Se mettete insieme tutte le visualizzazioni collezionate dai brani che Federica Abbate, classe 1991, ha scritto per altri interpreti, si raggiunge la cifra record di 400 milioni di views. Un numero importante con cui confrontarsi soprattutto per una persona che per tutta la sua vita si è sentita strana e fuori luogo ovunque. Adesso Federica ha deciso di uscire da dietro le quinte e portare fuori le sue canzoni, scritte per se stessa con una estrema libertà di espressione. Perché sentirsi fuori luogo non significa di certo non saper stare al mondo o fallire nella vita, ma anzi, la rivincita di questa outsider dimostra che la via è quella di accettarsi per quello che si è. In attesa di ascoltare le sue canzoni dal vivo per lo showcase esclusivo organizzato da Rockit e Carosello Records all'Apollo Club di Milano (ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria), nella cornice della prima Music Week in città, l'abbiamo intervistata.
Che cosa sognavi di fare da grande quando avevi otto anni?
È strano da dire, ma io sognavo tantissimo di vivere di musica. È stata una passione nata all’improvviso. Avevo un pianoforte in casa, e ho iniziato a suonarlo già a tre anni da sola, una mattina qualunque. I miei genitori hanno chiesto dove avessi imparato a suonare e io ho indicato la televisione. Avevo questo strano dono che poi ho scoperto essere l'orecchio assoluto, per cui adoravo riprodurre le cose che ascoltavo.
E hai continuato così, da autodidatta?
Tutti mi dicevano di iscrivermi al conservatorio e studiare pianoforte, ma non ero così brava nel solfeggio e nella tecnica, studiare non faceva per me. Ho scoperto che non mi serviva riprodurre, ma mi serviva a creare. Il pianoforte non era un fine, ma un mezzo. Da piccola poi ero una frana, ero chiusa rispetto al mondo esterno. Ero una bambina non timida, ma che viveva nel suo mondo. La musica è stata quel canale che mi ha permesso di uscirne, di comunicare con gli altri.
E gli studi accademici quindi sono stati accantonati...
Non ero capace, avevo delle lacune, un po’ come nella matematica. L'esecuzione è matematica, mentre la creatività va tutta da un’altra parte.
Come formazione pop invece, mi dici tre dischi che per te sono stati fondamentali durante l'adolescenza?
I più importanti in assoluto sono stati Dido, Moby e The Corrs, questi ultimi in particolare mi facevano impazzire (ride).
Ne deduco che la commistione tra pop ed elettronica sia stata fondamentale per te sin dall'inizio, come dimostrano sia i tuoi brani che quelliche hai scritto per gli altri. La tua strada tra l'altro è alla rovescia, perché prima di arrivare a un disco tuo hai firmato delle hit incredibili per altri artisti e quindi parti con una credibilità molto forte come autrice. Qual è il rovescio della medaglia?
L’aspettativa è alta, ma non l’ho vissuta con un senso di ansia eccessiva. Essendo una cosa che mi piace fare l’ho vissuta come forma liberatoria: adesso finalmente è arrivato il momento di farmi conoscere tramite le cose che non passano attraverso il filtro degli altri. Posso manifestarmi liberamente. Il rovescio della medaglia è sempre legato al fatto che in questo momento tante persone tendono a conoscermi di più per le cose che ho fatto, quindi c’è il desiderio forte che le persone imparino a conoscere me, Federica, Federica con la canzone che ha scritto per se stessa.
Da questo punto di vista ti preoccupano di più le aspettative che hanno gli altri verso di te o quelle che hai tu verso te stessa?
Entrambe le cose. Ho lavorato quattro anni dietro le quinte quindi non mi sono mai confrontata con il palco, con il mondo esterno. Quando tu metti sul mercato una scrittura che ha già tanto successo si amplificano anche le aspettative degli altri. Da parte mia c’è stata una ricerca di un ulteriore mondo musicale, perché anche se le canzoni le ho scritte io, ormai appartengono a qualcun altro. Ho voluto allora scrivere cose che altrettanto funzionassero e ovviamente spero di esserci riuscita. Soprattutto volevo canzoni che mi rappresentassero per quella che sono, una ragazza giovane che ascolta cose giovani e che ha voglia di crearsi uno spazio per essere ascoltata.
I primi due singoli, "Fiori sui balconi" e "A me ci pensi mai" dimostrano come tu abbia trovato una tua maniera originale di scrivere canzoni pop in italiano. Qual è la sfida più grande da questo punto di vista?
