Dal racconto dello spazio e del cosmo di "Planetario" (2012) all’esplorazione del mondo vegetale di "Botanica" (2016), sono ormai sette anni che i Deproducers – Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo, Max Casacci e Riccardo Sinigallia – stanno viaggiando tra musica e scienza con il loro progetto di Musica per Conferenze Scientifiche. A cui si aggiunge un capitolo nuovo: "DNA", uscito il 5 aprile per Al-kemi Records e Ala Bianca e realizzato in collaborazione con AIRC, che vede nella doppia elica del DNA il cuore pulsante del racconto. Dalla formazione delle prime cellule alle nuove conquiste della genetica, ne abbiamo parlato insieme a Vittorio Cosma.
Dopo l’esplorazione del cosmo di "Planetario" e la vita segreta delle piante di "Botanica", con "DNA" avete scelto di dedicarvi al racconto dell’infinitamente piccolo, dell’origine della vita. Com’è nato questo nuovo progetto?
È stato un viaggio. Dai confini dell’universo, estremamente lontano e astratto, siamo tornati sulla Terra, guardando qualcosa che abbiamo di fronte tutti i giorni, molto concreto e tangibile, come le piante. E ora abbiamo proseguito questo viaggio verso l’infinitamente piccolo, dentro di noi, verso qualcosa che non potevamo vedere. Un po’ come il famoso film di Charles e Ray Eames, "Potenze di dieci". Faceva vedere questa sorta di Google Earth che dai confini dell’universo arrivava fino all’atomo, entrando nel corpo delle persone. Dall’infinitamente grande e astratto, abbiamo viaggiato dentro di noi.
Nel disco partite da “Abiogenesi”, passando per una “Suite cellulare” e arrivando alla “Serendipità”: quali riflessioni vi hanno guidato e a che percorso avete pensato per raccontare la genesi della vita?
Prima di cominciare qualsiasi disco ci poniamo sempre delle domande, anche un po’ da neofiti, su alcuni meccanismi interessanti e ispirativi della disciplina che andiamo a trattare. Uno dei temi che ci è venuto subito in mente è per esempio la collaborazione: in natura, tutto ciò che è cooperativo è più efficiente della singolarità e dell’individualismo. Noi siamo fatti di decine di migliaia di miliardi di cellule e tutte cooperano per il mio benessere, per il benessere di Vittorio Cosma. Ed è incredibile come questo lavoro possa essere portato alle estreme conseguenze, ci sono cellule pronte a suicidarsi per il bene comune. Sono concetti che, se li trasponi nella vita quotidiana e nell’organizzazione sociale, sono molto più profondi di qualsiasi cosa possiamo scrivere inventandocela. È la natura stessa che parla di cooperazione come miglior strategia di efficienza per l’evoluzione. E ugualmente la diversità: il difetto, la differenza, l’errore nella replicazione cellulare sono il motore stesso dell’evoluzione, altrimenti saremmo ancora esseri monocellulari. Quando è nata la prima cellula, nel brodo primordiale, si sarebbe dovuta replicare sempre uguale. Ma su miliardi di replicazioni ce n’è stata qualcuna di diversa, che ha dato cellule più o meno efficienti. È stato il primo gradino evolutivo, da cui poi gli esseri pluricellulari. Tutto questo è frutto di errori, di differenze, di serendipità. Che però, con le condizioni intorno, diventa necessità. Infatti c’è un brano che si chiama “Caso e Necessità”.
Nei dischi precedenti avete collaborato con il fisico Fabio Peri, conosciuto al Planetario di Milano, e il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, incontrato a un evento al Museo Aboca. Com’è nata invece la collaborazione con l’evoluzionista Telmo Pievani e perché lo avete scelto come frontman del disco?
