Era il 23 aprile 2003 quando una dinamite esplodeva nella scena rap italiana: l'uscita di Mi Fist, disco di debutto dei Club Dogo, ha segnato un prima e un dopo per la musica del nostro Paese, oltre ad aprire la strada di tre musicisti che ancora oggi stanno continuando a scrivere pagine importanti nel rap. Lo dimostra Don Dada, nuovo disco di Don Joe: 12 tracce che si snodano tra banger e ballate malinconiche, con tantissimi ospiti a dare il loro contributo, di cui tantissimi giovani. Artisti che per Don Joe sono il futuro, quelli su cui puntare per la loro realness e per permettere che il rap continui a rinnovarsi con idee fresche. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.
Dopo la presentazione di sei tracce del disco in due tranche, l’annuncio diceva che il disco sarebbe uscito intorno a maggio. Invece eccolo qua a metà aprile. Come mai questo anticipo?
L’idea di uscire con il disco a blocchi di canzoni, nel mio caso avrebbero dovuto essere quattro blocchi di tre, è abbastanza sperimentale, almeno in Italia, ma è un metodo che funziona bene. Il problema qui è la burocrazia, non si riesce a fare un’uscita settimanale, per esempio, che sarebbe stata la vera figata. Abbiamo dovuto farlo ogni due, perché ci vuole tempo, troppo tempo, e allora dopo queste prime due uscite di sei pezzi ci siamo resi conto che saremmo andati troppo in là, poi nel frattempo sarebbero uscite altre cose e quindi ci siamo detti per l’ultima di fare un paccone delle sei tracce che mancano. Deciso così, senza progettualità.
Come sono andate le prime canzoni?
Le tracce presentate fin’ora sono state accolte bene, molti non si aspettavano di trovare una cosa così, forse pensando a come era l’ultimo mio disco Milano Soprano, non ci si aspettava così tanti artisti emergenti. Quella degli artisti emergenti è un po’ un’arma a doppio taglio, ma per me è una vera figata, sto dando spazio a dei ragazzi che ne hanno bisogno.
È questo l’obiettivo del tuo disco?
Vorrei lasciare un messaggio, e magari spingere altri producer come me a fare lo stesso. Per questo disco io sono partito con gli artisti emergenti e poi l’ho farcito di big: Don Dada lo vedo più come un mixtape, fatto di brani e di artisti che spesso sono una novità e che potrebbero diventare i nuovi Ernia, i nuovi Gué, i nuovi rapper del futuro. La mia idea iniziale era quella.
Sei tu che li hai cercati o si sono anche proposti?
Io faccio molta ricerca sul campo, vado ad ascoltarmi questi artisti quando non sono nessuno e soprattutto cerco quelli che non abbiano tante pubblicazioni, o che abbiano pubblicazioni più underground, e li trovi solo su YouTube, magari su SoundCloud. Tanti sconosciuti, penso a 18K o Kid Yugi, sono tutti ragazzi che hanno fatto un percorso preciso e molto più underground rispetto ad altri che tirano fuori dal nulla singoli con le major, io sono molto più affascinato da questo viaggio qua, da ragazzi che cercano di fare un loro percorso individuale senza dover affidare subito dal giorno zero il proprio lavoro ad una major che ha messo dei soldi. Preferisco uno che si è fatto anche un po’ di gavetta, anche per il tipo di percorso che ho fatto io: ho sempre cercato ragazzi che abbiano quelle idee lì, persone per cui la priorità nella vita è quelle di lasciare della musica interessante, non diventare il numero uno domani senza lavorare prima. Questo credo che sia la base e credo che sia così che escono gli artisti migliori. In Don Dada ci sono nomi che per tanti sono sconosciuti, ma chi segue il genere sa di chi sto parlando e si immaginava che questi nomi sarebbero arrivati da qualche parte.
O magari chi segue il genere non conosce tutti i nomi, ma ascoltandoli è evidente che sono bravi.
Tu devi vedere me come la Discover Weekly di Spotify: ovviamente il disco è fatto da me, decido io chi mettere, inserisco i nomi che voglio, possono piacere o meno, intanto per loro è una bella vetrina.
È una bella vetrina e un bel disco, senza confini, né musicali, né linguistici, né geografici.
Io mi sono messo a disposizione: avevo dei beat destinati a questo tipo di artisti, a ognuno ho fatto una proposta di tre o quattro basi e ognuno ha scelto quella che gli piaceva di più. C’è la Campania, tantissimo, io sono molto affezionato al rap napoletano, mi piace tanto, per i testi, è molto vicino al rap americano, hanno le parole tronche, mi piace un sacco, poi sono belli incazzati, hanno proprio la cazzimma. Poi c’è la Lombardia, ovviamente, o ancora Kid Yugi che arriva da Taranto, è un ragazzo pugliese che si chiede dov’è la Puglia oggi nel rap, e lui è anche già a un livello alto. Ci sono molti ragazzi marocchini, c’è Medy, poi la Seven zoo di Milano è fortemente presente: togli Rondodasosa, ci sono Sacky, Vale Pain, Neime Ezza. Ho voluto mettere sotto un riflettore questi nuovi ragazzi e presentarli a un pubblico più vasto. È un disco fatto col cuore e comunque fatto bene, perché io sono un appassionato e mi piace, ma credo che sia un bel monito anche per altri produttori.
In un’altra intervista mi avevi detto che la tag, la firma nelle canzoni, se sei un producer riconoscibile non serve più di tanto, se non per moda. Questo disco si sente che è tuo, ma la tua tag Don Joe c’è in quasi tutti i brani.
