Il web, e non solo, parla ormai da qualche mese della piccola grande impresa di Nicholas Fantini, in arte E-Green. Il rapper è riuscito a tirare fuori il suo nuovo disco (“Beats and Hate”) portando a termine con successo una campagna di fundraising su Musicraiser che, partita subito forte, ha concluso facendo registrare il record italiano di “donazioni” con 69.000€.
Il caso è scoppiato in fretta, ed è subito apparso a qualcuno nell'ambiente rap (così drasticamente diviso tra mainstream e underground, tra chi esce con major e chi si autoproduce) come una sorta di terza via virtuosa ed infallibile: Musicraiser come una etichetta/non etichetta dalle uova d'oro, alla quale affidare i propri progetti e il loro finanziamento andando sul sicuro. Sono già parecchi i componenti della scena, più o meno noti, ad aver ricalcato i passi del buon Fantini. I risultati però non sono (quasi) mai quelli delle aspettative, anzi, in molti casi non ci si avvicinano neanche. Ed è un rischio.
Perché l'operazione “crowdfunding” nasconde un grosso pericolo boomerang nel caso non si raggiunga la cifra prefissata. Non solo a livello di produzione del disco, ma, e in maggior misura, a livello di immagine.
Come ha fatto E-Green? Il suo è un modello imitabile o si è realizzato solo grazie alle sue personalissime caratteristiche, al rapporto che negli anni ha costruito con i suoi sostenitori (non chiamatela fanbase!)? C'è qualche trick per costruire un successo del genere, o almeno per evitare un flop?
Vado a chiedere queste cose direttamente a Nicholas in un insolitamente caldo pomeriggio novembrino.
“Frate, son stanchissimo” è la frase con cui mi accoglie, e non c'è da biasimarlo. Le spedizioni di tutti i dischi ordinati sono appena partite e lui li ha numerati a mano tutti, uno per uno. Cose da E-Green. Veniamo subito al dunque provando a fare ordine, partendo dal principio.
Avevi alle spalle un'avventura finita con Unlimited Struggle (Un divorzio, come lo definisci tu), l'ep “Entropia 2” uscito autoprodotto. Come è nata l'idea di buttarsi in questo tipo di avventura, inedita per te e per il rap in Italia?
Per caso, facendo due chiacchiere al bar con un amico, un produttore molto famoso che non sto a citare per mille motivi ma che saluto (lui sa chi è). Parlando del più e del meno lui mi ha detto “Guarda secondo me questa roba qui è la roba che fa per te, dagli un occhio, lo sta facendo anche Meg (ex 99 posse)”. Al che sono andato a guardare. Dapprima ho detto “Ma va, sta roba qua per il rap in Italia è un autogol drammatico, figurati”. Poi alla fine ho detto “Sai cosa c'è? Vaffanculo, tanto da perdere non ho un cazzo, facciamolo! ”.
Quanto tempo di riflessione è passato tra la chiacchierata al bar e l'inizio dell'avventura, e cosa c'è stato in mezzo? Quali sono le cose pratiche da fare, i primi passi da muovere verso una cosa del genere?
La chiacchierata è stata ad aprile/maggio, il primo video dove ho detto e spiegato un po' le cose è uscito a giugno. Addirittura tra i miei collaboratori c'era chi mi diceva “No, è una cazzata fare il video prima”. E invece no! Io ho insistito per fare il video prima perché all'inizio devi educare le persone alla novità. Il punto fondamentale era dire “Ragazzi, tra tre mesi succede questa cosa qua”, cominci a buttargliela lì. In secondo luogo ci tenevo anche ad accaparrarmi il posto del primo, perché ovviamente questa cosa avrebbe avuto una buona percentuale di “Epic Win” se fossi stato il primo a farla. Non sapevo come sarebbe andata, ma io ero fortemente motivato. Poi, quando parte tutto, devi programmarti il lavoro, perché tu sei il capo di te stesso. Le prime cose da fare sono avere le idee molto chiare e programmarti il lavoro.
(La copertina di "Beats and Hate")
Mi parlavi di rischio autogol. Effettivamente è bello presente. Nel senso che tu hai aperto questa strada che nel rap in Italia nessuno aveva calcato, e adesso c'è già un po' di gente che prova a seguire le tue orme, ma con risultati che ad essere buoni potremmo definire alterni.
Sì, per usare un eufemismo. Guarda, hai aperto uno spunto di discussione interessantissimo. Con questa cosa, in Italia ovviamente, tutti hanno identificato nella parola Musicraiser un tesoro, un'etichetta, quando in realtà questo cazzo di Musicraiser, senza togliere nulla a loro, va visto, interpretato e utilizzato semplicemente come un mezzo, non come un fine. Questo è il più grosso errore che le persone che si appoggiano a questa cosa stanno facendo, il discorso vale sia per gli affermati che per gli emergenti. Da una parte ho letto delle cose tipo “Ah, vabbè, se sei emergente questa roba non serve”, oppure “Ah, no, vabbè invece serve proprio solo agli emergenti perché...” No! Questa è una cosa sbagliatissima in partenza. Uno deve essere in grado di sapere il perché stia facendo un'operazione del genere e comunicare in primis per se stesso come artista e dopo per le persone che lo seguono questa cosa avendo la consapevolezza che la stai usando per farne un'altra. La cosa più sbagliata che si può fare in questo momento utilizzando questi signori è sventolare Musicraiser a caso. La seconda cosa è comunicare male il perché lo stai facendo. Secondo me è mancata la sensibilità ed è stato affrontato tutto in maniera troppo istintiva. Troppo “Ah, ok...”
