Oggi arriva “Forse non è la felicità”, il nuovo album dei Fast Animals And Slow Kids. Esce ad appena due anni dall’ultimo “Alaska” e la cosa, un po’, ci stupisce: li avevamo incontrati a inizio 2016 e ci avevano detto che si sarebbero presi una lunga pausa per ricaricarsi e rimettere bene a fuoco le cose da dire. Poi, in pochissimo tempo, queste nuove canzoni sono nate nel mondo più spontaneo e immediato possibile. “L’idea era proprio quella di fermarci fino data da destinarsi” - commenta Aimone - “poi abbiamo iniziato a suonare, così, solo per il divertimento di farlo. Non avevamo nessun riff da parte o idee da sviluppare. Abbiamo rimontato la sala prove e tutto è nato naturalmente, come non ci accadeva da tempo”.
Anche se difficilmente li prendereste sul serio, sono dei gran lavoratori e ogni loro disco ha sempre avuto alle spalle un’organizzazione rigida e schematica. La prima volta che hanno provato a cambiare metodo, facendo tutto con più calma, si sono stupiti dei loro stessi risultati: “Di solito per riuscire a scrivere un disco in un mese dovevamo correre” - spiega Jacopo - “Questa volta volevamo prenderci molto più tempo e invece tutto si è risolto nelle stesso numero di settimane, anzi abbiamo avuto anche dei giorni in più per riascoltare bene le canzoni e prepararci al missaggio”.
Ci tengono a precisare, però, che la nomea di cazzoni è più che corretta: “Non c’è niente da capire, siamo esattamente così” - continua Aimone - “in alcune cose mettiamo talmente tante energie che, poi, diventiamo dei perfetti coglioni in tutte le altre. È un po’ come succede in un gruppo di amici: anche nel momento più serioso capita sempre che uno se ne esca con una puttanata”. “È come una classe di liceo”, precisa Jacopo, ed è probabilmente una delle immagini più puntuali e genuine per raccontare il loro approccio alla musica, oltre ad un buon punto di inizio per raccontarvi la nostra intervista ai Fast Animals Slow Kids.
Guardando i vostri video si capisce che ci tenete molto a ribadire un’immagine genuina e senza filtri, è così?
Aimone: Per me è una cosa importante. Quando in una band capisci che c’è qualcosa di puro, anche il suo messaggio musicale si rafforza.
Alessandro: Non riusciamo ad essere in altri modi. Ci abbiamo provato ma ci sono mezzi espressivi che proprio non sappiamo governare. Ogni volta che abbiamo cercato un’immagine più seriosa o più patinata, poi non ci rappresentava davvero. Mi ricorda la storia dei Replacement, loro volevano diventare a tutti i costi un gruppo famoso, tipo i R.E.M., ma non facevano altro che auto-sabotarsi in maniera ridicola.
Jacopo: Dei R.E.M. però condividiamo il fatto di dividere sempre tutto il lavoro in parti uguali. Non c’è un vero leader, non ci saranno mai degli scazzi, se non per motivi personali.
Litigate spesso?
Jacopo: Vuoi sapere quante volte abbiamo litigato oggi? Almeno una decina. Noi tendiamo scherzare fino a quando uno di noi non si stufa e si incazza.
Aimone: Succede anche perché c’è una “burocrazia interna” tale che spesso ci porta a dei livelli di complessità assurdi. Ogni cosa, che sia un giro di chitarra o una linea vocale, deve essere decisa tutti insieme.
Almeno siete democratici, no?
Aimone: Non è democrazia, è quasi un atteggiamento da mafiosi. Si creano delle micro-alleanze per convincere l’uno o l’altro a votare come vorresti tu.
Alessandro: In pratica è "Game Of Thrones" (ride)
È risaputo che non vi piace parlare di cose troppo intime, con un disco del genere però è quasi obbligato.
Aimone: Dobbiamo proprio?
Arriviamoci a piccoli passi, si può dire che è un disco triste?
Jacopo: Non è un disco spensierato ma, di base, è felice.
Aimone: Di sicuro è una delle cose più “non tristi” che abbiamo mai pubblicato. Si percepisce un senso di catarsi molto più profondo rispetto a quello che potevi percepire in “Alaska” dove c’era un equilibrio maligno tra quello che poteva sembrare positivo ma che poi, in realtà, non lo era. “Alaska” era un disco chiuso in se stesso, un mattone che se ne stava fermo, immobile. “Forse non è la felicità” è più aperto e percepisci un pensiero che si evolve.