Credo che le mie melodie trovino compimento con la mia voce e siccome sono comunque condizionata dagli ascolti anglosassoni che faccio, la componente ritmica è importantissima. Con Carosello, l'etichetta per cui esce il mio ep, abbiamo discusso molto anche della collocazione che avrebbero avuto questi pezzi, visto che sono molto contaminati anche dall'hip hop. La sfida enorme per me è stata quella di scrivere canzoni che fossero moderne. Spesso il problema è l’incontro tra quel tipo di melodia e l’italiano. Inoltre siamo un paese con un'eredità letteraria potente, devi dare un certo peso alle parole quando scrivi le canzoni. Spesso sei molto condizionato dalla metrica, quindi per me è stato importante in questi anni elaborare un tipo di melodie che mi permettesse di esprimermi, pur non perdendo la freschezza.
Questo mi sembra un concetto chiave, quello dell'essere freschi e moderni. Spesso si accusa la musica da classifica di essere senza un'anima, legata solo a delle logiche commerciali del momento. Tu che hai fatto numeri vertiginosi scrivendo canzoni da classifica, cosa diresti per convincere gli ascoltatori più oltranzisti che non è sempre così?
Non posso convincerli del contrario ovviamente, però posso dire che non è vero che sia musica senza anima. Il punto è che quando un autore scrive delle canzoni, spesso non scrive precisamente per una persona. Scrive delle canzoni che in genere possano andare bene per qualcuno che non è se stesso e quindi può succedere che si noti un’omologazione tra le canzoni, perché si crea un prodotto "passepartout". Viceversa quando scrivi per te stesso tu non hai questa preoccupazione. In questo senso la musica cantautorale ha una dose di verità estrema, una reale libertà artistica. Quello che un autore scrive, insomma, è sempre sentito, e io ho tanta voglia di esprimermi.
Prima mi dicevi che da bambina stavi nel tuo mondo, e anche "Fiori sui balconi" mi sembra che parli di questo.
Questo primo singolo, “Fiori sui balconi”, è un po’ il manifesto dei primi sei pezzi che saranno nell'ep. Parlo di me a partire dal concetto di fuori luogo, fuori come i fiori sui balconi. È una tematica ricorrente nella mia vita perché oggi spesso è facile sentirsi fuori luogo in un mondo che ha degli standard altissimi, è tutto molto difficile da conquistare. Dall’altra parte la cosa che ci tengo a dire è che se non sei perfetto, vincente, se non sei smart, brillante, non devi comunque rinunciare a realizzare i tuoi sogni. Paradossalmente la chiave è nell'accettarsi cosi come si è, come è successo a me. Accettarsi ti permette di vivere più intensamente le cose e quindi di poterle raccontare.
Penso che il più grande pregio di un progetto come il tuo sia il fatto di fare da ponte tra un cantautorato percepito come autentico e un genere musicale in grado di arrivare a tantissime persone, di fare numeri enormi e di dominare le classifiche, restando sempre vero. Per scrivere una canzone che funzioni però ci vuole un po' di mestiere?
100% sì, ci vuole tanto mestiere. Devi stare attento a cercare qualcosa di già digerito per il pubblico mainstream. Oramai il pubblico è quello dei click, veloce, bisogna catturarlo in pochi istanti. Quando scrivo per altri sto attenta a tutti questi canoni. Amo profondamente tutto quello che scrivo, però so anche che deve essere venduto. Per le mie canzoni però ho avuto l’opportunità di non utilizzare questi canoni, sapendo che questo avrebbe comportato delle difficoltà, però questa sono io e voglio essere accettata nel mio essere fuori luogo.
Per rappresentare questa cosa nel video di "Fiori sui balconi" appari in pigiama, un bellissimo pigiama sia chiaro, ma pur sempre un pigiama.
Il pigiama è un po’ la metafora del fuori luogo. Cosa c’è di più fuori luogo che andare in giro per Londra in pigiama? Mi sono sempre sentita così, in pigiama in una città piena di luci e di gente vestita bene. Spesso la sensibilità nella nostra società viene interpretata come un sintomo di follia, e io sono sempre stata esattamente quel tipo di ragazzina, quella strana, quella che tu nella vita non ce la farai mai. Io non ci vedo niente di male nell’essere sensibile, strani, pazzi, poi "normale" è relativo. L’importante è che tu sia quello che sei perché quando ti metti una maschera non sei neanche più vivo.
Il fatto di esserti affidata a due produttori molto sul pezzo come Takagi & Ketra è stato d'aiuto per questo percorso di accettazione, per esprimere i tuoi sentimenti ma farli anche arrivare a tutti?
