Fino a qualche anno fa, era impensabile per un rapper italiano non aderire alla cultura hip hop, ai suoi princìpi, ai suoi ideali. Oggi come oggi – qualcuno direbbe per fortuna, anche se c'è davvero poco di cui rallegrarsi – si registra il fenomeno opposto: molti dei rapper di successo, o aspiranti tali, dichiarano che il loro unico interesse è la musica rap, e che tutto ciò che ci sta dietro per loro non è più (o non è mai stato) importante. Il risultato è una nuova generazione di fan del tutto inconsapevoli, che non conoscono né vogliono conoscere le radici e il significato di ciò che ascoltano. Probabilmente se ne disinteresseranno non appena passerà di moda, perché per loro è un fenomeno di costume passeggero: ci sono stati i paninari, i sancarlini, gli alternativi, e ora ci sono anche i rapper, fino a quando non si sa, ma in fondo si è sempre in tempo per cambiare casacca. È un momento difficile, insomma, per chi ancora rivendica con orgoglio il suo essere 100% hip hop, senza compromessi e senza rinunce. Nonostante questo, però, chi si espone in prima persona, mettendoci la faccia senza timore di sembrare fuori tempo massimo, riesce spesso a generare un entusiasmo che dovrebbe farci tutti riflettere. È il caso di Ice One (leggendario b-boy, rapper e beatmaker della scena romana, uno che è attivo da talmente tanti anni da essere stato il mentore dei Colle Der Fomento) e Don Diegoh (mc calabrese di trent'anni, che si è fatto notare come freestyler per poi produrre alcune delle strofe più riflessive e interessanti dell'ultimo lustro). Insieme hanno appena pubblicato un album, Latte & Sangue, che per solidità ed energia spicca in maniera netta tra le uscite recenti. È un album senza tempo, che suona classico e contemporaneo allo stesso tempo, e trasuda una cristallina passione per l'hip hop in ogni suo aspetto. Abbiamo incontrato Don Diegoh a Milano per parlarne.
Come è nato il sodalizio tra te e Ice One?
Tutto è cominciato due anni fa, durante i live di presentazione di Radio Rabbia: il dj con cui lavoravo ai tempi si era trasferito in Polonia, così ho pensato di chiedere a lui di accompagnarmi in giro. Durante quel periodo siamo diventati amici, e da lì è nata l'idea di cominciare a lavorare insieme. È stata una grande emozione: prendevo ogni giorno il leggendario trenino Roma-Ostia, lo stesso che prendevano i Colle Der Fomento vent'anni fa, per raggiungere il suo studio. Avevo molta voglia di mettermi alla prova, ma anche tante insicurezze, essendo lui una colonna portante dell'hip hop italiano: alla fine, però, siamo riusciti a trovare la quadra. Quest'album è il frutto di due anni di sofferenze, sacrifici e lunghi ritardi, per questo si chiama Latte & Sangue.
Com'è andata la lavorazione dell'album?
Quando ancora vivevo a Roma c'è stata una prima parte di lavoro, molto lunga, che abbiamo fatto insieme: ci trovavamo in studio da lui, mi faceva sentire delle bozze che poi ricostruivamo in base all'impronta sonora che volevamo dare. C'era un gran bello scambio: ogni tanto io mettevo in discussione le sue idee musicali, ogni tanto lui metteva in discussione i miei testi. Dopodiché io ho registrato le mie strofe in autonomia e lui in autonomia ha riarrangiato il prodotto finito, per dargli un suono classico ma attuale.
Quello di Latte & Sangue è un Ice One fortemente radicato nel passato, ma che guarda al futuro. Una leggenda dell'hip hop italiano che collabora con un ragazzo che è cresciuto ascoltando i suoi dischi: rischiava di essere un rapporto un po' sbilanciato, lo è effettivamente stato?
No, grazie a Seby (Ice One, ndr) non è stato così. Chiaramente ero consapevole di lavorare con un'istituzione della scena italiana – in casa sua e sui suoi beat entravo in punta di piedi, per così dire – ma è una persona che trasuda umiltà, non mi ha mai fatto sentire in soggezione e mi ha dato una grande fiducia. Si è messo in discussione: lavorare con persone nuove era un'esigenza anche sua, tant'è che non si tratta semplicemente di un album prodotto da Ice One, ma di un album di Ice One. È un suo progetto ufficiale, una cosa a cui si è dedicato ogni giorno per due anni e a cui continuerà a dedicarsi per tutta la durata del tour.
