Appena tornato da Los Angeles, Michele Canova Iorfida – in arte CanovA – si dice entusiasta per il suo rientro in Italia. Dopo dieci anni di soggiorno californiano e con una carriera che lo ha portato a guadagnare 10 dischi di platino e 7 dischi di diamante, il produttore di alcuni dei più grandi big sceglie di assecondare il naturale corso dei mutamenti che avvengono all’interno dell’ambiente musicale. Così nasce Level One, un ep in cui CanovA non è più lo scienziato della musica – come gli piace definirsi – che rimane celato agli occhi del pubblico lavorando dietro le quinte, ma diventa fulcro dell’intero lavoro. E chiama a sé le combinazioni più disparate della nostra musica: da Fabri Fibra a Giorgia, da Gianna Nannini a Tredici Pietro, la lista degli ospiti è ampissima e schizofrenica.
Già Mace o thasup stanno alimentando il fascino di nuova figura, di questo nuovo modo di essere produttori, ancora più celebri dei cantanti stessi. Tuttavia, se questi hanno iniziato la loro carriera già proiettati verso questo modo di intendere il proprio lavoro, CanovA è un veterano dell’ambiente discografico e, a cinquant’anni appena compiuti, decide di rimboccarsi le maniche per dare la sua personale versione di questo approccio.
Quando hai iniziato a pensare di buttarti in un progetto come Level One, passando dal ruolo di produttore dietro le quinte a quello di protagonista?
Un po’ è stato naturale. Nel senso che il corso che sta seguendo la produzione musicale di oggi porta a far sì che il produttore sia sempre più al centro, il trait d’union di tutto. Questo è diventato anche un autore, perché in qualche modo crea la parte musicale ed è anche chi unisce varie collaborazioni, fa conoscere artisti ad altri artisti. La pandemia poi mi ha spinto tantissimo ad uscire. Sono sempre stato un topo da studio, uno col camice bianco chiuso in una camera anecoica in cui facevo basi musicali e registravo voci. Questa situazione mi ha spinto a mettermi un pochino più in primo piano, subito con i social, facendo una serie di format che continuo a portare avanti dai tempi della pandemia, poi mettendomi in primo piano con il mio nome.
Cosa ne pensi di questo cambiamento del ruolo del produttore a cui stiamo assistendo?
È proprio il metodo di distribuzione che ha creato questo cambiamento, perché il produttore comincia ad essere citato sempre più. L’artista ha solo le sue pubblicazioni, mentre un produttore ne ha molte perché collabora – se ha fortuna – con diversi artisti; quindi, è più facile sentire ripetutamente il suo nome, questo modo di fare è stato messo in risalto sempre più negli ultimi 10/15 anni. Inoltre, l’inserimento di tag vocali, di nomi dei produttori all’interno dei brani stessi ha aiutato ancora di più. Secondo me è stato un progresso naturale, fino agli anni Novanta e inizio Duemila, quando già facevo dischi, il nome del produttore non veniva quasi mai citato, tranne che in casi rarissimi tipo Rick Rubin o produttori storici americani o inglesi. Le piattaforme digitali hanno in qualche modo portato a mettere in risalto il nome del produttore all’interno dell’album e quindi si dovrebbero mostrare anche i nomi dei fonici, dei tecnici che registrano, dei musicisti, ma purtroppo non lo fa ancora quasi nessuno.
Per Level One hai scelto tanti artisti diversi con cui lavorare, come cambia la produzione con così tante figure invece che con un singolo artista?
Proprio perché io vengo da un’altra generazione, abituata a lavorare a braccetto anche per sei mesi, l’ho trovato molto eccitante. È la continuazione di quello che ho iniziato a fare a Los Angeles per dieci anni. Sessioni molto brevi, ogni giorno conoscere un artista o un songwriter diverso, collaborazioni incrociate con autori che scrivono solo testi e solo melodie. Per chi fa questo lavoro da trent’anni diventa veramente eccitante, perché ci si rinnova ogni giorno. Mettere insieme Rosa Chemical e Gianna Nannini e vedere l’energia sprigionarsi in studio in quelle poche ore è stato eccezionale. Come lavorare con Nayt, che io conoscevo solo di fama, e veder nascere la canzone aggiungendo special e strofe. Con Tredici Pietro abbiamo passato una notte pazzesca perché abbiamo iniziato alle sette e abbiamo finito all’una, con lui che saltava per lo studio da una parte all’altra (ride, ndr). Spero che anche in futuro le collaborazioni che avrò possano mantenere lo stesso livello di energia.
