A tre anni dal precedente Scienze della Maleducazione, dopo aver calcato centinaia di palchi in giro per il mondo, la band più cosmopolita della Garrincha Dischi pubblica Machu Picchu. Un nuovo capitolo per gli España Circo Este, il primo lavoro composto al di fuori di un furgone, senza rincorrere aerei, bensì descrivendo dal proprio nido tutte le esperienze vissute in viaggio restituendole in otto tracce.
"Dopo tanto tempo passato a viaggiare e a suonare per il mondo abbiamo cominciato a farci delle domande, e a chiederci di cosa avrebbero dovuto parlare le prossime canzoni. La risposta era molto più semplice di quanto immaginavamo: i viaggi. Quella cosa che per due anni ci ha portati lontano dall'Italia, a bordo di un furgone o di un aereo facendoci conoscere nuove nazioni e centinaia di persone".
Così Marcelo, voce e frontman della formazione, spiega quanto il viaggio abbia ispirato la band nella scrittura delle nuove canzoni, nate dopo aver vissuto esperienze indimenticabili tra Vecchio e Nuovo Continente. E se è vero che "ogni 100 metri il mondo cambia" - come afferma lo scrittore cileno Roberto Bolaño - gli ECE ci regalano una preziosa diapositiva raffigurante Paesi, persone e culture diverse che si sono intrecciate negli occhi e nel cuore della band nel corso di questi ultimi frenetici anni.
Il complesso archeologico della civiltà Inca è un luogo ricco di fascino e misticismo scelto dalla band come titolo del loro ultimo album proprio per il suo immenso valore simbolico. E anche se gli ECE non hanno ancora visitato la più alta montagna del Perù, poco importa: ” Se Machu Picchu non sarà davvero come pensiamo, se sarà tutta un’illusione frutto della nostra fascinazione, se alla fine resteremo delusi, chissenefrega”. In fondo, quel che conta è il percorso.
Perché, fra tutti i riferimenti possibili, proprio Machu Picchu?
Machu Picchu è da sempre il sogno nel cassetto, il viaggio mai fatto, l’occasione mancata. E di occasioni ne ho avute ben due, entrambe perse per un soffio a poche centinaia di chilometri. Questo sentimento di rimpianto per non esserci mai stato, col tempo, ha assunto dimensioni spropositate: ho iniziato a immaginarlo e, forse, a idealizzarla un po’ troppo. Magari quando arriverò a Machu Picchu sarà una delusione pazzesca, ma il punto di questo disco è proprio questo: nella vita immaginiamo e sogniamo tantissime cose, poco importa si realizzino o meno. Tutto quello che avremo fatto per provare a realizzarle diventerà, senza che ce ne accorgiamo, la nostra stessa vita. Questa idea ci ha elettrizzato molto, tanto da diventare il titolo del disco.
Invece, l’idea di parlare di viaggi in quest’ultimo lavoro è stata motivata anche dal particolare periodo storico che stiamo vivendo?
In realtà no, il disco è stato scritto e registrato nel 2018/2019, doveva uscire il 28 febbraio 2020. Purtroppo non è andata così. Non volevamo che un nostro disco, in particolar modo un disco che parlava di viaggi, uscisse durante una quarantena. Ora l’abbiamo pubblicato semplicemente perché non riuscivamo più a trattenerci.
A differenza degli altri album, le registrazioni di Machu Picchu sono avvenute in maniera più canonica. Avete riscontrato difficoltà?
È stato nuovo e bello lavorare così. Matteo Romagnoli ha insistito affinché mettessimo in standby l’attività live per scoprire meglio la dimensione dello "studio": avere tempo per provare, cancellare, riscrivere, aggiungere, togliere, ti permette di andare più a fondo. Alcune canzoni sono state stravolte, per poi tornare a suonare come nel primo provino; altre sono partite raccontando una cosa e oggi ne dicono un’altra. Anche le registrazioni sono state un viaggio: siamo partiti con un’idea, ci siamo persi, poi ritrovati. Non so bene dove siamo arrivati, di sicuro, ci siamo divertiti.
Quanto è importante viaggiare anche con la testa? In quest’ottica, nel disco assumete posizioni diverse nei confronti della tecnologia.
