Sulla vostra pagina Facebook avete pubblicato l'elenco dei costi sostenuti per realizzare "LEGNA", definendo quei soldi la spesa migliore della vostra vita, fatta sapendo che non avreste portato a casa una lira. Credo che quelle righe siano da leggere e rileggere e farle girare, perché ho il sentore che questa cosa si stia un po' perdendo. Il cuore sta finendo inghiottito dalla freddezza di troppa professionalità?
C: Beh, sono sincero. Io non conosco le storie degli altri gruppi, se non due o tre. Io non so quanto c'entrino i soldi col fare musica, col fare la musica che facciamo noi, e quella che fanno gli altri. Dalle mie parti, quando qualcuno ti chiede di fare qualcosa a gratis, la risposta più tipica è: "Non c'ho mica scritto giocondo in fronte". Ok: io non lo sapevo, ma quel giocondo sarebbe il termine per indicare: sciocco, credulone. Io da piccolo pensavo volesse dire: felice, contento. E in effetti è così, intendiamoci, ma non nel proverbio. Eppure la verità sta proprio qua: spesso, se fai certe cose a gratis, diventi giocondo. Se fai sempre tutto a gratis, magari sei anche cretino. O molto ricco. Ma quando decidi che a certe robe tieni così tanto, che dargli un prezzo, dargli un contenitore, dei confini, dei limiti, risulta svilente, allora, se le regali, sei più felice.
Quindi l'idea di regalarlo non è stata una semplice decisione in merito alla distribuzione...
C: Quando abbiamo capito che "LEGNA", prima di tutto, andava regalato, ci si è come riaperto il respiro. Avevamo facce inebetite e occhi sgranati, e la scritta giocondo in fronte. Ed era vero. Eravamo contenti. È stato un regalo che, alla fin fine, ci siamo fatti a noi stessi. Io da questo punto di vista mi sento abbastanza ecumenico. Se una cosa mi dà soddisfazione, la dico e ne faccio parte alle persone a cui interessa. Ma se un altro gruppo vuole fare musica per fare i soldi, e pensa che tutto debba essere regolato dai soldi, allora amen, faccia come crede. Certi gruppi possono pure funzionare come delle aziende. Se non sei produttivo, sei fuori. Se non sei affidabile, sei fuori. Ok, amen. Io non ci starei. Oppure sì, ci starei: ma a quel punto che arrivino anche un contratto, i contributi, la malattia, e cazzi e mazzi. I gruppi che vogliono fare le aziende possono fare quello che gli pare. Ma se ci lavori dentro, allora deve diventare una cosa seria, fatta bene e organizzata. E tutelata. Ma ai livelli che conosco io, non mi pare funzioni così. La cosa brutta? Che per tanti il lavoro fa schifo. E il rischio è che lavorare con la musica diventi uno schifo come gli altri.
Tutti voi fate altri lavori, giusto?
C: Sì, abbiamo altri lavori e anche altre passioni. Fare i Penguins però è sicuramente una di quelle che ci diverte di più.
Un giorno vi piacerebbe riuscire a campare grazie ai Gazebo? Oppure questo finirebbe proprio per togliere "il cuore"?
C: Sai qual è l'unico problema del lavoro? Che c'è tutti i giorni. Anche quando non vorresti. E arriva sempre un giorno in cui non vorresti. Anche se fai il lavoro più figo del mondo. Arriva sempre un giorno in cui non vorresti. E non puoi. Io faccio un lavoro che mi piace tantissimo. E farei molta fatica a dirti che lo mollerei per suonare. Però ho i miei giorni in cui mi sparerei su un piede, piuttosto che mettermi in macchina; ma va bene, ci sta. Mentre in tutta la mia vita non mi è mai capitato di volermi sparare su un piede per non dover andare a un concerto. O a fare le prove. O a registrare. Mai. Se qualcuno mi potesse garantire che, anche una volta che i Penguins fossero diventati la mia entrata principale, non ci sarà mai un giorno in cui mi vorrei sparare su un piede piuttosto che suonare, allora direi di sì: mi piacerebbe suonare per vivere. Ma non mi va di correre il rischio, per ora. Perché è troppo bello, così com'è.
Se doveste disegnare una linea per questo percorso iniziato nel 2006 con "Penguinvasion", che forma assumerebbe?
C: Curva di Gauss? Diciamo che ancora non sappiamo in quale punto della curva ci troviamo, ecco. La cosa ineluttabile è che, comunque, è destinata a scendere. A quel punto ci ammazzeremo.
Il nuovo suono è una vera e propria legnata, molto più tosto e grezzo di quello di "The name is not the named". Come è uscito?
