Cinemavolta - e-mail, 19-06-2005

Dopo tante amichevoli discussioni con Max Tozzi, incontrato il più delle volte nei pressi o all'interno di negozi di dischi di Milano, ecco finalmente uno scambio di battute relativo al loro esordio sulla lunga distanza. Belle risposte, tra l'altro... sarà che le domande erano ben fatte? :)



Mi documento su cosa abbiano scritto su di voi relativamente a questo disco e la cosa che più colpisce non è tanto la diversità nelle opinioni, ma sui nomi in ballo. Io tiro fuori Scisma e Soulwax, mentre altri Timoria (!!!), Mambassa, Grandaddy e persino i Ritmo Tribale di “Bahamas” (!!!!), senza contare - of course - i Subsonica. Ma non vi fa un po’ specie questa difformità di accostamenti?
Credo sia molto interessante e molto stimolante per noi. La difformità di catalogazione dimostra forse la difficoltà di messa a fuoco. Se tutti avessero detto Benvegnù e Soulwax (artisti che apprezziamo e ascoltiamo) avremmo dovuto preoccuparci. Invece la difformità - che ha toccato recentemente in una recensione anche lidi inquietanti come quelli dei Litfiba!!! - ci fa capire che non siamo facilmente etichettabili e, aggiungerei, che non siamo “alla moda”.

Eravamo e siamo consapevoli che i Cinemavolta sono un gruppo che gioca sempre nell’ambiguità. La nostra sfida è rendere questa ambiguità un valore. Col tempo e, speriamo, con i dischi…

A proposito di ciò, non vi intimorisce il fatto che la vostra musica possa essere interpretata nella maniera sbagliata da parte di coloro che ne scrivono? Oppure, semplicemente, è un problema che non vi ponete?
Credo che sia sempre un errore mettersi a comporre per chi deve recensire i dischi.

Su disco tributate John Coltrane, ma non l’avrei mai detto. Da dove nasce questa esigenza?
Questo è il giusto approccio in un rapporto tra recensore e artista. Nel tuo “non l’avrei mai detto” sta proprio il migliore degli antidoti al comporre per i critici di cui si parlava nella domanda precedente.

Quando mi sono messo a scrivere “’Trane” avevo ben chiara l’atmosfera di insoddisfazione e di ricerca spasmodica di un senso nella musica e nella vita che è propria di ognuno di noi e che è massima e archetipa in John Coltrane.

E non parlo del Coltrane alfiere della new thing, ma di quello contorto che si danna nella ricerca di un’ancia perfetta e che parcheggia silenzioso la sua station wagon in un tardo pomeriggio di dicembre per andare a registrare “A love supreme”.

Vi siete dati una spiegazione sul perché una canzone come “Ultimo carosello dell’umanità” se la scrivete voi risulta essere una scopiazzatura dei Massimo Volume, mentre se le scrivono gli Afterhours è sperimentazione ben riuscita?
Perché non siamo gli Afterhours e non siamo i Massimo Volume. C’è tempo, credo.

Come mai la scelta di essere rappresentati come se foste dei Big Jim?
Le maschere che sono sul retro della copertina sono le facce con cui copriamo i nostri veri volti alieni, visibili nel booklet. La cosa è nata a Torino, mentre stavamo registrando il disco. Eravamo degli alieni in quella città. All’inizio Torino ci ha spiazzati molto, ma col tempo abbiamo iniziato a viverla in tutte le sue contraddizioni. Alla fine però non ci siamo mai del tutto inseriti. Da qui è nata l’idea di rappresentarci con dei caratteri differenti da quelli di coloro che ci circondavano.

Leggo dalle note che i testi erano originariamente scritti in inglese, ma in seguito avete partorito la versione in italiano. Ad ascoltarli attentamente, direi che l’operazione sia riuscita in pieno. Voi avete mai avuto dubbi in merito?
I dubbi ci sono stati. Ovviamente.