Tu ami molto l'idea di lavorare con un solo beatmaker per volta: anche il tuo disco precedente, "Radio Rabbia", era co-firmato con Mastrofabbro
Sì, penso sia la cosa migliore. C'è una minore dispersione di energia e una maggiore identità e coerenza musicale. Il produttore fa il musicista, lo psicologo, l'interprete, il direttore d'orchestra... È una figura che va valorizzata, soprattutto se si tratta di qualcuno di così valido. Fatte le dovute proporzioni, Seby è una via di mezzo tra dj Premier e Pete Rock, per quanto mi riguarda: una persona in grado di creare e valutare con grande autorevolezza.
L'unico beat non prodotto da lui è quello di "Lettera d'amore", ad opera di Weirdo dei Crazeology (team di producer milanesi molto noti nell'underground, ndr). Come mai avete deciso di inserirlo?
C'è molta stima da parte di entrambi nei confronti dei Crazeology. Prima ancora che cominciassi a lavorare con Ice One, Weirdo mi aveva girato questa base e io ci avevo scritto sopra un pezzo, in maniera molto estemporanea. Lo trovavo molto efficace, così abbiamo deciso di tenerlo e di inserirlo nella tracklist. Volevamo anche inserire un brano prodotto da Mastrofabbro, ma alla fine ce lo siamo tenuto nel cassetto per il futuro.
Parlando invece di contenuti, è un disco molto intimo e personale: fin dalla prima traccia "Lascia", in cui tra l'altro racconti il tuo ricovero in ospedale “nel reparto dei falliti”, ti metti davvero a nudo. Non c'è mai stato un momento in cui hai pensato che forse era meglio evitare, per non esporti troppo?
È un album senza filtro. Non è stato facile, ma tra dieci anni vorrò ricordarmi di questo disco, che ci siamo regalati per i miei trent'anni di età e per i trent'anni di attività di Seby. Sicuramente entrambi facciamo un bilancio, lui musicalmente, io dal punto di vista dei testi. Ci ho messo dentro tutto il mio vissuto fino ad ora, e in quella strofa in particolare ho messo tantissimo degli ultimi cinque anni. In molti mi hanno chiesto se non avessi paura di raccontare cose del genere in un pezzo: no, non ho paura. Per me il rap è anche questo.
Più che altro, il rischio è che poi arrivi qualcuno a chiederti conto di quello che hai detto: tipo me, che durante un'intervista ti faccio domande indiscrete su una cosa personale come un ricovero in ospedale... Non ti dà fastidio?
Rispetto il lavoro dei giornalisti, anche perché l'ho fatto anch'io! (ride) Comunque sono dell'idea che nei propri pezzi bisogna parlare del proprio vissuto. In generale io invento pochissimo, però senz'altro cerco di parlare di certe situazioni nella maniera più delicata possibile.
In Italia oggi la figura del rapper (anche a causa di dischi molto superficiali e poco personali) è spesso associata a un superuomo sborone, invincibile, a volte quasi privo di sentimenti. Tutto il contrario di te, insomma...
Alla tutina dei supereroi preferisco i miei soliti vestiti. Magari a livello economico un certo tipo di atteggiamento può portarti più lontano, ma come diceva Andrea Pazienza “Quando disegno non penso mai al soldo: semmai ci penso un attimo prima o un attimo dopo”. Fare i personaggi è molto facile, ma poi parli a un pubblico di persone: in questi anni ne ho conosciute parecchie, di persone, ed è tutta gente che sente il bisogno di una musica un po' più profonda di quella che trova abitualmente nel rap. Stiamo tornando alla società dell'immagine degli anni '80, a bellissime vetrine che si affacciano su un posto vuoto oppure mezzo distrutto.
A proposito di profondità, una delle canzoni più sentite è sicuramente "Ciao pa'", una bella lettera a tuo padre. Come nasce?