La tag è sempre bella ed è sempre meglio ricordarla. La tag fa parte della produzione ormai perché va un po’ di moda, però, ti posso dire? Sono stato un pioniere anche di questa roba qua, presa in prestito dall’America, anzi proprio copiata da The Alchemist, un produttore americano. Mi aveva gasato l’idea di mettere la firma iniziale e lo volevo fare anche io. E un giorno ero con questo rapper di Marsiglia in studio a registrare e il tipo mi fece la tag, io la presi e poi l’ho tenuta per tutte le mie produzioni. In realtà ce ne sono tante di tag in giro. Sull’ultimo pezzo di Speranza come inizio ho usato "questi pischelli vogliono Don Joe" (frase di Marracash nel brano Ciao proprio con i Club Dogo, ndr.). Si possono usare i tanti modi, secondo me è figa come cosa, dà un segno e comunque aiuta.
Tanti stili, tante musiche, tanti dialetti e tante lingue diverse, ma una sola cosa comune: la strada.
Sì la strada c’è sempre e fortemente, che sia Napoli, Taranto, Milano, è il fascino del racconto di strada. Ti dico che non è facile nemmeno fare i pezzi pop dove non si parla di un cazzo, ma quando parli di strada e soprattutto nel nostro genere e nel genere urban in generale, si riconosce effettivamente la realtà delle cose che stai raccontando. L’artista real è sempre molto legato a questa cosa perché la traccia diventa pregna di ciò che lui ha vissuto veramente. Ti accorgi subito quando uno sta raccontando delle cose che ha vissuto. E molti artisti lo fanno in un modo eccellente, per questo dico ci sono tanti pezzi che raccontano di strada, e devo dire, fatti bene, anche se gli artisti hanno usato quelle quattro parole lì, ma magari sono molto più forti di uno che si è studiato tutto lo Zanichelli. Il cronista è una cosa, chi parla per sentito dire è un’altra cosa. Noi siamo stati molto cronisti, andavamo in giro vedevamo cosa facevano i grandi e lo scrivevamo nei testi, oggi ci sono tanti ragazzi che sono presi proprio dalla strada e messi nei dischi. Questi ragazzi spesso arrivano da case famiglia, carceri minorili, percorsi difficili, e son quasi tutti così, il 70% di quelli che sono nel mio disco ha la stessa esperienza, quindi è diventata ancora più real la faccenda. E sono contento e onorato che tanti ancora riconoscano la mia credibilità e vogliano fare dischi con me.
Come fai a essere sempre sul pezzo, sempre impeccabile, anche a Sanremo?
Quello è stato un gioco e mi sono divertito tanto, lo rifarei miliardi di volte. Con Biagio siamo cari amici da tantissimi anni, Tananai l’ho conosciuto ultimamente ed è un figo. L’avevo conosciuto ai tempi di Top Dj, lui faceva il dj quindi arrivava un po’ dalla musica elettronica e ho detto ok, un po’ di affinità le abbiamo. Però non ho mai stretto, era molto molto piccolo, e poi ci siamo ritrovati in questa parentesi un po’ bizzarra di rifare un brano. Sono stato tirato dentro inizialmente da Biagio, che sa che al brano Sognami sono particolarmente legato, è un brano che parla tanto anche me. Poi un giorno mi chiama proprio Tananai, e mi dice proprio di volermi con lui a Sanremo. Insomma, chiesto da lui, mi son detto che se il pischello mi riconosce a questo livello, allora devo farlo. Ci siamo divertiti, abbiamo fatto due giorni abbastanza in aria. È stato bello anche stare sul palco; avevo un po’ di paura, sono sincero, quando sali là sopra ti arriva proprio un’ondata di emozioni, anche solo se pensi a tutti quelli che sono saliti lì sopra. Io comunque mi plasmo bene, sto bene dove c’è la merda e sto bene dove c’è la gente di classe, o dove ci sono entrambe, perché è da dove arrivo, magari arriva anche la paura perché la situazione è più emozionante, ma in realtà sono uno che si adatta volentieri.
Perché Don Dada ha in copertina l’omino di pan di zenzero, e con la testa morsicata?
Anche l’immagine di Don Dada è stata ideata e realizzata seguendo il mio gusto personale, ho deciso di farmi affiancare dal designer e creator Gianpiero che in realtà aveva scelto le caricature per il mio disco. Poi un giorno mentre gli ricordavo di un NFT che ho di una sua opera con degli orsetti, ho visto anche che aveva il ginger bread man e gli ho chiesto di usare quello e trasformarlo in me. Mi piace, ha un pezzo di testa staccato, rappresenta un po’ l’esperienza, sta un po’ a pezzi, ha i tatuaggi, è morsicato, è un omino in canottiera, anche un po’ papà, perché il Don Dada è il padre dei padri, il padre di tutto, in termini giamaicani. Super Cat è stato il primo a chiamare il suo disco così, Don Dada è un termine con un significato proprio patois giamaicano.
E dal vivo?
Magari farò qualche dj set in giro, però coinvolgere gli artisti non so, è un po’ difficile portare in giro questi dischi, abbiamo provato anni fa con Thori & Rocce ed è stato un gran casino. Piuttosto se capita che sono a Taranto a suonare e c’è Kid Yugi lo faccio venire.
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L'articolo Don Joe: “Questi ragazzi un giorno potrebbero essere i nuovi Gué” di Carlotta Fiandaca è apparso su Rockit.it il 2023-04-14 15:41:00
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