La tecnologia oggi “ci fa parlare con tutto il mondo”, ma non ci permetterà mai di capire del tutto l’altro, con i gesti, di capirsi al tatto e rispondere d’istinto. La tecnologia è pericolosa se diventa l’unico modo per relazionarsi. Dicono che la tecnologia ci connetta, è vero, ed è meraviglioso, ma ci spinge anche a stare davanti allo schermo, stare separati, ognuno nel suo angolo vivendo l’illusione che essere reperibili e connessi significhi “esserci”. Ormai pensiamo che connessione significhi presenza. Non è così, penso che i mesi di quarantena l’abbiano dimostrato. Abbiamo bisogno di sudare, di stringerci, di parlare con le mani. Io ho estremo bisogno di baciare qualcuno: anche adesso!
Scrivere a mente fredda, in un secondo momento, credete possa migliorare la capacità di analisi di un testo?
Sì, penso che da oggi in poi useremo l’arma della spontaneità e del rapimento emotivo nei concerti; useremo invece la tranquillità e l’analisi per scrivere dischi.
Al di là dell’aspetto “on the road”, in quest’album avete letteralmente lavorato in una maniera più “professionale” affidandovi a un direttore artistico, Fabio Gargiulo. Siete soddisfatti?
Assolutamente sì. La novità è che stavolta ci siamo presi il tempo di raccogliere tutto quello che abbiamo visto e vissuto girando. Ci siamo chiusi in studio per un anno a cercare un nuovo sound, e io a cercare le parole giuste. Prima abbiamo pre-prodotto il disco in studio con Ponz – Francesco Pontillo, il nostro bassista –, che in questi anni è diventato un produttore da urlo. Successivamente, grazie a questo step pregresso, siamo riusciti a presentarci a Fabio Gargiulo, che si è innamorato del progetto e ha prodotto e impacchettato tutto l’album in maniera fenomenale.
Ascoltando Machu Picchu, i primi riferimenti musicali che balzano alla testa sono Manu Chao e i Gogol Bordello. Quanto sono state importanti nella vostra formazione le esperienze con artisti di questo calibro?
Nella nostra prima fase questi due colossi della musica sono stati sicuramente importantissimi. Condividere palchi e tour con loro, sicuramente li ha fatti entrare per sempre in un posto speciale nel nostro cuore e nella nostra storia. Con Machu Picchu però abbiamo provato a esplorare anche altri mondi. Cercare nuovi stimoli, nuove sfumature di colore, se dovessi farti dei nomi citerei sicuramente Jorge Drexler, Residente, Natalia Lafourcade, Jain…
Che differenza si riscontra tra i pubblici esteri e quello nazionale?
All’estero c’è una diversa concezione della musica e dello spettacolo. Nascono locali e festival in posti impensabili. Il pubblico è spinto alla curiosità. non si pensa al “casino” o ad assurde misure di sicurezza. In Italia, invece, chi organizza, chi vuole fare qualcosa di bello, sta lottando da anni. Si lotta contro misure ingiuste, contro l’abbandono, contro l’idea che “di cultura non si mangia”, contro i fondi che non arrivano più. Si lotta tutti, dai titolari ai fonici, dai promoter al pubblico e si lotta con il cuore. Per questo penso che il pubblico italiano sia il più bello, nonostante tutto. Chi va a un concerto in Italia sta facendo ogni volta una piccola ma assordante rivoluzione.
E la vostra rivolta quale sarebbe?
Penso che la nostra rivolta sia essere una band che cerca di fare e scrivere musica positiva. Vogliamo portare il presobenismo al potere. Ed è difficile, anzi, difficilissimo. La musica italiana ha una lunghissima tradizione nostalgica, la cultura delle canzoni tristi dei grandi autori, che sicuramente amiamo, non fraintendeteci. Gli ECE però hanno un altro orizzonte. Picchieremo ancora di più sui fianchi, sperando che questo disco possa essere un bel gancio sinistro.
E L’aereo preso all’ultimo minuto per andare a vedere un concerto menzionato in 100 metri. Dov’era diretto?
Pulkkelpop 2007. Ero uno sbarbo. In tre giorni vidi i concerti dei signori: Iggy Pop, Smashing Pumpkins, Sonic Youth, Kings of Lion e non so quanti me ne sto dimenticando. Ma il concerto che aspettavo di più del festival è stato quello dei Nine Inch Nails: Trent era in formissima.
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L'articolo España Circo Este: "Il senso della vita sta nel viaggio che non faremo mai" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-11-10 14:48:00
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