Dai tornei di calcio in strada, al club dei piccoli esploratori o ai magazzini trasformati in discoteche; la politica e le prime canzoni. Dimartino ci racconta la sua vita da ragazzo di paese pur non facendo i soliti discorsi sulla provincia italiana.
Raccontami di Misilmeri, il tuo paese. Quando eri ragazzo - dice Wikipedia - contava 23,000 abitanti. Per te erano tanti o pochi? (per dire: nel mio, in Piemonte, ce n'erano 1,500).
Quindi tu mi vedi come un cittadino? Quando ero piccolo non pensavo che ci potessero essere paesi più piccoli del mio.
La banda larga quando è arrivata?
Tardi, il ricordo del primo mp3 lo posiziono tra il 2005 ed il 2006.
Stesso anno anche da me. Andavi agli allenamenti di calcio?
Ci giocavo ma non era la mia passione. Facevamo dei tornei in strada, spesso dedicati a qualche vecchio del quartiere che era morto. Se moriva lo zio di qualcuno, noi gli dedicavamo il memorial e mio padre, che faceva il falegname, ci costruiva pure la coppa (ride, NdA). Da poco sono ritornato nella strada dove giocavamo ed è cambiato tutto: è piena di macchine, i miei nipoti non scendono mai a giocare, stanno sempre in casa, fanno altre cose.
C'era una netta divisione anche da te tra chi andava in discoteca e chi no?
Da noi la discoteca non c'era, cerano i magazzini: quando un ragazzo compiva 18 anni faceva una festa in un magazzino e noi provavamo ad intrufolarci anche se non eravamo invitati. Per noi andare a ballare era quello, le discoteche vere erano in città o nei posti di mare. Forse ci sarò andato una volta sola.
Te ne sei mai andato da Misilmeri?
Non mi sono mai trasferito, se è questo che intendi. Di viaggi ne ho fatti parecchi: verso i 17-18 anni ho fatto un po' di mesi a Londra, poi sono stato in Marocco ed in altri posti ancora. Ho fatto lunghi tour che mi hanno portato a stare via per un po' ma, in realtà, non l'ho mai lasciato il paese. Ho vissuto a Misilmeri fino a due anni fa, ora vivo a Palermo ma mia madre e mio fratello sono ancora lì. Siamo a venti minuti di distanza, salgo da loro quasi tutti i giorni.
Il tuo disco è una favolona: i protagonisti partono, tornano per condividere le loro esperienze, sono tutti felici. Manca un po' l'aspetto che chi ha vissuto in un paese conosce di più: la noia.
Mi piaceva un punto di vista sognante che mettesse da parte le cose negative che, credimi, sarebbero state davvero negative. Ho cercato di pensare a dei ricordi felici e ho iniziato a scrivere cose che avessero un'atmosfera di festa. Nel mio repertorio ci sono un sacco di canzoni d'amore tristi, avevo bisogno di scrivere altro.
Quindi da piccolo non ti annoiavi mai.
A dirti la verità, no. Avevo una comitiva di persone molto attive. Quando ero piccolo avevo un club di esploratori: facevamo le esplorazioni, tipo nei fiumi o nei boschi, ci chiamavamo il New Exploration Boy Club (ride, NdA). Era il periodo dei Goonies e di film simili, noi ci eravamo fissati che dovevamo per forza trovare qualcosa, tipo un'astronave o un galeone. Facevamo anche le riunioni, organizzavamo le escursioni. Poi cresci, arrivano le ragazze, le vai a conoscere nei paesi vicini o alle feste. Ho avuto un'infanzia molto paesana, da ragazzo di piazza, di bar, di discussione politica in piazza.
Che rapporto avevi con la politica?
Le mie prime canzoni erano tutte canzoni contro la mafia e non saltavo una manifestazione. La politica è stato uno dei pilastri della mia gioventù.
E questo momento politico fino a quando è durato?
Non se ne è mai andato, in realtà.
Avevo letto delle interviste dove sembravi davvero disincantato nei confronti di chi vuole inserire un messaggio politico in una canzone.
È difficile scrivere oggi una canzone politica. Ed è difficile farlo perché negli ultimi 20 anni la politica è stata distrutta, oggi non c'è più un Claudio Lolli perché non c'è più un Berlinguer. Le mie canzoni sono politiche nel senso più protetto del termine, prendi un pezzo come "Venga il tuo regno”, nel mio vecchio disco, o “Niente da dichiarare” in questo nuovo.
Parlami di “Niente da dichiarare”.