Era un periodo in cui stavo facendo tanti live ed ero sempre in viaggio. Volevo parlare sia del rapporto con lui, sia del rapporto tra nord e sud e di situazioni molto comuni nel meridione, come l'emigrazione. Sono una persona molto sfuggente al cellulare, non riesco a chiacchierare molto, e quindi nei dieci anni in cui ho vissuto a Roma avrò parlato al telefono con mio padre sì e no per un'ora in tutto. Se vuoi bene a qualcuno devi dirglielo quando c'è, così ho preso coraggio e ho scritto questa canzone.
E cos'ha detto quando l'ha sentita?
Diciamo che il nostro è un rapporto particolare. Quando è uscito l'album gli ho dato il cd, me ne sono andato a fare un giro per dargli il tempo di ascoltarlo e sono tornato dopo un'oretta. Insomma, quando l'ha ascoltata non c'ero: lui è piuttosto schivo, nasconde bene le emozioni, perciò la sua reazione è stata molto misurata. Giusto due o tre parole che però lasciavano intendere tutto: “Eh vabbè, che ti devo dire”... (ride) So che però ne ha parlato con mia sorella ed era molto contento. Sono molto contento anch'io di avere scritto questa canzone per lui: mi ha sempre supportato nel mio voler fare musica, anzi, nei periodi in cui avevo deciso di rinunciare era lui che mi spronava. Sa che mi serve per stare bene, per mantenere un equilibrio psicofisico, quindi è sempre stato favorevole all'idea di vedermi su un palco: quando suono a Crotone è spesso tra il pubblico.
Visto che siamo in argomento, qualche anno fa eri seriamente intenzionato a smettere col rap e avevi addirittura annunciato che "Radio Rabbia" sarebbe stato il tuo ultimo disco. Fortunatamente poi hai cambiato idea, ma in quest'album hai inserito un brano intitolato "Eri meglio prima": il prima a cui ti riferisci è quel periodo di pessimismo cosmico?
Come io e Kiave diciamo nel pezzo “dovevo smettere, ci ho ripensato, perché questa merda è l'unica che mi ha salvato”. Sta tutto in quella frase: ne avevamo parlato nella nostra precedente intervista, e se non ricordo male ti avevo detto che in quel periodo c'erano troppi cani che si scannavano per lo stesso osso. Oggi, forse, c'è addirittura più egoismo di una volta, ed è un concetto che ultimamente è stato parecchio sdoganato nel rap, vedi pezzi come "L'alternativa" di Ensi. Il nostro è un po' più autocritico, ma è anche ironico: è un modo per dire a chi ci ascolta che non bisogna affezionarsi solo a certi dischi e a certi brani, ma che bisogna cercare di seguire il viaggio degli artisti dall'inizio alla fine, apprezzandone l'evoluzione. Non tutte le scelte sono azzeccate, ma sono tutte coraggiose, fatte per amore della musica. Tornando all'incipit della domanda, comunque, quella di smettere è un'idea che mi gira ancora in testa ogni tanto, ma non è una minaccia... (ride) Semplicemente, quando sentirò di non avere più niente da dire smetterò.
Un altro pezzo che colpisce molto è "Compa'", rappato in dialetto crotonese...
Sono finalmente diventato una persona allegra! (ride) Girando con Seby lo diventi per forza, è una persona molto divertente e contagiosa. Volevamo restituire un po' di questa allegria agli altri, così abbiamo cercato di infonderla nel disco. In realtà è un pezzo anche abbastanza riflessivo, ma messo in maniera ironica grazie a questo espediente. Per me è una novità, non avevo mai provato a rappare in calabrese, anche se ho sempre ascoltato gli altri che lo facevano. La cosa che mi fa piacere è che è abbastanza trasversale: da Napoli in giù (e a volte perfino da Napoli in su), ho sentito molte persone che ne avevano colto perfettamente il significato, pur non conoscendo il dialetto.
In quest'album si sente molto di più l'attaccamento alle tue radici, in effetti. Vivi di nuovo a Crotone in pianta stabile, giusto?
Sì, dopo dieci anni a Roma sono tornato a casa. Per vicissitudini personali, diciamo: a Roma ultimamente non ero molto felice ed era evidente, così un bel giorno le persone che mi vogliono bene mi hanno convinto a salire in macchina, dicendo che volevano riportarmi in Calabria... (ride) Avevo bisogno di stare un po' con la mia famiglia: ho attraversato un momento duro, credo che dall'album si evinca bene. Mi sono ricostruito mese dopo mese la mia dimensione. Per adesso mi trovo molto bene, anche perché mi sposto spesso per andare in giro a suonare. Comunque ho conservato un ottimo rapporto con Roma, ci torno regolarmente. Al sud c'è fermento, ma è più difficile fare le cose partendo dal basso, se vivi lì.