I testi in inglese sono nati in una fase molto delicata dei Cinemavolta. Volevamo prendere le distanze da un approccio alla musica che non ci andava più. Per questo ho scritto brani nuovi e in una lingua diversa. Credo che da sempre i musicisti italiani usino l’inglese non solo per la sua perfetta simbiosi con il rock, ma anche per potersi nascondere dietro di esso. E’ molto più facile dire certe cose in una lingua che non è quella della propria pesante cultura. Senza contare che per la nostra generazione l’inglese rappresenta una lingua franca con cui poter costruire un mondo a parte e in cui poter nascondere i propri sentimenti. Non è difficile cantare la parola “Love”, ma è difficilissimo inserire in una canzone la parola “Amore”. L’ho fatto, ma non è stata una cosa immediata e ha richiesto un percorso. Non solo musicale.

Cosa ha portato in più la produzione di Max Casacci?
Tanta autocritica, tanta attenzione ai particolari, tanta esperienza, tanti piccoli segreti, tanta determinazione. E, ovviamente, il nome Subsonica, con tutto il suo immaginario e il suo prestigio.

A parte questo, siete entrati in studio con un’idea del suono che volevate ottenere oppure tutto è venuto strada facendo?
Il suono è quello del demo con cui siamo entrati in studio. Solo più raffinato ed elaborato.

In questi anni di ‘purgatorio’, c’è qualche gruppo (o anche più d’uno) con cui avete condiviso in maniera particolare gioie e amarezze?
Le amarezze si dimenticano. Le gioie restano.

Noi ci sentiamo molto legati agli Edwood, ai Malatja, agli Empty Frames, ai Valery Larbaud. Gruppi con cui abbiamo fatto un po’ di strada, senza dover necessariamente condividere la stessa musica.

Vedo che sul sito dedicate una paginetta alla vostra città, Montichiari. Semplice patriottismo ‘localistico’ oppure dedizione alla terra madre?
Montichiari è esattamente la contraddizione che viviamo. Cittadina di provincia che da sempre ha avuto un anelito internazionalistico (ci sono addirittura delle pagine di Kafka scritte su e a Montichiari).

Noi ci sentiamo così: degli anglosassoni costretti all’esilio in una landa desolata, ma non troppo, della pianura padana.

Per chiudere solita domandina sulle nuove forme di consumo della musica, ovvero quella digitale. Siete a favore o contro? E a parte questo, utilizzate gli strumenti (i-pod, lettori mp3, etc.) per consumarla?
Credo sia difficile affrontare il problema senza scadere nella facile demagogia o nella banalità borghese del lavoro come valore assoluto.

Ogni lavoro dovrebbe avere il proprio compenso.La musica è un lavoro ed un’arte e questa sua contraddizione la penalizza un poco.

Noi siamo per la libera circolazione della musica se essa serve alla musica ovvero se innesca interesse e creatività. In fondo la musica digitale ha salvato tutta la musica: non è difficile accorgersi di come essa sia un elemento molto più presente nel mondo in cui viviamo.

Pensiamo però che lo scaricare e il condividere musica gratuitamente siano falsi miti. Il denaro che prima veniva impiegato per l’acquisto di un supporto ora è destinato al pagamento di un contratto con chi fornisce una connessione alla rete o al pagamento del traffico telefonico. Per non parlare poi dello smisurato costo delle apparecchiature per la riproduzione della musica digitale: non saremo così ingenui da credere che in un I-pod shuffle ci siano veramente 99 euro di materiali ultra-tecnologici?

Certo, c’è chi risponde che in questo caso si pagano l’idea, geniale, e il design alla Apple.

Allora perché ci si scandalizza tanto quando si parla di pagare l’idea che è stata fissata in forma di canzone su un disco?

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L'articolo Cinemavolta - e-mail, 19-06-2005 di Faustiko Murizzi è apparso su Rockit.it il 2005-06-21 00:00:00

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