Tipo “Abbiam trovato quello che mancava. Non abbiamo l'etichetta, ma questo metodo ci da una risposta sicura...”
Esatto. Invece è importantissimo sensibilizzare le persone. Bisogna fare tutto un discorso che abbia un senso per presentare il progetto, e alla fine dire “Ah, scusa, by the way...questa roba la sto facendo con Musicraiser”. Poi, una volta fatto questo, devono partire tutta una serie di operazioni dove ogni volta un pochino di più sottolinei il fatto che stai facendo questa cosa con loro.
Quindi nessuna bacchetta magica MusicRaiser...
No. Ma neanche una major è una bacchetta magica. Se una major firma un artista e poi questo, anche con i soldi spesi per promuoverlo, non va...non va! Nonostante quello che molti vogliono far pensare tramite i social, facendo apparire tutte queste operazioni col rap di diverso genere come vincenti, alla fine però se una roba non funziona c'è poco da fare. Non basta avere tot follower su Twitter o “mi piace” su Facebook.
Nel tuo caso una delle chiavi vincenti sembra essere l'onestà con il tuo pubblico, fin dal primo video. E due un lavoro costante, anche nel tuo legame con la gente.
In realtà no. Io ho fatto il Nicholas di sempre. Non c'è stata una strategia di questo genere. Sui social postavo le mie cazzate come le posto adesso, ma non c'era nulla di architettato.
Proprio da ciò che scrivevi sui social, una delle cose che sembrava preoccuparti di più erano le reazioni del tipo “Ti stai facendo i soldi a spese nostre”. In realtà pare ne siano arrivate pochine di critiche del genere...
In realtà le ho contate sulle dita di una mano. Però, sai com'è, io m'incazzo molto facilmente e quindi anche dentro di me ho amplificato tutto. Fortunatamente invece è stata una cosa molto capìta. Ci sono state delle frecciatine dirette o indirette da parte di alcuni “colleghi” che io ho apprezzato davvero poco. Le ho trovate delle cadute di stile, cose di una bassezza indecente. Ma d'altronde il mondo è bello perché è vario.
Un mezzo del genere lo usi una volta, fai un disco... e poi? In futuro? È una cosa replicabile?
Io sono convinto che questo concetto possa essere accomunato al ritorno della moda dei vinili che c'è da due anni a questa parte. Secondo me stampare un vinile appena fai una scoreggia è una cazzata grossa come una casa. Negli ultimi due anni tutti hanno fatto il vinile, a me avevano detto di stampare “Entropia 2”. Ma perché? Cioè, io ste cose non le capisco. “Beats and Hate” è un disco da vinile. Altri miei lavori meritano una ristampa. Però è una cosa da valutare. Io ho fatto una scelta, all'interno della quale ho fatto anche degli errori, facendo un salto nel vuoto, sia dal punto di vista economico, che comunicativo, che commerciale. Quindi io ti dico, lo stesso peso che do alla stampa dei vinili lo do al discorso di ricorrere al foundraising. Io non mi sento di aver rubato i soldi a nessuno, mi sento cristallino, trasparente e coerente. Questo significa che se io tra due anni dovessi fare un altro disco come questo e volessi rifare questa cosa qui non mi sentirei stranito nel farla. Il crowdfunding è una cosa che c'è in tutti i paesi d'Europa, paesi dove a livello legale e legislativo le cose sono già riconosciute e avviate e uno può farle anche dal proprio sito, senza problemi. Quindi, ti dico, non è una cosa che io scarto per il mio futuro. D'altrocanto, la gente sa già che cos'è, che non scassi il cazzo.
Tra le “offerte” legate al tuo crowdfunding c'era l'opportunità di portarti a messa. Qualcuno c'è riuscito?
No, per fortuna! Ma la gente non è arrivata a capire che quello era un troll gigante!
Ora comunque sarai preso dalle “ricompense” dovute a chi ha partecipato al progetto...
Sì, sono in tanti. Ho fatto i preascolti, sono piaciuti a tutti. Ero parecchio nervoso, perché il disco a tratti potrebbe essere un po' strano. Adesso devo fare le consegne a domicilio, l'aperitivo, la cena...
Vabbè dai, si mangia e si beve...
Finalmente, esatto cazzo! (ride)
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L'articolo Egreen - Non basta un crowdfunding per spaccare di Matteo Villaci è apparso su Rockit.it il 2015-11-12 15:13:00
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