Tutti loro sono ufficialmente i nostri Freddie Mercury (ride, ndr). Sempre per la serendipità. Nel disco c’è un brano dedicato a questo concetto, al trovare qualcosa mentre si sta cercando qualcos’altro. È qualcosa che possiamo sperimentare tutti i giorni a casa, ma anche nella musica. In un progetto come il nostro, libero dalla forma canzone, siamo liberi di cercare ispirazioni musicali sulla base di alcuni temi, poi magari troviamo tutt’altro. Cerchiamo la musica che vada bene per il DNA e magari salta fuori un brano perfetto per raccontare la storia compatta della vita, l’incedere dell’evoluzione. Sono tutti incontri serendipici. Anche quello con Telmo, che era uno dei candidati quando abbiamo iniziato a confrontarci con AIRC. Doveva essere una persona capace di stare sul palco, ma anche autorevole in campo scientifico. Telmo ci è sembrato perfetto perché, a differenza dei due capitoli precedenti, noi non possiamo vedere quello di cui stiamo parlando. C’è qualche immagine presa al microscopio elettronico, ma abbiamo puntato molto di più sul lato filosofico. Avere un filosofo ed evoluzionista ci è sembrato perfetto perché concetti come diversità, cooperazione, sacrificio, lotta e ricerca sono tutti molto filosofici. In questo, AIRC è stato un partner di grande visionarietà. Non è facile dire a un ente “Guarda, vogliamo realizzare uno spettacolo di musica totalmente libera, senza vincoli di alcun genere, con uno scienziato che ci parla sopra, che ne dite?”. Non è il progetto più pop del mondo (ride, ndr). Però riesce ad esserlo. Ed è una cosa di cui siamo molto fieri: facciamo sold out in tutti i teatri, con un pubblico variegato che va dagli 8 agli 80 anni.
In relazione al supporto di AIRC, che ruolo credete possa avere la musica nel diffondere anche lo stato della ricerca sul cancro?
Siamo in un’epoca di grande concretezza e pragmatismo, dove se una cosa non serve, non si deve fare. Vogliamo far passare un messaggio principe per gli scienziati, cioè che la ricerca va aiutata e finanziata in ogni caso. Proprio perché le più grandi scoperte della storia scientifica, ma anche artistica, sono state fatte cercando qualcos’altro, dai raggi X alla Penicillina. Alexander Fleming non cercava un antibiotico, sono scoperte che succedono per legami insospettabili. Oltre al lato etico del finanziare la conoscenza, c’è anche un lato molto pratico: noi invitiamo tutti a contribuire già solo con la consapevolezza. Non è una richiesta economica, ma un invito a capire questo meccanismo.
Deproducers insieme a Telmo Pievani (foto di Marco Pacini)
Come sono nate invece le collaborazioni con Tullio De Piscopo, batteria in “Abiogenesi” e “Storia Compatta Della Vita”, e con il Coro Mongioje, che canta in “Caso e Necessità” e “Cellula”?
Siamo felicissimi di avere Tullio nel disco, ci ha dato una carnalità che in un lavoro che poteva sembrare molto astratto ha aiutato tanto. E poi ha un tiro della Madonna, nonostante abbia 74 anni. È quasi un intellettuale della batteria, non ha suonato istintivamente. È venuto, ha ascoltato il brano, ha voluto sapere di cosa parlava. E poi ci ha suonato, spiegandoci il motivo di tutte le sue scelte. È diventato una specie di Talking Heads popolare. Il Mongioje invece è un coro con cui lavoro spesso anche nell’ambito delle colonne sonore. Mi sembrava molto bello coinvolgerlo. In "DNA" abbiamo anche un brano dedicato al cancro, tutto il disco è molto coinvolgente dal punto di vista del motivo umano. E lo stesso cerchiamo di fare nello spettacolo dal live. È una scienza meno algida, magari non tanto rispetto alla botanica, ma certamente rispetto all’astrofisica. E che coinvolge maggiormente gli esseri umani. Mi sembrava bello inserire un coro di uomini, che non suonassero alcuno strumento.
Come avete invece scelto Eugenio Finardi come lettore?
Per una vecchissima amicizia. Io ho prodotto otto dischi suoi, siamo fratelli. Ed è amico un po’ di tutti, quindi quando l’ho proposto siamo stati subito d’accordo. Lui ha accettato perché gli abbiamo chiesto “Vuoi venire a fare la parte di Dio?”. Ci serviva un padre nobile e ci piaceva fosse lui.
