L’uscita di “Le mots, la nuit, la danse”, splendido esordio discografico degli Endura, meritava di certo un approfondimento; è per questo che ci siamo avvicinati alla band cuneese cercando di conoscerne la storia e le velleità artistiche.
Partiamo parlando della vostra città di origine: Cuneo. Da quelle parti una decina d’anni fa muovevano i primi passi i Marlene Kuntz, si tratta di una casualità? Oppure siete i fiori all’occhiello di un intenso fermento artistico cittadino?
Giò: Il concentramento di persone con spiccata creatività - o con un indiscutibile estro artistico - non credo dipenda da variabili territoriali e tanto meno provinciali. Credo invece che il background culturale e sociale in cui un individuo cresce influenzi il proprio orizzonte percettivo e quindi creativo. Un fattore molto importante è poi la sensibilità che la comunità offre a un individuo che si esprime in metodi ‘non tradizionali’. Cuneo è un background, sotto certi punti di vista, estremamente difficile e sotto certi altri facilissimo (se paragonato a Caltanisetta, Salerno, Enna o chi per esse); è difficile perché ‘ignorante’ - nell’accezione di ignorare - è facilissimo perché fondamentalmente ricco e quindi acquistare una chitarra risulta molto più semplice che in altri luoghi.
I Marlene Kuntz rappresentano molto le tensioni della provincia del confine italo-francese; sono infatti un impulso a-temporale (che non racchiude un filone, un genere, un movimento legato a un luogo o a un manifesto) e un fuoco invincibile e insormontabile perché personale e totalmente indipendente. Cuneo è un territorio che, come qualunque altro, contiene fermenti artistici, anche se non li coltiva e non dedica loro l’attenzione necessaria. Cuneo in questo senso è Cremona, è Eboli, è Biella o Varese.
Pol: A Cuneo una decina di anni fa non erano solo i Marlene Kuntz a muovere i primi passi; con loro, e prima di loro, molti artisti ottenevano ottimi risultati e riscontri - basti pensare a Gianmaria Testa e alle sue tournée in Francia e Nord America e ai Lou Dalfin, divenuti i portavoce dell’Occitania. Noi eravamo molto attenti ai primi concerti dei Marlene Kuntz e vederli ora come uno tra i gruppi più importanti della scena rock italiana non può che renderci felici.
Pensate che a livello locale Godano & co. abbiano smosso qualcosa (mi riferisco a locali, radio, giornali) oppure è ancora di moda il motto “Nemo profeta in patria”?
Giò: No. Cuneo è costante negli anni: è una provincia di confine ricca e borghese in cui il livello di coscienza culturale rimane spesso un fuoco di paglia, in cui la mancanza di fermenti accademici o di filoni artistici non permette suggestioni creative riconosciute. Lo scacco matto credo sia dato dalla mentalità delle persone e quindi degli stessi musicisti, che non sono in grado di scrollarsi di dosso il senso di vittimismo e l’egotrip proprio del provinciale cuneese. I M.K. hanno smosso molte cantine ma poca consapevolezza nell’agire.
Un’atmosfera completamente diversa la respiro a Torino dove vivo la maggior parte del mio tempo da qualche anno. E’ una città dalla crescita artistica esponenziale, negli ultimi quattro o cinque anni è arrivata a contenere fermenti, mostre, iniziative, progetti di importanza internazionale, senza cadere nei canoni e nelle insostenibili inutilità di città importanti ma assolutamente invivibili come Milano.
Pol: Penso che non abbiano smosso molto Cuneo perché si tratta di una città restia ad ogni tipo di rivoluzione culturale anche se pacifica e il pubblico di M.K., anche se triplicato negli ultimi 10 anni, rimane sempre molto nascosto.
Mi raccontate della nascita del vostro progetto musicale? Se non erro si parla del 1998…
Pol: La nascita di un gruppo è quasi sempre per gioco. Si tratta di amici che si ritrovano in una stanza per scaricare le proprie energie imparando a muovere i primi accordi. Noi non arrivavamo da altre esperienze perché molto giovani, tra i 16 e i18 anni.