È un pezzo legato all'utopia. Sto invitando a bruciare i passaporti, secondo me in questo momento storico è un messaggio forte: oggi le dogane hanno un'importanza assurda, vengono pronunciate in televisione molte volte. La parola dogana, la parola frontiera, non erano termini che sentivo spesso da bambino, ora li sento di continuo. Se tu scrivi un pezzo dove dici che vuoi abolirle, secondo me, fai un gesto politico. È super utopica come idea, me ne rendo conto, ma mi piace scrivere di cose che non potranno mai accadere. Se non le metti nelle canzoni dove le devi mettere?
“La vita nuova” parla del giorno di Ferragosto?
No, della mattina di Pasqua. C'è questa via principale che quel giorno diventa il luogo d'incontro tra chi ha lasciato il paese e ritorna per le feste e chi ci vive normalmente. Parallelamente c'è questo incontro tra la statua di Gesù e quella della Madonna che si ritrovano a metà della via durante la processione e, a quel punto, cominciano a piovere i petali. Mi piaceva quest'idea dell'incontro, sia tra la Madonna e Gesù, sia tra chi è rimasto e chi è andato via solo per tornare una volta l'anno e raccontare che fuori è tutto più figo. Magari hanno chiesto pure dei prestiti per comprarsi la macchina buona e fare bella impressione.
Giusto. Se uno deve tornare, torna da vittorioso.
Poi magari una sera ti ubriachi con loro e capisci che, in realtà, stanno di merda, avrebbero quasi voglia di tornare. Da questo scontro di emozioni mi è venuto in mente di scrivere “La vita nuova” e, immaginandomela, ho pensato ad un ragazzo che torna a casa per le vacanze estive e poi non se va più. Mi piaceva quest'immagine, quest'idea impossibile.
In questo disco procedi molto per immagini, probabilmente il tema del paese aiuta. Lo possiamo considerare un vero cambiamento o è solo una novità momentanea nel tuo modo di scrivere?
Il tema mi ha suggerito tutta una serie di immagini che poi ho riversato nelle canzoni. Non so se continuerò a farlo, ho già iniziato a scrivere altre cose e sono completamente diverse da queste. Per cui, volendo citare la recensione di Marco Villa, non so se è un disco di passaggio.
(cancello la domanda dal mio foglio, NdA)
Ovviamente avevi preparato anche la domanda su questo, chiaro. Mi piace pensare che tutti i dischi che ho scritto siano dischi di passaggio, perché se no che senso ha?
A me “Un paese ci vuole” è piaciuto veramente molto – mi sono proprio innamorato della storia, a mio avviso è un disco davvero scritto bene - ma obiettivamente “Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile” ti colpisce di più.
Forse perché c'era più cinismo o c'erano più slogan. Ma se pensi alla carriera di un cantante, al suo percorso, riusciresti ad immaginarti solo dischi come “Sarebbe bello...”? Diventerebbe una noia mortale, ci annoieremo io, te, il pubblico...
C'è chi si pone sempre l'obiettivo di scrivere canzoni enormi, che puntano ad essere eterne, no?
Io non me la sento, forse non ho più l'età.
Venditti ci prova ancora, per dire.
(ride, NdA) Non ho più l'età mentale. Per me una canzone "eterna" può anche essere sussurrata, dire delle cose che devi riascoltare più volte per capirle davvero. Io, però, volevo farti un discorso diverso: secondo me non vanno paragonati i dischi tra di loro, bisogna guardare il repertorio che un artista, man mano, sta costruendo. È una cosa importante per me: se la vedi dall'alto, se osservi una carriera intera... Voglio arrivare tra cinque anni ad aver costruito un concerto con tanti pezzi diversi. Non si tratta solo di raccontare le mie storie o dare la mia idea di poetica.
Si può dire che nella tua poetica c'è sempre un retrogusto adolescenziale?
Sarà banale da dire ma, ancora oggi, quando scrivo un pezzo, mi metto nei panni di un bambino. È proprio una cosa da cui non riesco a togliermi. Forse perché mi serve una certa ingenuità, o del distacco, per parlare di alcune cose.
I bambini però non spiano le ragazze che si toccano nei bagni della scuola, come canti in “Stati di grazia”.
Diciamo dodici anni, ok? Non ancora un adolescente pieno.
Riccardo Sinigallia in un'intervista mi ha detto che una canzone d'amore funziona se ti imbarazzi mentre la canti. Sei d'accordo?
Sono d'accordo. Io scrivo molto, mi piace proprio scrivere, e quando trovo una cosa molto imbarazzante da dire la tengo lì, la faccio sedimentare. Ci sono dei pezzi che mi toccano ancora parecchio nonostante siano passati gli anni, “Non siamo gli alberi” o “Non ho più voglia d'imparare”, ad esempio.