“Alaska” l’ho sempre considerato un disco rabbioso, di quella rabbia tipica di chi vuole ferire per non essere ferito. “Forse non è la felicità” mi sembra più il racconto di una persona che guarda in faccia la sua sconfitta, sbaglio?
Aimone: Non sbagli, può essere un buon punto vista. Il protagonista non si chiede più se è contento o meno, semplicemente prende atto di trovarsi in una certa condizione. Già accettandola fa uno step in avanti rispetto a dov’era prima. È così che fanno le persone adulte, no?
In molte canzoni emerge una paura di invecchiare piuttosto evidente, non è un po’ presto per la crisi di mezz’età?
Aimone: Anche se ho solo 28 anni non mi sono mai sentito giovane. Siamo persone nostalgiche e spesso la nostalgia influisce sulla percezione della tua età. Non è un rimpiangere i bei tempi andati, è un tipo malinconia diversa.
Alessandro: Prendi Bruce Springsteen in “Thunder Road” cantava “we ain't that young anymore” ma quando l’ha scritta aveva appena 22 anni, per noi è lo stesso.
Un altro tema ricorrente è saper riconoscere i propri errori. Vogliamo parlarne?
Aimone: Per quanto mi riguarda gli errori muovono più emozioni delle grandi vittorie. Non so spiegarti il perché, ma è così. Non è necessariamente una visione pessimistica, so che gli errori portano sempre ad un miglioramento ma nella mia mente mi ricordo più facilmente gli sbagli rispetto a quelle volte dove, invece, ho fatto bene qualcosa.
Ritorna spesso anche l’immagine del “Sorriso storto” e quella della montagna, ovvero l’idea che preferiate rimanere in bilico con la paura di cadere piuttosto che trovare una vostra stabilità.
Alessandro: Guarda qui, tanto dritto non è (mostra il suo sorriso). Non starei nemmeno troppo a dilungarmi sull’idea di stabilità, sai? Uno ragiona spesso sull’importanza di raggiungere o meno la sua vetta ma poi si rende conto che, probabilmente, quella vetta non esiste nemmeno.
Vivere costantemente senza punti di riferimento non è faticoso?
Aimone: Sono d’accordo ma è così, non penso che una persona scelga di mettersi in una condizione simile, ci si ritrova. Uno impara ad accettare i propri limiti e i limiti, come dico in “Ignoranza”, “mi danno da mangiare”. Il fatto che io mi comporti sempre nella nella stessa maniera, emotivamente parlando, è utile. Mi permette di essere più prevedibile e di guarire prima, non so se sono riuscito a spiegarti.
“Annabelle” racconta di una storia d’amore finita male?
Aimone: Chiaro, prossima domanda? (ride)
“Fiumi di corpi” invece è la canzone più speranzosa del disco, almeno su questo siamo d’accordo?
Aimone: Beh, cazzo, sì, è super speranzosa. Anche se puoi intravedere un cambio di prospettiva che ti riporta ad una realtà più cupa, quella canzone ti fa capire che se vuoi cercare la strada per la felicità puoi trovarla. “Forse non è la felicità” ma almeno hai tante strade possibili da percorrere, anche se sono piene di neve.
Parlando di felicità, qual è la cosa più bella in assoluto del fare musica?
Aimone: Il concerto, ne sono sicuro. Devi sapere che ho il cosiddetto “stacco del quarto pezzo”, i primi tre brani della scaletta mi cago addosso, dal quarto in poi non mi ricordo più niente. È una sensazione fighissima, è come se non percepissi più niente e fluttuassi per aria.
Quindi l’ansia da pre-concerto non passa mai?
Jacopo: Anzi, peggiora nonostante i tanti anni di esperienza.
Aimone: Io non ci credo che non una band riesca ad abituarsi ai propri concerti. Non penso che a noi accadrà mai.
Questo nuovo disco come sarà dal vivo?
Aimone: Adesso che con noi c’è anche Daniele al piano, mi sento più sicuro. All’inizio ero preoccupato perché tutte quelle parti di pianoforte non erano facilmente sostituibili dalle chitarre. Per me non c’è cosa peggiore di fare un disco che poi, dal vivo, delude le aspettative. Per questo preferisco sempre limitarsi negli arrangiamenti ma essere sicuri di raggiungere un certo risultato.
Visto le classifiche di Spotify, in Italia come nel mondo, questo non sembra un buon momento per il rock. Voi come la vedete?
Aimone: Non ce ne è mai fregato un cazzo (ride). Sarà che abbiamo sempre vissuto per conto nostro a Perugia. Non siamo isolati dal mondo, sia chiaro, sappiamo che ora la gente ascolta sostanzialmente hip hop o elettronica ma, nonostante questo, non abbiamo mai avuto problemi di pubblico.