Giò: Endura è nata nella situazione più tradizionale e normale, proprio per i canoni di cui parlavo prima. Quattro amici, a cui si è aggiunto un ‘non-amico’ come me, uniti dal gioco divertito di far funzionare la chitarra dello zio e di allestire la mansarda del bassista. E’ un progetto che a livello embrionale non aveva nulla di prestabilito e di certo. Per questo credo che sia molto forte perché è accaduto naturalmente quello che doveva accadere.
Nel giro di un anno avete prodotto un ep omonimo: quali sono i suoi contenuti a livello sonoro e compositivo?
Giò: L’ep è stato un gioco, un disco fuori da ogni tipo di consapevolezza e per questo estremamente acerbo ma anche sincero e puro nelle proprie emozioni. Abbiamo trovato un ottimo produttore ed educatore musicale come Marco Canavese, con cui collaboriamo ancora oggi, che ci ha guidato nella prima esperienza di studio. Lo reputo un demo non maturo e molto acerbo ma con episodi interessanti come “Passando tra momenti malinconici ed attimi isterici” e “Ali”.
Pol: A livello sonoro il disco dimostra di essere stato influenzato dai grossi nomi dell’alternative rock di quegli anni (Sonic Youth in primis), anche se, facendo slalom tra le ingenuità, emergeva già una urgenza nel differenziarsi e nel definire un proprio stile.
I mesi successivi l’uscita del demo sono segnati dall’allontanamento della vostra cantante: che tipo di distacco è stato? E quali cambiamenti ha portato nella vostra musica?
Pol: Il sostituire la voce ha portato a molti cambiamenti e a piccole rivoluzioni. Forse quello fu il momento in cui capimmo che il progetto Endura ci interessava veramente, e ciò costituì l’input necessario per perfezionare il nostro stile e la nostra tecnica.
Luca: Il distacco da Francesca è stato molto brusco e netto: da un giorno all’altro lei decise di smettere. La sera prima avevamo suonato al ‘Capolinea’ di Entracque (CN) - un locale storico per la nostra città - e il giorno dopo ci trovammo ad improvvisare un concerto a quattro in un circolo di Alba.
Visto che l’esperimento non aveva dato cattivi risultati, abbiamo deciso di seguire questa direzione. Francesca arrivava da una base di generi completamente diversi dai nostri punti di riferimento, ed eravamo obbligati ad adattare i brani alle sue esigenze vocali, mentre il nuovo progetto ci dava la possibilità di essere più spontanei ed evitare ogni tipo di vincolo.
… è stato questo quindi il punto di partenza del successivo “Due complesso”?
Giò: Sì, la spontaneità sicuramente. Il cd che tu hai nominato è una raccolta di frammenti ‘complessi’, registrato e prodotto in casa con un adat e un pc. Contiene i primi impulsi scritti con maggiore consapevolezza.
Con “Due complesso” arrivano grossi apprezzamenti dalla parte della critica, concerti, passaggi sulle emittenti radiofoniche....
Pol: La fortuna del disco è costituita dalla sua obliquità e dalla difficile classificazione. Un punto forte fu anche il carattere totalmente lo-fi della produzioneche suscitò interesse in molti giornalisti. Il video clip di “Idro”, realizzato da Carlo Cagnasso, fu un grosso aiuto perché ci portò a Match Music e al M.E.I..
Giò: In questo senso è stata una sorpresa, perché nel momento in cui è stato realizzato non avevamo assolutamente presente i possibili canali promozionali e radiofonici presenti sul territorio. L’unica urgenza era registrare e suonare, mentre tutto il resto veniva in secondo piano. Per questo le ottime recensioni e i paragoni con gruppi culto come i My Bloody Valentine ci hanno colpito molto e portato ad assumere maggiore consapevolezza nelle nostre azioni.
Ed in quel periodo, se non sbaglio, nasce la vostra concezione multimediale dei concerti...
Giò: La mia formazione universitaria mi ha portato ad apprezzare qualsiasi forma d’espressione visiva, e da questo è nata una grande passione che oggi si è tramutata in lavoro. Nel frattempo abbiamo incontrato Carlo Cagnasso, il nostro alter-ego visivo, con cui abbiamo iniziato a progettare video installazioni, anche in questo caso in maniera molto naturale e poco consapevole.
