Father Murphy e l'elogio della scelta: parabola sonora di una band certo non tranquilla

O di come una band debba fare determinate scelte per andare avanti. Così potrà scrivere la sua storia o, se volete, la sua parabola. Oggi esce Croce, il nuovo album dei Father Murphy, ce lo raccontano in questa intervista.

Father murphy croce senso di colpa religione
Father murphy croce senso di colpa religione

Federico Zanatta ci racconta “Croce”, il nuovo album dei Father Murphy in uscita oggi in Italia. Si parla di religione – ovviamente – e di senso di colpa e di pentimento. Di come si è evoluto il loro suono negli anni e di quella volta che hanno camminato per ore in mezzo alla campagna del Kansas solo per vedere la (presunta) casa di Burroughs. Si parla anche di cartoni animati. L'intervista di Sandro Giorello.

L'ep del 2014 era dedicato al fallimento, questo si intitola “Croce”. Se partissimo da una domanda semplice del tipo: mi racconti la parabola del personaggio Father Murphy?
Ci provo. In “Anyway your children will deny it” (2012) si è affrontata la possibilità che il nostro protagonista, Father Murphy, diventasse un eremita che abbandonava la società civile per poi tornare, in seguito, con un suo credo: non proprio una nuova religione ma quanto meno un tipo di verità da trasmettere ai suoi, tra virgolette, fedeli. Il passo successivo è stato capire che questa verità, l'avere dei dogmi, lo riportava in quel loop che – detto in una maniera molto superficiale – contraddistingue determinate religioni: ad esempio, i vari corsi che ha avuto il cristianesimo e sopratutto come si è sviluppato negli Stati Uniti. Da qui nasce l'ode al fallimento raccontata in “Pain is on our Side now”, l'ep dell'anno scorso. E poi si arriva a “Croce”, lo step successivo.

In “Pain is on our Side now” l'idea fallimento lo traducevate dando la possibilità a chi comprava il (doppio) disco di far suonare in contemporanea i due vinili e così, sommando le quattro canzoni tra di loro, si ottenevano due altre canzoni (che riportate anche nella versione digitale dell'ep). Il significato di tutto questo è?
Volevamo esprimere l'idea del fallimento anche da un punto di vista sonoro. Se tu metti un vinile per piatto e li fai partire entrambi, tutta una serie di micro-ritardi – del braccio, di quando schiacci play, etc. - faranno sì che la somma delle due tracce non sia mai uguale. Rappresenta la possibilità che tu possa ricreare ogni volta una versione diversa, e vuole dirti che, anche se sbagli, puoi rifarlo. L'obiettivo era costruire le tracce in modo che armonicamente funzionassero sia da sole, che insieme. In più abbiamo collaborato con musicisti esterni a cui non abbiamo voluto far ascoltare cosa si sarebbe suonato sull'altra traccia. Ci siamo presi il rischio che l'insieme, poi, non funzionasse. Volevamo dare una rappresentazione sonora al concept, qualcosa che andasse oltre alla spiegazione che puoi trovare nel libretto allegato. E il messaggio è: se sbagli non sei morto, non devi attenerti ad un certo dogma, puoi rifare le tue scelte tutte le volte che serve e ripartire.

Perché è importante, per voi, avere una parabola che guidi le canzoni?
Noi attingiamo ad un immaginario che consideriamo nostro e, a partire da questo, costruiamo una storia; sta a te dargli il peso che vuoi. Ti racconto questo esempio: una volta ho letto nell'antico testamento un passo dove si diceva che solo 144 milioni avrebbero avuto accesso al regno dei cieli. Ho chiesto al prete perché proprio quel numero, dicendogli che erano pure pochi 144 milioni rispetto ai miliardi che siamo sulla Terra. Lui mi ha detto che per la religione 12 è un numero che esprime abbondanza e 12 al quadrato esprime molto di più del semplice 144. Quindi, per chi scriveva a tempi, 144 milioni voleva rappresentare un numero altissimo, in pratica tutti gli abitanti della Terra. Io ho studiato filosofia e mi sono sempre appassionato a questo tipo di scritture, mi piace l'idea che una storia abbia una sua potenza evocativa e che il suo significato possa essere visto in più modi, anche con la giusta dose di ironia.