E come hai fatto a dare uniformità a un progetto così eterogeneo?
Non ci ho pensato molto. Ogni volta che metto mano a un pezzo penso che già si riconosca che ci sono io dietro. Lavorando anche a canzoni così diverse, con artisti così diversi, bene o male c’è un filo conduttore e questo è il suono, il modo che ho io di lavorare le ritmiche, le voci, gli arrangiamenti.
In sessioni così rapide quanto si riusciva a creare momenti in cui gli artisti trovassero punti d’incontro?
Riuscire a creare un incontro è la cosa che fa più piacere. Quando ho mandato un pezzo di un gruppo sconosciuto come i LACRAY, a Luca Carboni, che è una pietra miliare del cantautorato italiano e gli ho proposto una collaborazione e la risposta è stata positiva, allora mi sono reso conto che c’era un’affinità, che i LACRAY piacciono a lui come piacciono a me. Non ti parlo dell’incontro tra Rosa (Chemical, ndr) e Gianna (Nannini, ndr), perché ne ho già parlato tante volte e si sono piaciuti ancora prima di incontrarsi. Visto che stavo lavorando a Diamante in quel periodo, feci sentire Rosa Chemical anche a De Gregori, che lo scambiò per Caparezza (ride, ndr), ed è piaciuto anche a lui.
Se potessi fare i nomi di due artisti di qualsiasi epoca, con chi ti piacerebbe lavorare?
Questa è una di quelle domande a cui risponderei “ti richiamo domani” (ride, ndr). Non so, Frank Sinatra e Michael Jackson, due voci incredibili o anche Michael Jackson e Jimi Hendrix, chissà cosa avrebbero potuto fare insieme. Poi, al di là delle battute, queste cose che stiamo dicendo nell’arco di vent’anni saranno possibili. Con l’intelligenza artificiale e con la ricreazione della voce – basata sul machine learning – potremmo emulare questi duetti. Se vengono fatte processare a un computer ore e ore di cantato poi si può scrivere un testo che può essere cantato da un Michael Jackson virtuale. Quindi magari verrà fatto.
Guardando te stesso, quali cambiamenti hai notato nel tuo modo di lavorare?
Sicuramente la velocità di pubblicazione. Sono diventato molto più veloce a muovermi all’interno dei vari ambiti, dall’arrangiamento, al mixaggio, alla produzione, e questo mi piace, perché mi permette di avere più un’immagine di insieme. È come se lo spirito della canzone rimanesse più dentro di me, perché non lo perdo. Certe volte magari ci si mette dieci giorni a terminare una canzone che quasi non ci si ricordava più neanche qual era l’emozione iniziale.
La parte compositiva è stata fatta esclusivamente da te o c’era un riscontro con i cantanti?
Innanzi tutto, non era fatta solo da me, ma con il mio team. È un gruppo di autori - Vincenzo Colella, Leonardo Zaccaria, Alessandro Pacco - che sono presenti in quasi tutti i brani e li firmano con me. In più c’è stata quasi sempre la collaborazione dell’artista. Gianna era direttamente coinvolta nella stesura del brano, ed era presente con noi in studio mentre l’abbiamo scritto. Nayt partiva addirittura da un suo brano – Sorpresa – che poi abbiamo solo sviluppato con gli autori. È sempre un lavoro di squadra, e questo è un altro cambiamento che mi piace degli ultimi dieci anni. Ora ci si trova in studio anche in quattro o cinque persone e questo aiuta sia la velocità che la creazione di un continuo riscontro, e questo per me è bello.
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L'articolo Le dieci Grazie di CanovA di Martino Fiumi è apparso su Rockit.it il 2022-07-15 12:40:00
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