Di sesso ce n'è poco nelle tue canzoni, sbaglio?
Non saprei, “Ho sparato a Vinicio Capossela” è una canzone molto carnale, “Amore sociale” parla di una violenza sessuale. Non è facile parlarne in maniera non banale. Forse solo Califano ci è riuscito.
Pare che tu abbia un'ansia da abbandono bella marcata, concordi?
Concordo (ride, NdA). Non lo so perché, non ci sono dei fatti legati alla mia sfera personale, non te lo so spiegare, ma c'è.
Mi dici cosa ti piace di più della canzone italiana?
La melodia, è una cosa che non dobbiamo perdere mai. Ultimamente c'è un po' l'esasperazione delle line vocali monotone o svogliate. Secondo me bisogna lasciarsi andare alla melodia.
Domanda noiosa, lo so, ma te la faccio ugualmente: il cantautorato italiano non si svecchierà mai?
Penso sia difficile. In molti ci stanno riuscendo, penso a Colapesceo a Iosonouncane. Non è una cosa semplice, la tradizione italiana è troppo potente. È come un macigno, appena tu scrivi una strofa con una cadenza melodica particolare diventi subito De Gregori o Dalla.
A te questa cosa pesa?
Magari all'inizio, ma è un problema che non mi pongo da un po'. È difficile uscire dalla melodia italiana, te lo dico proprio da un punto di vista tecnico. Ad esempio, con gli Omosumo abbiamo scritto “Walking On Stars”, che è un pezzo bellissimo – non lo dico perché è mio, è obiettivamente una bomba – sembra un brano degli Sparklehorse. Abbiamo provato a mettergli le parole in italiano ed è uscita una cacata totale (ride, NdA). La melodia inglese e la lingua italiana non hanno niente in comune, sono due cose completamente diverse.
Chi scrive bene in Italia?
Bianconi è uno che sa scrivere. Anche Carmen Consoli, ci sono delle cose sue che mi piacciono molto: “L'eccezione”, ad esempio, anche “L'ultimo bacio” è un pezzone. Poi Colapesce, Brunori ha un bel modo di mettere le parole, Nicolò Carnesi, Giovanni Truppi, Simona Norato, Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti. E poi uno bravo ma troppo sottovalutato è Diego Mancino, ha una visione della melodia davvero interessante.
Il tuo lavoro di autore per la Sony come procede?
Bene, ultimamente mi sono un po' fermato ma scrivo così tanto che non sarà un problema riprendere. Rispetto a quelli che lo fanno davvero di mestiere, però, ho scelto un modo abbastanza tranquillo di essere autore. Faccio il possibile per scrivere solo per gente che ho già incontrato o a cui piacciono i miei pezzi. Diciamo che è un buon modo per conoscere le persone. Sembra una frase di circostanza ma è vera. E poi ho imparato a lavorare in team, mi è anche capitato di scrivere insieme ad altre due-tre persone. È una cosa che mi interessa molto.
È un argomento che interessa anche a me: spesso ci si lamenta che nessuno - nel pop o come tra i songwriter - riesca più a raggiungere i grandi del passato, dimenticandosi che dietro a quei capolavori c'era uno staff di più persone, tutte di talento. Altro che il cantautore da solo in cameretta.
È un limite grosso. Molte volte ci si chiede perché nessun disco suoni più come “La Buona Novella” sottovalutando una questione economica non indifferente. Ovvio che c'è anche la scrittura di De André ma non c'è solo quella, c'erano investimenti per pagare arrangiatori, produttori, persone di grande talento che hanno lavorato insieme. Non voglio fare quello che si lamenta che non ci sono più soldi nella musica ma, se parliamo di songwriting, uno non può non tenere conto di questi aspetti.
E quale dev'essere il compito di chi scrive canzoni?
Ti racconto questo: Misilmeri è un paese al centro di un triangolo che negli anni '80 era chiamato il triangolo della morte. In quel periodo c'è stata una grandissima guerra di mafia e noi bambini vedevamo i morti per strada, intendo i lenzuoli bianchi a terra. Sono immagini che hanno influito molto su di me. Per questo serve una favola che vinca sulla realtà, non penso che riuscirei ad aggiungere qualcosa di nuovo se raccontassi la realtà del mio paese. Penso che il compito di chi scrive sia quello di aggiungere altro, dare un altro messaggio.
Quindi “Un paese ci vuole” non è un disco sulla provincia italiana.
Tutti fanno dischi sulla provincia italiana oggi (ride, NdA).
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L'articolo Dimartino - Storie di paese e altre favole italiane di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-05-21 09:28:00
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