Loro sono stati la cosa che in assoluto mi ha segnata di più dal punto di vista musicale. Sono stata molto contaminata dalle loro idee, perché sonoveramente innovative. T&K hanno una visione della musica molto diversa dal solito, si prendono dei rischi. Mi hanno insegnato la curiosità verso modelli non ancora affermati in Italia, verso melodie che non esistono, verso cose nuove. Sono stati i primi ad anticipare questo tipo di gusto e per me sono stati, oltre un modello musicale che mi ha palesemente influenzata tantissimo, come una sorta di papà musicali.
Di solito come funziona, arrivi da loro con un brano e poi?
A volte porto una canzone che ho scritto a partire dal piano, di solito sono quelle più "ballatose", o viceversa loro hanno un beat su cui io costruisco una top line e da quella top line lavoro al testo.
Ti viene così, naturale?
La top line sì, la musica è sempre istintiva. L’approccio al testo invece è sempre un pelino più riflessivo perché ovviamente implica la logica, l’utilizzo delle parole che devono essere incatenate insieme; spesso magari io prendo degli appunti poi li appoggio su quelle melodie.
Mi piacerebbe sapere da dove arrivano questi appunti, da cosa trai l'ispirazione.
È strano, può venire da qualsiasi cosa: da un titolo che leggo sul giornale, da una maglietta di qualcuno per strada, che magari ti lascia quel piccolo concetto chiave da cui poi a cascata tiri giù un’altra serie di concetti. Poi leggo tanto, soprattutto poesie, prendo appunti, sottolineo, mi segno le cose, poi tutti quegli appunti insieme vanno a formare un testo. Altre volte ho bisogno di dire qualche cosa perché in quel momento sto provando proprio quella cosa e scrivo tutto di getto.
Il live com'è? Sei ospite del tour di Michele Bravi, è la prima volta che ti esibisci con le tue canzoni? Che effetto ti fa?
Sì e sono molto felice di essere in giro con Michelino, è un mio grande amico. Sono gasatissima, perché io penso che il fine della musica sia comunicare, quindi il massimo della comunicazione è quando hai l’interlocutore davanti a te, che ti guarda negli occhi, che reagisce a quello che dici, che salta, che ride, che sorride, che piange, che condivide le tue stesse emozioni!
Michele Bravi, per quanto abbia avuto un percorso controverso, è un artista venuto fuori da un talent. Tu hai un vocalità molto diversa da quello che siamo abituati a sentire nella musica pop italiana. Pensi che a un talent ti avrebbero capita con una voce così?
Secondo me il talent è uno strumento, come molti strumenti se usati bene possono dare un risultato, se usati male possono darne un altro. Io penso che per un cantautore confrontarsi con un repertorio di cover può essere deleterio. Se tu mi senti cantare Mina, capisci che sono intonata ma non so quanto capiresti realmente di me. Mi devi tenere molto legata alle mie canzoni, anche perché io non sono la cantante spaccata con la vocalità imponente, gioco molto nel mio mondo, nella mia particolarità. Poi il talent ti espone molto dal punto di vista visivo, e non tutti hanno un’attitudine a mettersi in gioco anche a livello televisivo. Come ti dicevo prima, un cantautore innanzitutto vuole esprimese se stesso, quindi penso che abbia bisogno di un percorso più lungo, di sperimentare la scrittura. Credo che oggi avrei anche potuto funzionare in un talent, ma non saprei reggerlo da un punto di vista emotivo.
Per concludere, c'è una canzone che hai dato ad altri che col senno di poi avresti preferito tenere per te?
No, assolutamente. L’unico brano che volevo tenere per me era “In radio” perché lo sentivo mio sia al livello di messaggio che a livello melodico, apparteneva alla mia vocalità. Quel pezzo, ti dico la verità, se lo avesse cantato qualcun altro ci sarei rimasta male. Per fortuna l'ho cantata con io con Marra.
Visto che l'hai nominato, mi dici un insegnamento che ti ha lasciato Marracash?
Ho imparato tante cose, innanzitutto che potevo cantare le mie canzoni. Quando ci siamo conosciuti facevo l’autore e non avevo neanche lontanamente immaginato la possibilità di cantare le mie canzoni, invece quando lui mi ha detto che quella canzone cantata da me aveva un sapore che non riusciva a trovare in qualcun altro, mi sono resa conto che la mia vocalità e le mie melodie creavano un'unione. È stato bellissimo condividere con lui un rapporto umano, perché è nata poi una bellissima amicizia. Marracash è una persona estremamente colta, profonda, che mi ha insegnato ad affacciarmi anche nel mondo dei live. Ha un’esperienza straordinaria, e io non posso che ringraziarlo all’infinito perché se sono qui oggi a parlarti delle mie canzoni lo devo anche un po’ a lui.
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L'articolo Federica Abbate - La rivincita dell'outsider di Chiara Longo è apparso su Rockit.it il 2017-11-09 10:50:00
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Grandissima