Se i Fast Animals fossero nati a Roma o a Milano sarebbe stata la stessa cosa?
Aimone: Saremmo saltati in aria subito. Perugia, a suo modo, è un ambiente protettivo. Le persone che hai davanti ai concerti sono le stesse che con cui prendi il caffè al bar il giorno dopo. Con chi vuoi darti delle arie? Se fai il coglione ricevi subito gli schiaffati correttivi che ti rimettono in riga. Siamo cresciuti con le “band di quelli più grandi” - le abbiamo sempre chiamate così - che ti consigliavano i pedali o gli amplificatori. Questa sorta di “educazione siberiana” in chiave perugina per me è stata molto importante.
Stare sempre in mezzo alle stesse persone però non ti fa patire ancora di più il giudizio degli altri?
Aimone: Certo, se i tuoi cosiddetti “fratelli maggiori” sono degli imbecilli è terribile. Devo dire, però, che a noi è sempre andata bene. Con il tempo ovviamente ci siamo confrontati anche con un range di realtà più ampio, ma molti di quelli che mi hanno visto suonare per la prima volta continuo a sentirli regolarmente e tengo sempre in considerazione i consigli che mi danno.
Negli anni avete sicuramente trovato un vostro stile e un vostro sound, ci sono però delle band che oggi potete considerare come i vostri riferimenti più importanti?
Jacopo: Sicuramente i Titus Andronicus, da “Hybris” in poi è sempre stata quella band che cerchiamo di eguagliare e non ci riusciamo mai. Poi i Japandroids, i Cloud Nothings, o gruppi più vecchi come Replacements o Hüsker Dü.
Aimone: Periodicamente sento il bisogno di riascoltare “Relationship of Command” degli At The Drive In.
Alessandro: Ultimamente sto ascoltando molto i Big Star e i dischi solisti di Alex Chilton, o gli Waterboys.
Nel comunicato stampa dite che siete stati anche influenzati dalle colonne sonore dei film sulle proteste sociali in Inghilterra. È solo una frase ad effetto per attirare la stampa generalista?
Aimone: (ride) È riferita a “Giorni di gloria” che ha quel ritmo un po’ folk punk, è poi nel testo c’è la parola “manifestare”, che è una parola pericolosissima perché in un automatico diventi la Bandabardò in piazza con il pugno alzato. In realtà è una canzone che si muove in un contesto emozionale diverso, racconta di un ipotetico genitore che vede sua figlia al ritorno dalla sua prima manifestazione e così si ricorda di quando ci andava lui. A prescindere dalla connotazione politica, è un’immagine tenera, vuol dire che tu ripercorri delle tue emozioni tramite la vita di tuo figlio. Ne parlavo tempo fa con mio padre e mi aveva fatto capire che, quando succede, è qualcosa di sconvolgente.
E di “11 giugno” cosa mi dici?
Aimone: Lo sapevo che che me l’avresti chiesta, quella è super pesante. L’ho scritta la notte del mio compleanno dopo una giornata terribile. Devi sapere che io da bambino facevo le migliori feste di tutta Perugia, quella sera invece mi sono trovato di colpo a tirare le somme, del tipo “guarda come cazzo sei diventato?”. È una canzone che parla di cambiamento.
Parlando di canzoni tristi, quali sono le vostre preferite in assoluto?
Jacopo: Ti direi “I see the darkness" di Bonnie ‘Prince’ Billy o tutte quelle di Hayden Desser.
Aimone: “Last goodbye" di Jeff Buckley, è un po’ banale come scelta ma ogni volta che la ascolto mi devasta l’anima, o anche “My Ma” dei Girls.
Alessandro: Qualsiasi canzone di Elliott Smith,“Indipendece day” ad esempio. Poi “Here Comes A Regular" dei Replacements, “Holocaust" dei Big Star, tristissima, e “How to disappear completely (And Never Be Found Again)” dei Radiohead.
Alessio: “The Funeral” dei Band of Horses.
(scoppiano a ridere)
Perché ridete?
Aimone: È uno dei motivi per cui lo prendiamo sempre per il culo. Ci tiene a ricordarci che quando ha avuto problemi con la sua ragazza ha postato quella canzone su Facebook. Lui sembra il ragazzo il triste, con quei suoi due occhi da gufetto, ma in realtà ti fa sempre ridere. Scrivilo nell’articolo, è importante che il mondo lo sappia. Tutti intervistano me, ma in realtà dovrebbero parlare di più con Alessio, lui ti rende la vita stupenda.
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L'articolo Fast Animals And Slow Kids - L’educazione siberiana a Perugia di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-02-03 10:40:00
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