Poco fa menzionavi il tema del cancro, presente all’interno del disco. Come vi siete interfacciati con questi argomenti, penso appunto a “Cancro”, ma anche a “Suicidio cellulare”?
Non è stato semplice. Avendo scritto il disco e lo spettacolo con AIRC, era ovvio che dovessimo arrivare a parlarne. Era uno dei nostri obiettivi e abbiamo scelto di non mascherarlo, di non addolcirlo, di non ammorbidirlo, ma di chiamarlo per nome. C’è stato addirittura un periodo in cui pensavamo di chiamare “Cancro” l’intero disco, però forse sarebbe stato un po’ troppo. Diverso è dare un volto e un nome preciso, anche un po’ duro, a una malattia che ci accomuna in tantissimi. Nel corso dello spettacolo noi cerchiamo anche il coinvolgimento del pubblico. Non siamo noi sul palco che chiediamo cose: siamo in platea come voi, coinvolti dal problema di una malattia non debellata. Io ho avuto una sorella uccisa dal cancro, Telmo ha un fratello e anche lui stesso lo ha avuto e vinto. Cerchiamo di creare un ponte emotivo molto forte con il pubblico, di chiamare le cose per nome. Abbiamo avuto solo un paio di date per sperimentarlo, ma tutti hanno avuto a che fare con il cancro, personalmente o con persone vicinissime a loro. Dopo il concerto di Brescia, ci è capitato che alcune persone siano venute a dirci: “Guardi, ho un cancro anch’io, lo sto combattendo e questo spettacolo mi ha aiutato, ho capito che non sono solo. È un problema, cerchiamo di risolverlo insieme”. Noi lo facciamo con il nostro contributo artistico e speriamo sia utile. È una bella soddisfazione riuscire a parlare di una cosa che di solito viene chiamata solo “il brutto male”. Noi abbiamo deciso proprio di affrontarlo in faccia.
A livello musicale, siete ricorsi a strumenti o tecniche particolari per raccontare il DNA?
È un disco molto più emotivo. Psichedelico, ma in cui anche l’intensità del concerto è molto profonda. La gente se ne va contenta, ma anche coinvolta emotivamente, a un livello profondo. Abbiamo utilizzato tecnologie varie, anche perché usiamo tutti gli strumenti della Terra praticamente (ride, ndr). Ma con lo scopo di entrare in contatto con la parte intima e profonda di sé.
Che ruolo hanno nel live i visual di Marino Capitani?
Sono fondamentali. Marino è praticamente il quinto membro dei Deproducers, ci segue fin dal primo capitolo. Realizza tutte le nostre grafiche e l’art direction, che è passata dall’essere un elemento estetico a un elemento sostanziale della narrazione. Noi abbiamo un testo profondo, molto studiato perché sia accessibile, la musica, che con la parte emotiva ti aiuta a capire alcuni concetti, e il visual. Che è un terzo linguaggio, artisticamente molto bello ma anche molto comunicativo. Spiega bene tantissime parti del concerto, lo spettatore è veramente immerso in un’esperienza.
Il vostro è un progetto nato ormai sette anni fa per rendere la scienza più accessibile attraverso la musica. Come vedete la scienza oggi, pensando in particolare alla sfiducia nei confronti della medicina spesso alimentata da una certa parte di Internet?
Noi siamo molto fieri del fatto che la scienza sia una cosa inopinabile. Coinvolge tutti, è democratica. E noi cerchiamo di fare in modo che sia accessibile facilmente. All’interno della scienza penso ci siano anche i messaggi politici più forti in questo momento. In un momento di grande opinabilità, è bello potersi ancorare ad alcune cose inopinabili. La velocità della luce è trecentomila chilometri al secondo, non esistano No-Vax che lo possano negare. Le fasi del DNA sono quattro, l’errore e la differenza sono la chiave dell’evoluzione. Su questo non si può discutere. Puoi avere un tuo racconto o una tua opinione, ma queste sono cose universali, mondialmente riconosciute. E da cui ripartire, perché dentro ci sono una grandissima verità e una grandissima componente politica e filosofica.
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L'articolo Deproducers - Dal cosmo immenso all'infinitamente piccolo di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2019-04-17 12:00:00
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