala parto, c’è la madre che fa tutto e il padre che non sa dove mettere le mani. C’è anche la morte, con alcuni dottori che aiutano persone a mettere fine alla propria esistenza o un pensionato che dice di aver raggiunto il benessere, ma di sentirsi inutile e solo. Non c’è attore che tenga, non c’è sceneggiatura che tenga: la realtà è più forte di qualsiasi cosa. Ci sembrava di forzarla e di farle perdere intensità. Come noi de-produciamo, anche Gabriele Salvatores si è de-prodotto e ha fatto un passo indietro per mettersi al servizio di ogni singola situazione per amplificarla e aiutarla. Dal nostro punto di vista, questo si è tradotto in circa quaranta temi, un lavoro della madonna.
A livello istintivo avrei detto che sareste andati nella direzione opposta, ovvero quella di cercare di essere il collante di un film che non ha protagonisti e non ha trama.
All’inizio ci abbiamo provato, ma tutto perdeva di efficacia, si allontanava dalla realtà e diventava fiction. Per fortuna siamo abbastanza da bravi da riuscire a far sentire comunque la nostra cifra stilistica, nonostante i vari cambi di ritmo e genere. Siamo riusciti a creare un’unità all’interno della molteplicità. O almeno speriamo di esserci riusciti.
Non credo siate la classica band che si trova regolarmente in sala prove, qual è il vostro modus operandi?
No, ma in realtà è quello che cerchiamo di fare. Ci abbiamo provato per le colonne sonore e anche per il disco. C’è un momento iniziale di stream of consciousness in cui ci troviamo e suoniamo, cercando di de-produrci e di fare quelli che hanno sedici anni e stanno nella cantinetta. Il povero Fabrizio Romagnoli, che è il tecnico del suono che ci segue da sempre, deve accumulare e catalogare eoni di materiale, che poi viene selezionato. Di solito facciamo gli ascolti stravaccati sui divani, prendendo pezzi, attaccandoli ad altri, cambiando tutto. Io ho scelto di fare questa operazione per recuperare un aspetto genuino: quando lavori da tanto tendi a diventare produttivo, ottimizzando tutto e trovando degli automatismi. Io volevo suonare senza sapere cosa ne sarebbe uscito. Abbiamo fatto una prima parte così, sapendo però che non sarebbe stato come per il nuovo disco, in cui facciamo veramente come cazzo ci pare, restando soprattutto liberi dall’ossesione per cui, essendo quattro produttori piuttosto affermati, dovremmo produrre la cosa nuovissima e mai sentita prima. No, senti “Planetario” e ci sono robe particolari, ma anche cose che ci permettono di essere noi stessi. Per la colonna sonora abbiamo fatto così la prima parte, poi dopo abbiamo dovuto cambiare metodo, soprattutto per “Italy In A Day”: avevamo selezionato trenta spunti, sulle immagini ne funzionavano una decina e ne abbiamo dovuti scrivere altrettanti guardando le immagini, usando anche alcuni spunti che ci ha dato Gabriele. Questa seconda fase è durata quasi tre mesi. A volte vuole anche meno tempo per fare una colonna sonora, ma solo se è canonica e non decidi di sperimentare, provare e anche sbagliare.
Tutti avete altri impegni, ma mi pare di capire che questo sia tutt’altro che un progetto collaterale.
All’inizio è stato un po’ “vediamo come succede”, poi abbiamo capito che piace alle persone, anche se in modalità diesel, per dirla con Finardi, in modo lento ma inesorabile. Ovviamente abbiamo attività remunerative e continuiamo a coltivarle, ma fanno anche da combustibile per questa cosa qui.
Quando siete partiti con Deproducers l’idea era quella di andare così lontano?
L’idea era quella di arrivare a questo punto, ovvero alla creazione di un collettivo di produttori e musicisti a tutto tondo. Noi creiamo e vendiamo una modalità lavorativa che si traduce in musica, però musica per un disco, per uno spettacolo live, colonne sonore per film, per conferenze scientifiche. A ottobre alcuni nostri video saranno presenti in una nuova sezione del Museo di Scienze Naturali di Milano. Un po’ di tutto.
Mi parli un po’ di “Botanica”?
Avevamo iniziato a lavorare, poi ci siamo interrotti per questi film. Anche in questo caso abbiamo provato un approccio particolare: ci siamo fatti prestare dal Conservatorio di Cremona degli strumenti che non sappiamo suonare, tendenzialmente acustici, per passare dall’infinitamente astratto e intangibile del primo album “Planetario” al concreto e tangibile della “Botanica”. Vederci all’arpa, ai timpani, al violoncello faceva ridere da un lato, ma era comunque interessante, perché con la nostra esperienza siamo riusciti a mettere insieme in maniera compiuta quello che è uscito.
Per chiudere vorrei tornare ai film: qual è l’errore da non commettere mai quando si scrive una colonna sonora?
Devi essere al servizio di una storia, non devi travalicarla. Se c’è una scena con una ragazza che sorride, non puoi mettere una musica malinconica o di suspense solo perché ti piace di più di una musica serena. È un esempio esagerato, nessuno lo fa, ma in maniera più sottile è un errore che si rischia di fare spesso, forzando una musica su un’immagine per gusto personale. Non devi mai mettere il tuo ego sulle immagini, ma capire cosa stai guardando. E poi in generale devi evitare di fare solo una cosa che funzioni: la cosa funzionale è lavoro, provare a fare qualcosa di diverso e sincero è un’espressione artistica. Bisogna evitare di cadere nelle facilitazioni e negli automatismi: a volte ho lasciato il pianoforte, che è il mio strumento, e ho preso in mano la chitarra, che invece suono malissimo, per avere un approccio diverso, che mi impedisca di sedermi sugli automatismi.
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L'articolo Deproducers - Vogliamo essere liberi come dei sedicenni che suonano in cantina di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2014-09-04 17:35:00
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