C: Sicuramente avevamo dei pezzi strutturati in maniera diversa. Prima facevamo dei pezzi che partivamo ai 200 all'ora, crescevano fino ai 250, poi al limite scendevano un po' sui 180, e tornavamo a mille mila. E la cosa ci aveva un po' stancato. Abbiamo fatto dei pezzi più massicci e con più dinamica. Nel senso che in certi momenti si respira, fai in tempo a guardarti attorno, a raccogliere le emozioni. Anche il suono doveva rispecchiare questa roba. Ed è qui che è arrivato Francesco Burro Donadello, che si era ascoltato per bene i provini e aveva fatto le sue belle pensate per rendere "LEGNA" quello che è diventato. Certe soluzioni di ripresa, certi microfoni per la batteria, farci suonare tutti nel raggio di 3 metri o in stanze separate. Ogni pezzo ha un suo diario di registrazione, e Burro l'aveva pensato. E questa roba qui, di averci riflettuto a priori, ancor prima di entrare allo IAF, credo sia una delle cose più belle che Burro potesse fare per questo disco. Poi lui ne sa a pacchi, e anche quando improvvisava ne veniva fuori qualcosa di grande. Ma "LEGNA" è stato un disco meditato, ancor prima di iniziare a registrarlo.
Quale gruppo vi ha segnato a livello non solo musicale, ma anche attitudinale?
C: Ti diremmo una bugia se non dicessimo che ascoltare "SFORTUNA" dei Fine Before You Came sia stato un momento di formazione. Suona molto scolastica come cosa, ma un po' è stato così. "SFORTUNA" è stato importante perché era un disco in italiano di una band da cui non ce lo saremmo mai aspettato. E la cosa un po' lo svilisce, perché credo sarebbe stato un disco bellissimo anche in inglese. Eppure, così, per noi, è diventato un disco grandioso. "L'hanno fatto: si può fare", questo è stato il pensiero, secondo me, di tanta gente che suona. Cantare in italiano significa qualcosa, anche se non mi è ben chiaro cosa. Prima si scherzava, dicendo che abbiamo cantato in italiano per vedere la gente che ti canta in da la fazza durante i concerti, ed è indubbiamente vero. Anche quella minchiata della coazione a ripetere forse è vera. Ma, soprattutto, è la faccenda del cantare in inglese che, a rifletterci un attimo, è veramente straniante. Perché è come essere a un pranzo e metterti a mangiare in piedi sulla sedia. Cioè: fai qualcosa che non ti viene naturale, che non è "normale". Eppure la fai, e non ti fai neanche troppe domande, e va bene così. Cantare in italiano però vuol dire altro: vuol dire essere più trasparente. Non voglio dire nulla contro chi canta in inglese, né voglio lasciar intendere che chi canta in inglese fa qualcosa di inferiore, perché non è cosi, e perché ognuno canta come gli tira. Però… c'è qualcosa di diverso, che va definito bene. Mi permetti una citazione di Roland Barthes? "Nell'istante in cui casualmente, prende corpo in me una frase 'riuscita' (nella quale io credo di scoprire l'esatta espressione di una verità), questa frase diventa una formula che io ripeto in proporzione del grado di acquietamento che essa mi dà (trovare la parola giusta rende euforici); io la rimastico, me ne nutro". Trovare la parola giusta, esatta, rende euforici. Ecco, io credo che cantare in italiano sia più nutriente.
Un'ultima curiosità. Vivendo tra Correggio e Zocca, Ligabue e Vasco Rossi li avete incrociati qualche volta? E se non li aveste incrociati di persona, non crederò mai che nei tempi dell'adolescenza non vi sia mai capitato di invischiarvi nelle loro ballatone.
C: Ligabue sì, l'abbiamo incrociato. Spesso veniva a correre nel campetto dell'U.S. San Martino, dove giocavo anch'io. Però se sei uno sbarbo e fai indie rock, com'eravamo allora, era vergognoso anche solo salutarlo. Dovevi ignorarlo per principio. Vasco invece per il momento ancora niente. Sto vicino a Zocca da solo 3 anni, ci sono le sue foto in tutti i bar e in tutti i ristoranti, e in tutte le edicole mettono fuori ogni roba che lo riguarda, i tabaccai hanno una fornitura inesauribile di accendini di Vasco. Però non sono mai riuscito ad ascoltare Vasco. Non mi piaceva niente. Ligabue invece l'ho ascoltato parecchio, e sapevo anche tutti i pezzi di "Buon Compleanno Elvis" con la chitarrina (il che non è un'impresa chitarristica). Adesso c'è un'inversione. Non proprio speculare, ma un'inversione comunque. Il Liga non lo posso sentire. Neanche Vasco lo ascolto granché. Però dopo quel video che fatto dove si umetta le sopracciglia mi ha preso benissimo. E poi, tra amici, Vasco è diventato una sorta di metro di paragone, tipo un gradiente: si chiama vascorossity. Più ne ha, e più un pezzo è figo. Paura.
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L'articolo Gazebo Penguins - Evviva la Legna, Pt. 2, 27-05-2011 di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2011-05-27 00:00:00
COMMENTI (3)
e buoni
belli e bravi
Un amico ci ha parlato di voi. Poi dev'essere successo che ci siamo innamorati della vostra musica! "Legna" spacca