E la storia di "Croce" come va interpretata?
È un simbolo che ognuno può interiorizzare. Per noi è il sacrificio, o l'aver capito che solo tramite il sacrificio puoi arrivare a qualcosa che consideri veramente tuo, liberandoti dai vari dogmi o dalle verità che potrebbero essere indotte dalla famiglia, dalla società, o da altri.



Avete mai affrontato nei vostri dischi il tema della non-scelta, ovvero quel limbo che porta le persone a galleggiare apatiche senza mai approdare a niente?
Direi di no, se non nel primo disco che considero nato in un periodo di incubazione dove non avevamo ancora chiaro il percorso che volevamo fare. Tutti gli altri dischi hanno trattato, in qualche modo, il tema della scelta: sia a livello concettuale che sonoro. Che poi è un discorso che influenza anche la vita normale della band: come fare i tour, che agenzie scegliere, etc.

Che sono scelte che ogni band deve fare e non per forza ci costruisce una parabola dietro, o no?
Dipende, ce ne sono alcune a cui queste scelte pesano molto, altre a cui non pesano per niente. Ho fatto il tour manager per alcune band straniere in Italia e capitava che dovessi decidere tutto per loro: da quando fare i day-off, a come fare promozione, fino a dirgli come mettersi in posa per le foto. Al contrario ci sono band come i The Ex che in 30 anni di carriera hanno deciso di avere sempre il polso della situazione e prendere ogni decisione in prima persona.

Gli Ex sono un ottimo esempio in tal senso, è vero. Tornando ai vostri dischi: la componente noise è cresciuta album dopo album.
Esattamente.

Parallelamente anche il vostro rapporto con il ritmo è cambiato: se ai tempi di "...And He Told Us To Turn To The Sun" erano molto importanti le pause e cercavate una precisione quasi ossessiva, dopo vi siete più avvicinati al flusso di rumore puro. È corretto?
È corretto, già in “Pain is on our Side now” Vittorio non suonava più la batteria. Volevamo cambiare questo rapporto con il ritmo e questa ricerca abbastanza maniacale degli stop&go e dell'incastro di determinati elementi ritmici. Vittorio ha iniziato lavorare su suoni singoli che, messi insieme, creassero un ritmo. Quando, poi, ha deciso concludere il suo percorso con noi, Io e Chiara abbiamo continuato su quest'idea portando quell'album dal vivo in due. Durante quel tour abbiamo scritto “Croce”.

Ci sono alcuni pezzi di "Croce" – ad esempio “Solitude” - che immagino siano molto complicati da riprodurre dal vivo.
Quella in effetti non la facciamo. È l'unico brano che abbiamo registrato dal vivo: era come un'istantanea di quel momento e abbiamo preferito non riportarla live.

Però quando avete suonato qui al Dal Verme di Roma c'era un arpeggio che la ricordava molto.
È vero. In realtà funziona così: tanti nostri brani sono composti da moduli e non è detto che dal vivo si vada a riproporre sempre l'intero pezzo ma solo alcune parti. Ad esempio alla coda di “Long May We Continue” aggiungiamo una parte di arpeggio che ricorda “Solitude”. Noi possiamo prendere determinati elementi - uno stacco ritmico, una parte vocale, un assolo – ed inserirli quando ci servono durante la performance. Se ad esempio c'è un momento dove ho bisogno di riprendere fiato posso decidere di cambiare il brano inserendo una parte di chitarra in più. Sono cose che possiamo decidere al momento durante l'esibizione.