Luca: La concezione di ‘concerto multimediale’ nasce dopo la realizzazione del video di “Idro” per mano di Carlo Cagnasso, il regista di quasi tutti i corti che ora ci accompagnano. Era la prima volta che realizzavamo qualcosa che non fosse propriamente musicale e visti i buoni risultati iniziammo ad utilizzare il materiale per coinvolgere maggiormente il pubblico durante i concerti. Inizialmente sul palco c’era un’attrice che interagiva con noi e con il pubblico, creando degli inserti teatrali all’interno di alcuni brani. In seguito, l’incontro con il fotografo Paul Quintini ci ha permesso di perfezionare lo spettacolo inserendo una mostra fotografica proiettata tra un video e l’altro.
Ed arriviamo all’estate del 2001 e alla casa-rifugio di Vigna dove avete appiccato i focolai creativi che hanno dato vita a “Les mots, la nuit, la danse”. Che ricordi avete del periodo trascorso in quello scenario fiabesco?
Pol: “Le mots, la nuit, la danse”: meglio di così non potevamo riassumere quei giorni. Era una casa incredibile dove il tempo era bloccato in mezzo alle montagne che ci tenevano compagnia sino alle 6 di pomeriggio e poi scomparivano nella notte. Non rimaneva che ascoltare il frusciare dei grilli, sentire sulla pelle l’umidità del torrente e urlare.
Giò: Creativamente il mese trascorso a Vigna è stato uno dei momenti più intensi della mia vita. Un posto stupendo, una casa immensa senza televisore o distrazioni, un eden alternativo ai mezzi di comunicazione di massa, un ritorno all’essere umano in quanto essere sensibile ed emozionabile. Abbiamo prodotto i brani con una naturalezza che negli anni non si era mai presentata tale; siamo stati così indotti all’introspezione, al pensiero in solitudine, all’esprimerci nel modo più diretto e personale possibile. Ricordo che ero talmente dentro a quel mondo che l’11 settembre, rimasto da solo nella camera da letto che ospitava la regia, venuto a conoscenza dei fatti di New York tramite radio e telefono, non ho neanche realizzato l’importanza storico-politica dell’accaduto. Tornai come se quasi niente fosse accaduto a “Linee” - divenuto poi singolo del disco - uno dei brani più dolci e paradossalmente sorridenti che abbia mai concepito. Qualche giorno dopo, tornato alla vita normale, realizzai ed ebbi l’urgenza di informarmi e di vedere le prime immagini.
Eravate già in contatto con La Urlo Music?
Pol: No. Il gruppo aveva bisogno di aria pulita per mettere giù quello che aveva nella testa da molto tempo senza nessuna intromissione, senza l’esigenza di far ascoltare qualcosa a qualcuno.
Giò: Il contatto con la Urlo - e con altre case discografiche - è avvenuto a master terminato, nel momento in cui si era resa necessaria la partecipazione di una entità esterna in grado di distribuire e promuovere il disco. Avevamo la consapevolezza di aver realizzato un album a tutti gli effetti e non un demo promozionale. Il rispetto verso il lavoro fatto in moltissimi mesi era troppo grande per farlo finire nelle nostre camerette masterizzato in casa. Abbiamo sempre avuto il massimo rispetto per ogni forma di autoproduzione ma sapevamo di non poter gestire bene il lavoro in modo totalmente autonomo; per questo abbiamo deciso di pubblicarlo unicamente se sostenuto da una realtà editoriale riconosciuta.
E Paolo Benvegnù come è entrato nel vostro progetto?
Giò: Paolo è sempre stato idealmente nel progetto, nel senso che adesso come allora costituisce un punto fermo nella nostra crescita espressiva. Lo abbiamo conosciuto subito dopo aver realizzato l’ep, siccome il nostro timido cd casualmente venne scelto per testare l’impianto dello studio degli Scisma a Toscolano Maderno sul lago di Garda - dove da lì a pochi mesi sarebbe stato ultimato “Armstrong” - tanto che il cd lasciò un piccolo segno nel suo archivio mentale. Con il tempo abbiamo avuto modo di approfondire l’amicizia, fino a dimostrarci stima e sostegno come fratelli.