Tornando alla dimensione discografica, invece, come mai avete deciso di pubblicare come primo singolo un brano come "Tutto qua", in cui ci sono parecchi ospiti (nello specifico Francesco Paura, Danno e dj Argento) anziché qualcosa che vi identificasse come duo?
Al di là di tutto trovo che sia un pezzo molto bello, quindi sono davvero contento che siamo partiti da lì. Per rispondere alla tua domanda, comunque, è perché come prima cosa volevamo rivolgerci al pubblico che c'è sempre stato, quello che segue l'hip hop da una vita. Con l'aiuto di alcune colonne portanti della scena, volevamo abbracciarli tutti e ringraziarli in qualche modo: è una questione di rispetto, di sostegno. Se posso fare una provocazione, ultimamente non va molto di moda dire di essere hip hop...
E infatti la mia domanda successiva sarebbe stata proprio questa. Capita spesso che i rapper italiani di successo, anche quelli che hanno vissuto periodi storici molto diversi da questo, se ne escano con affermazioni tipo “io faccio rap, ma dell'hip hop non me ne frega (più) niente”. Che ne pensi?
Dell'hip hop, che ci ha cresciuto e ci ha reso quello che siamo, se ne sono dimenticati tutti. Forse anche perché hanno capito i loro limiti: se non si sentono hip hop forse è anche perché lo hanno mandato a puttane per tutelare i loro interessi. Fare l'mc è diverso da fare il rapper: l'mc lo fa per la gente e tra la gente. E comunque, indipendentemente dalla mentalità di ognuno, quando la bolla delle major si sgonfia o quando uno fallisce il passaggio al mainstream, tornano tutti fieramente underground, chissà perché. Se siete stati i primi ad aver abbandonato il vostro posto tra il pubblico e sotto il palco nella speranza di entrare nel privé, poi non tornate a piangere da noi che siamo sempre rimasti lì. Il punto di "Latte & Sangue" è proprio questo: il nostro non è un disco old school, sicuramente non a livello di suoni, ma è il disco di due persone coerenti, che ci hanno messo dentro tutto ciò che avevano da dare.
L'approccio mi sembra un po' quello che avevano i Gangstarr con The Ownerz: roba grassa e classica, ma aggiornata al tempo presente...
Mi raccomando, questo poi scrivilo nell'intervista! (ride) Tra l'altro noi dal vivo usiamo la strumentale di "Who got gunz", che si adatta molto alla dimensione live ed è presa proprio da quell'album. Detto questo, io ovviamente non sono Guru, ma come dicevamo prima Ice One è sicuramente molto vicino a dj Premier, non tanto come suono quanto come figura e approccio alla materia. La questione, per me, è molto semplice: è il caso di smetterla di fare gli emancipati dalla scena hip hop, soprattutto quando poi a darci da mangiare sono proprio le persone che provengono da lì e non hanno mai smesso di supportarci.
Che cosa è hip hop, per te?
Ti faccio un esempio banale: qualche tempo fa sono stato in visita alla comunità Exodus, e abbiamo conosciuto alcuni ragazzi che erano lì per disintossicarsi. Uno di loro era seduto sul divano, catatonico, ma appena abbiamo messo su un po' di musica gli si sono illuminati gli occhi e ci ha proposto di fare freestyle. Per me c'era più hip hop in quella situazione che in molti concerti che ho visto ultimamente. L'hip hop non è essere talebani: è educazione, intrattenimento, arte, grinta, volontà di divertirsi e contemporaneamente fare riflettere la gente.
Last but not least: che succede adesso?
In generale siamo molto contenti, è un buon periodo per noi e abbiamo trovato un'etichetta, la Glory Hole, che ci dà grande supporto. Ci sono diverse sorprese in arrivo, anche se al momento non possiamo anticipare nulla; al di là di questo, stiamo cominciando a muoverci per l'Italia per i live.
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L'articolo Don Diegoh & Ice One: "Old school? Siamo solo due persone coerenti“ di Marta Blumi Tripodi è apparso su Rockit.it il 2015-12-01 10:30:00
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