Quindi ci sono delle parti improvvisate?
Ci piace l'idea di partire da qualcosa di scritto, di molto rigido, ma questa struttura ha delle maglie che possono dilatarsi o restringersi a seconda dell'esibizione. Non è un'improvvisazione totale ma possiamo giocare con alcuni fattori e dirigere l'esibizione come ci sembra necessario.

keshiro musica noise
keshiro musica noise


Siete una band che suona più all'estero che Italia, dopo la pizza ed il mandolino volete esportare anche il senso di colpa e l'idea di sacrificio?
(ride, NdA) Ti dico, più suoniamo all'estero e più ci dicono che si sente che siamo italiani. Io penso sia dovuto al fatto che se mi chiedi qual è la prima musica che ho ascoltato, io ti rispondo quella da chiesa. Sia io che Vittorio cantavamo nel coro, a mio avviso è attorno all'organo e a questi ritmi un po' da marcia che si è creato il suono dei Father Murphy. Per quanto riguarda il senso di colpa cattolico – e ne parlavo tempo fa con Onga di Boring Machines e con altri gruppi di quella che adesso chiamano la scena occulta psichedelica italiana – la religione c'entra, ma c'entrano anche certi cartoni che guardavamo da piccoli. Sai, l'idea che la vita è sacrificio...

Vuoi dirmi che dopo le parabole, i 144 milioni di persone in paradiso, le religioni ed i discorsi sul fallimento, i Father Murphy sono stati influenzati da Holly e Benji?
Holly e Benji è già più recente, ti direi Kenshiro, Danguard, Jeeg robot, anche Candy Candy.

Candy Candy?! Guarda che lo uso come titolo dell'intervista.
(ride, NdA) Non sto dicendo che Candy Candy sia una delle nostre influenze cardine, è chiaro... Quelli erano cartoni nati in Giappone e, secondo me, non per forza sono stati pensati per bambini piccoli. Non entro nel merito di chi li ha importati in Italia, ma quel tipo di immaginario - il debole che soccombe, la vita durissima, sacrificarsi per salvare il più giovane... sto facendo un medley dei vari cartoni che posso ricordare – mixato al sacrificio di Gesù o all'idea di pentimento che la Chiesa ti insegna a catechismo, tutto insieme può creare un substrato di un certo tipo, ecco. E nel tempo mi sono accorto che è una prerogativa solo dell'Italia e che altri paesi europei, la Francia o l'Inghilterra ad esempio, vivono la religione in maniera diversa dalla nostra. Per fari un esempio: in Inghilterra abbiamo suonato in una chiesa, ed era il parroco stesso ad aver organizzato la data. In Italia abbiamo suonato per la prima volta quest'anno in una chiesa ma era comunque una chiesa sconsacrata.

Il vostro live è sicuramente particolare: da un lato, immagino, che per alcune cose sarà come per tutte le band rock che ripropongono dal vivo una canzone, dall'altro, però, ci sarà un lavoro emotivo non indifferente se ogni volta dovete ricreare quel tipo di tensione. Come funziona?
In questi ultimi due tour gli spettacoli hanno sempre più preso la forma - permettimi il termine - di una pièce teatrale. Prima di iniziare dobbiamo fare tutta una serie di esercizi sul respiro e su determinati muscoli per riuscire, poi, a tenere la tensione per i tre quarti d'ora del concerto. Il live è un unicum, non ci sono pause: si parte su certi toni per poi arrivare man mano ad uno sfogo, anche emotivo. Devi essere allenato per tenere la tensione fino ad arrivare a sfogarla sul finale. L'obbiettivo è che semplici note possano ricreare un'atmosfera come vogliamo, che riesca ad essere cervello, cuore e anche stomaco. Ovviamente ogni sera vorresti rievocare la stessa atmosfera, e quindi sforzi te stesso per provare determinate sensazioni, che poi le sono le emozioni che sottendono ai pezzi.

Immagino che l'attenzione del pubblico giochi un ruolo importante.
Sì, idem per la situazione tecnica sul palco: se mi sento bene non c'è problema, se invece sono costretto ad andare a memoria perché non sto sentendo quello che sto suonando cambia tutto. Se il tuo cervello deve concentrarsi su altri aspetti non riesci a lasciarti andare, se invece sei in una situazione ottimale il cervello “non serve” e puoi dedicarti meglio alla tua esibizione. L'obiettivo è diventare un professionista tale per cui riesci a ricreare la medesima atmosfera anche se non c'è un buon impianto o se hai davanti un pubblico chiacchierone.