Quando il materiale di “Les mots, la nuit, la danse” iniziò a prendere forma e a necessitare di una sistemata in studio, il connubio nacque spontaneo. Pochi mesi dopo al ‘Combo’ di Torino, Paolo, in sintonia con Orlando Durazzo, il fonico dello studio, stava registrando e manipolando suoni ed effetti.
Pol: Soprattutto per amicizia e simpatia nei nostri confronti e per una nostra ammirazione del suo modo di essere e di esistere.
”Les mots…” è un disco molto profondo. Come vi sentite di descriverlo e commentarlo?
Giò: Ti ringrazio per il ‘profondo’: è un termine che nella sua piccolezza credo racchiuda l’essenza dell’espressione artistica. “Emozionare per emozionarsi”, così la pensiamo. “Les mots, la nuit, la danse” è un disco assolutamente sincero, in cui ogni parola viene dal profondo della nostra intimità, in cui ogni singolo suono ha per noi una valenza estetica ed emozionale. Credo fermamente nella musica come ‘arte’ - e non come ‘intrattenimento’ - anche se non voglio avere la presunzione di definirmi Artista. Per questo motivo il disco contiene un manifesto estetico - ‘manifesto’, appunto -, proprio come è avvenuto in passato e avviene tutt’ora per diverse forme artistiche. Vogliamo che tutto quello che viene prodotto non abbia vincoli, preconcetti o presunzioni; vogliamo che sia la nostra intimità a parlare e che siano le nostre orecchie a giocare con le frequenze. Per questo non mi stupirei se saltasse fuori prima o poi un brano techno o un delirio ambient. E’ semplicemente il nostro istinto che ci muove, ma non posso comunque negare che la nostra passione per la musica e i dischi che consumiamo quotidianamente abbiamo influenze sulle nostre produzioni.
Pol: La nostra fortuna-sfortuna è stata quella di avere un tempo di attesa molto lungo prima dell’uscita del disco. Abbiamo così avuto modo di cambiare alcune tracce registrate d’impulso e di riflettere sul materiale a mente fredda, cosa che molto spesso non si riesce a fare. I punti chiave della realizzazione sono stati l’urgenza espressiva rispecchiata in quattro menti diverse e la cura estetica di ogni suono, per quanto i nostri mezzi economici ce lo potessero permettere.
Luca: “Les mots..” è un disco molto profondo, ma è anche un disco molto timido che sta cercando di farsi spazio tra le miriadi di produzioni in circolazione con la curiosità del primo giorno di scuola. L’idea era quella di creare una sonorità facilmente distinguibile e riconoscibile, qualcosa di nuovo che uscisse dai soliti standard, senza mai forzare la mano.
Emozionalmente ognuno ha vissuto l’esperienza a modo suo; quello che è nato è un contenitore di emozioni e stati d’animo differenti, dove un ascoltatore può ritrovarsi e riconoscersi con facilità.
E quali velleità vi siete proposti?
Pol: Nessuna!
Giò: A dire il vero non ne abbiamo mai parlato. Siamo molto contenti di essere riusciti a dare fruibilità e una buona distribuzione al disco. Questo sono convinto che sia un grandissimo risultato visto il particolare momento storico-discografico che stiamo vivendo. Questa era l’unica grande velleità e la abbiamo realizzata; da adesso in poi prenderemo tutto quello che verrà con molta serietà. Ci piacerebbe più che altro portare nel numero maggiore di luoghi possibile il nostro concerto multimediale, vedere le reazioni che può suscitare in persone molto diverse tra loro.
Il disco si avvale, oltre che di splendidi contenuti musicali, anche di una raffinata grafica, impreziosita da conturbanti fotografie e da una traccia multimediale. Come giustamente presentato da voi: da utilizzare per il 60% nello stereo, per il 30% nel computer e il restante 10% è da sfogliare...
Giò: Come ho detto prima non poniamo limiti di mezzo e di canale all’espressione. Per quanto mi riguarda do lo stesso peso alla grafica che al materiale audio. La cornice in cui si presenta un quadro ne è parte costituente, così come la location di una installazione è parte dell’installazione stessa. Per quanto riguarda la traccia multimediale, si può dire che è un esperimento: abbiamo tentato di produrre una nuova forma di concezione del supporto audio. La fruizione multimediale dei brani attraverso parole e immagini costruisce un orizzonte finora poco esplorato nella musica. Non vogliamo essere innovatori e non abbiamo la genialità dei creatori, ma si può dire che ci piaccia l’idea di sperimentare e di destrutturare molti pre-concetti esistenti intorno al mezzo di comunicazione.
