Mr. Henry, al secolo Enrico Mangione, è un pazzo. Perché solo uno con dei problemi molto seri avrebbe potuto tirar fuori un’opera prima come “Lazily go through…”, disco malinconico e struggente, ammantato da una decadenza che lo rende di un fascino unico.
Pazzo, appunto, perché ha avuto il coraggio di tirare fuori musica dall’anima, senza scendere a compromessi. Ecco quindi il ‘Mr. Henry pensiero’, frutto di un’intervista via posta elettronica.
Secondo il comunicato stampa della Ghost, le tue fonti di ispirazione sarebbero da ricercare in due dischi in particolare: “Grace” di Jeff Buckley e “The heart of Saturday night” di Tom Waits. Peccato che c’entrino poco o nulla con “Lazily go through”, la tua prova d’esordio. Come ti è venuto in mente di citare quei due lavori?
Semplice! Prima ero chitarrista solista in gruppo blues, ascoltavo i Cream, Vai, Satriani, John Mayall, e mi piaceva il metal (ora quasi mi vergogno a dirlo...). Pensavo solo a far casino e a far vedere quanto ero bravo chitarristicamente; poi ho ascoltato “The heart of Saturday night” e “Grace” e mi si è aperto davanti agli occhi un nuovo mondo: ho preso in mano una chitarra acustica e ho cominciato a scrivere i miei pezzi... più ispirazione di così!
Si può semplificare il tutto dicendo che di Tom Waits hai ripreso gli sconfinamenti spleen e che di Jeff Buckley ti sei innamorato per il suo ruolo di ‘beatiful-loser’?
Sì, diciamo pure così: Tom Waits ha ispirato il mio lato più notturno e ‘sbracato’, mentre Jeff Buckley mi ha fatto capire che si potevano scrivere dei pezzi tristi e melodici pur rimanendo in ambito rock: esattamente ciò che cercavo di fare allora.
In realtà, il tuo disco sembra andare a parare in tutt’altra direzione. Che ne dici di riferimenti sul tipo Nick Drake, Black Heart Procession e Syd Barrett?
Syd Barrett l'ho scoperto dopo aver inciso il disco, ma i Black Heart Procession e Nick Drake sono stati un punto di riferimento, insieme a Tim Buckley ed il jazz, i quali sono stati la folgorazione successiva a “Grace” e a Tom Waits.
E se dicessi anche che la tua voce, a tratti, ricorda anche Leonard Cohen?
Lo prenderei come uno dei migliori complimenti che potessi farmi!
Anche se in “Never a slave” sembri richiamare l’estetica dei Radiohead…
“Never a slave” è stata composta proprio con l'idea di fare un pezzo alla Radiohead. Dopo “Kid A” nessuno può prescindere dai Radiohead... o no?
E c’è anche un certa attitudine punk. A tal proposito, sempre secondo il già citato comunicato stampa, i tuoi concerti sembrano possedere un’insospettabile ‘fisicità’. Cosa cambia quando sali su di un palco?
Davvero vedi un attitudine punk nel disco? In realtà, a pensarci bene, c'è, ma sei il primo che me lo fa notare e comunque è inconscia. Mi piace il punk, soprattutto quello del ’77: è sporco, rude, ignorante ma è estremamente comunicativo. Il vero punk è capace con tre accordi e quattro grida di trasmettere molto di più di un qualunque disco mainstream ultraprodotto e patinato. E a pensarci bene è quello che ho cercato di fare io.
Per quel che riguarda il live, è impossibile riproporre il disco esattamente come è: provocherei dei suicidi di massa... è troppo lento e d'atmosfera! Inoltre, quando sono su un palco tendo a dare tutto me stesso: per me la musica, oltre che una questione mentale, è anche una questione molto fisica e a costo di non piacere mi diverto enormemente a cambiare le canzoni a seconda di come mi gira, reagendo all'ambiente in cui mi trovo...
Le atmosfere delle tue canzoni sono possedute da una meravigliosa decadenza, quasi se le avessi scritte per esorcizzare un periodo buio della tua vita o per allontanare il grigio di una classica giornata in quel di Varese, la tua città - che immagino, mi scuso per la banalità, non proprio allegra dal punto di vista climatico.
Sì, buona parte dei pezzi sono stati scritti durante la naia, che per me è stato un periodo veramente buio e solitario. Pensa solo che cominciavo a mostrare segni di claustrofobia...
Anche i testi non scherzano da questo punto di vista. Spesso si parla di solitudine e di infelicità e in “Youth song” il protagonista della canzone finisce con l’affermare di aver sprecato la sua gioventù…
Il testo di “Youth song” è stato scritto il giorno del mio ventiquattresimo compleanno, che è stato anche il giorno del giuramento, nella stazione degli autobus a Trieste, mentre aspettavo di prendere il bus per tornare a casa. Mi guardavo intorno e vedevo solo gente over 60, avevo freddo, ero stanco ed avevo in mente la melodia del pezzo; anche le parole sono venute fuori quasi automaticamente.
La lingua inglese aiuta a descrivere certi stati d’animo?
La lingua inglese mi aiuta a cantare, perché quando canto in italiano mi sento un idiota! Poi mi aiuta a comporre perché ascolto molta musica straniera e mi viene naturale concepire i testi in inglese. Inoltre è una lingua molto più malleabile dell'italiano e se dico delle stupidate, o se mi dimentico le parole dal vivo, nessuno se ne accorge!
Il disco è diviso in quattro parti che abbracciano l’intero arco della giornata, dalla mattina presto alla tarda nottata, quasi avessi voluto comporre un concept-album. È proprio così... forse?
In pratica l'idea era quella di fare un concept che non avesse una storia, il che è quasi una contraddizione in termini, ma credo di esserci riuscito.
Hai dedicato una canzone ad Emily Dickinson... cosa ti affascina della poetessa nord-americana?
Detta così sembra una cosa studiata, ma in realtà avevo la musica e la melodia ma non riuscivo a scrivere un testo adatto; allora ho pensato che la Dickinson potesse essermi d'aiuto (alla fin fine anche lei scriveva in solitudine dei testi molto tristi, che in certi casi trattano gli stessi argomenti che tratto io...) ed ho preso in prestito una sua poesia... secondo me quel pezzo le piacerebbe!
Quali reazioni hai suscitato nell’underground italiano fino a questo momento?
Reazioni molto positive: il disco è piaciuto molto alla critica e - cosa ancora più importante - alle donne! Mi ha dato delle belle soddisfazioni.
Hai mai pensato che potresti proporlo anche all’estero? Anzi, a ben pensarci, forse questo è tutto fuorché un classico disco italiano...
In effetti di italiano questo disco ha solo i musicisti. Non ho mai pensato che il mercato italiano potesse accoglierlo bene, perché secondo me è un disco molto più adatto al mercato estero - e a quanto pare sta cominciando a vendere qualche copia anche in UK. Speriamo bene.
Ti rendi conto che il tuo è un disco difficile?
Assolutamente sì... non volevo fare un disco facile. In musica mi piace la ricerca, mi piace l'insolito, mi piace andare controcorrente, mi piace stupire, mentre se volessi fare cose standard suonerei in qualche squallido gruppo di cover...
---
L'articolo Mr.Henry - e-mail, 17-05-2004 di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2004-06-22 00:00:00
COMMENTI