L'ultima volta che ci siamo visti eri stupito dal fatto che, in America, tour dopo tour, il pubblico sia sempre cresciuto. È normale o non è una cosa da dare mai per scontato?
Più che stupore, ero contento. Perché questo tour l'abbiamo fatto da headliner mentre in quelli prima eravamo di spalla a gruppi come gli Xiu Xiu, i Dirty Beaches ed i Deerhoof. In quelle date c'era tantissimo pubblico che ci conosceva – le tre band hanno sempre parlato bene di noi nelle interviste, e poi abbiamo pure fatto uno split con gli Xiu Xiu – ma non era venuta al concerto per noi. Ora vedere una buona affluenza solo per il nostro concerto è stata la conferma che in questi anni abbiamo lavorato bene sull'America. E poi quest'anno ci ha fatto piacere notare che c'erano tantissimi ragazzini, ed è una cosa che succede solo negli Stati Uniti. In Europa – tolto la Scandinavia e l'Inghilterra – l'età media è 25-30, anche 35.

In Italia come va?
Molto bene, negli ultimi anni l'abbiamo sentita molto più vicina: a livello di pubblico, di stampa e di promoter; e tieni presente che i dischi hanno intrapreso una via, direi, più ostica. Non facciamo sempre 150 persone ad ogni data e sappiamo benissimo che se suoniamo nel paesino di lunedì sera ci saranno solo i pochi appassionati che ascoltano il nostro tipo di musica, ma non possiamo lamentarci. Solo a casa nostra, in Veneto, abbiamo dei problemi di pubblico, ma siccome ho un rapporto abbastanza conflittuale con la mia regione direi che va bene così (ride, NdA).

Economicamente il gioco funziona?
Va bene perché facciamo tanti live, il problema – ed immagino sia lo stesso per tanti musicisti – è quando non fai tour. La maggior parte delle entrate arrivano dai concerti, anche le vendite le fai prettamente in quelle occasioni. Ultimamente stiamo iniziando a lavorare su alcune colonne sonore e vorremmo sviluppare meglio la cosa, anche perché non potremo continuare a vivere sempre in tour. Tutte le cose hanno un inizio e una fine: adesso facciamo una media di 120-150 concerti l'anno, non potremo permettercelo per sempre.

La cazzata più grande che avete fatto in tour?
Ne abbiamo fatte tante. Una volta, quando eravamo in tour con Dirty Beaches e Xiu Xiu, eravamo a Lawrence, in Kansas, la città dove è morto William Burroughs. Una ragazza voleva portarci a vedere la casa Burroughs, inizialmente le abbiamo detto di no ma lei ha talmente insistito da convincerci. Abbiamo fatto un'ora di cammino per arrivare a questa casa e renderci conto che ormai gli Xiu Xiu avevano già suonato e che il proprietario del locale se ne era già andato lasciando i nostri strumenti chiusi nel club. Noi dovevamo partire la sera stessa per un viaggio in macchina di 12 ore per raggiungere la tappa successiva. È stato un delirio riuscire a recuperare il proprietario, i nostri strumenti e ripartire di corsa. Il tutto per andare a vedere una casa sperduta in mezzo alla campagna che, anche se fosse stata davvero la casa di Burroughs, era pur sempre solo una casa di campagna.

Mai parlare con gli sconosciuti?
Bravissimo (ride, NdA).

Io ti ho conosciuto ad un reading dove si predicava l'estinzione della razza umana, la mia domanda è: ma un figlio tu e Chiara?
(ride, NdA) Esatto sono ancora a quel reading lì; no, non è possibile.

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L'articolo Father Murphy e l'elogio della scelta: parabola sonora di una band certo non tranquilla di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-03-17 12:18:00

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