A livello musicale nei confronti di quali artisti vi sentite debitori?
Giò: In questo momento stimo molto le tensioni estetiche che stanno portando il rock e la musica contemporanea in generale a distaccarsi e a destrutturare i canoni precedenti proponendo commistioni di suoni e di armonie prima difficilmente accostabili. Credo che questa sia la via per una crescita artistica della musica come avanguardia e come specchio della realtà contemporanea. Credo che esista un asse virtuale mitteleuropero che accumuna progetti come Air, Notwist, Lali Puna, Radiohead, Stereolab, Mum, Sigur Ros, condotto da una fortissima consapevolezza del passato e delle sue sfaccettature artistiche, denunciando una estrema necessità di ricercare nuove soluzioni. Il disco è stato influenzato meno, in questo senso, da intrusioni elettroniche, perché utilizzavamo in parte diverse tecnologie rispetto ad oggi e perché l’intimità della montagna portava in ogni caso ad attenersi al suono grezzo ed acustico. In un secondo momento, durante i mix ad esempio, o durante la registrazione degli ultimi brani nel nostro studio, questa consapevolezza estetica si è resa maggiore e i pesi delle frequenze e il gusto dei suoni e delle melodie sono state misurate in modo diverso. Punti cardine nella nostra formazione musicale rimangono comunque la new wave, i Joy Division in primis, e la musica cantautorale-poetica italiana. Amo molto Paolo Conte, Vinicio Capossela, Piero Ciampi, Giorgio Gaber soprattutto per il loro modo di raccontare e raccontarsi.
Pol: Dovendo fare pochi nomi posso dire Radiohead, Scisma, Paolo Conte e Joy Division.
Luca: All’inizio dell’esperienza, essendo molto giovani, le influenze ci venivano dalle cose più facilmente reperibili che avevamo a portata di mano: la scena rock indipendente italiana degli anni 90. Con gli anni ognuno ha fatto la propria ricerca e seguito il proprio percorso. I Radiohead di “Kid a” e “Amnesiac” sono forse quelli in qui riconosciamo maggiormente uno stimolo comune e una urgenza espressiva simile, anche se per molti aspetti, partendo dai testi, siamo molto differenti da loro.
E nella letteratura, quali sono le vostre muse ispiratrici?
Giò: A dire il vero sono molto pigro nella lettura, mi piace leggere ma trovo sempre il modo di non farlo, tra di noi non parliamo quasi mai di libri, tendiamo più ad essere cinefili. Molti dei libri che più mi hanno colpito hanno influenzato molti dei testi che mi è capitato di scrivere per Endura. Un brano tolto all’ultimo dal disco, perché non mixato a dovere, si intitola “City”, proprio come il libro di Alessandro Baricco. Il testo di “Dorian” è un passo tratto da “il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde.
Posso dire quali sono i libri che mi hanno lasciato un segno indelebile: “Dissipazio HG” di Morselli, i “Monologhi” di Pinter, “Il ritratto di Dorian Gray” di Wilde, i “Miti di oggi” di Roland Barthes, “ Au Rebours” di Huysmans, “La notte del Pratello” di Emidio Clementi.
Attualmente siete impegnati in qualche attività promozionale?
Luca: Dopo l’uscita del disco abbiamo fatto un mini tour nei negozi Fnac, mentre il tour vero e proprio dovrebbe iniziare a gennaio.
In questi giorni stiamo proponendo interviste e mini showcase in alcune radio indipendenti.
Giò: Credo che la promozione migliore sia data dai concerti. Abbiamo presentato il disco nelle FNAC e da gennaio siamo in tour - il 12>12? Tour - che stiamo organizzando in collaborazione con la CNI. Carlo Cagnasso ha poi realizzato il videoclip di “Linee” che ci auguriamo qualche televisione possa trasmettere, anche se sinceramente la vedo molto dura.
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L'articolo Endura - e-mail, 03-03-2004 di Federico Linossi è apparso su Rockit.it il 2004-05-17 00:00:00
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