Fil Bo Riva è una delle più belle scoperte di questo 2016. Si è da poco concluso il suo ultimo tour europeo insieme a Joan as Police Woman, dove ha fatto anche tre date in Italia. L’abbiamo intervistato in occasione del suo concerto al Monk di Roma.
Sei di Roma ma hai vissuto molti anni a Dublino e poi ti sei trasferito a Berlino per studiare disegno industriale. Come sei finito a scrivere canzoni?
Quando mi sono trasferito a Berlino, quattro anni fa, ero assolutamente convinto del mio percorso di studi. Disegnare, inventare idee, sono tutte cose assolutamente creative. Quando scrivi un brano devi pensare alla melodia, alle parole, agli strumenti, non è poi così diverso da progettare e costruire un mobile.
È tanto che scrivi?
All’incirca da dieci anni. Quando ho iniziato non ero nemmeno consapevole di cosa fosse il songwriting, mi limitavo a buttare giù delle idee che registravo con un walkman mp3 da cinquanta euro. Poi, pian piano, ho iniziato a riconoscere un mio stile preciso.
Hai sempre scritto in inglese?
Fin da piccolo preferivo l’inglese all’italiano. Sarà perché da bambino ho trascorso molte estati in Germania e passavo il tempo leggendo i libri di Harry Potter in inglese o quelli dedicati ai Beatles, ne avrò più di cinquanta in casa. Mi ricordo che avevo dei quaderni dove appuntavo le mie idee ed erano tutte in inglese.
I Beatles sono il tuo maggiore punto di riferimento?
Prima sono arrivati Beatles, poi i Rolling Stones e i Doors. Da adolescente ascoltavo anche i Libertines, i Babyshambles, gli Strokes, i Kings Of Leon, i Kooks e altre band del periodo. Di musica italiana non ne ho mai ascoltata molta, soprattutto quando vivevo a Roma. L’ho poi scoperta qui a Berlino, frequento un gruppo di amici italiani e uno di questi a cena mette sempre Lucio Dalla. Ho iniziato ad approfondire i cantautori come Rino Gaetano e molti altri, soprattutto quelli degli anni ’60.
Spesso si dice che a Berlino non si resiste mai più di quattro anni. A te come va?
È la verità, infatti credo che breve mi stuferò. L’ho amata, la amo tutt’ora e probabilmente ci rimarrò ancora parecchio perché qui ho i miei amici e la mia musica, ma mi sto accorgendo che mi piacerebbe provare a cambiare posto. Berlino è bella in estate, o meglio, da maggio ad agosto c’è una temperatura decente ma continua ugualmente a piovere.
La città ti ha aiutato nella tua carriera da musicista?
Non te lo so dire con certezza ma, quasi sicuramente, se non fosse per Berlino oggi non farei il musicista. Qui ho conosciuto il mio manager e Felix, il chitarrista con cui suono, che poi è diventato anche uno dei miei migliori amici. Il suo essere così dura ti motiva molto: piove, tira vento e fa freddo, più che bere o essere creativo non puoi fare (ride).
Facciamo un passo indietro, a Dublino come ci eri finito?
Ho fatto solo il primo anno di liceo a Roma. Non andavo benissimo a scuola e un giorno mia madre mi sfida dicendo: "guarda che ti mandiamo in collegio". E io: "ok va bene". (ride)
I tuoi che lavori fanno?
Papà è ingegnere e mamma è casalinga. Dopo quell’estate ne abbiamo parlato più seriamente e abbiamo visitato alcuni collegi irlandesi sotto consiglio di un amico di famiglia. Abbiamo scelto questo collegio maschile diretto da monaci.
Che messa così…
Messa così non sembra una bella cosa ma ti assicuro che è stata una delle esperienze più positive e interessanti che abbia mai fatto. Impari molto stando in collegio, ero in mezzo a ragazzi di tutto il mondo: giapponesi, tedeschi, spagnoli, messicani, ecc. La maggior parte di loro faceva sport dalla mattina alla sera, io ho provato a fare un po’ di rugby ma non avevo il fisico. In compenso ho sviluppato l’amore per il pianoforte, c’era una sala prove bellissima e suonavo tutte le sere.
È vero che hai deciso di fare il musicista per colpa di una ragazza?
È vero. Come ti dicevo, ho sempre suonato ma la motivazione di dedicarmici seriamente è arrivata qualche anno fa quando la mia ex ragazza mi ha lasciato. Non dovevo più telefonarle e avevo molto tempo libero. Mi sono trovato con più tempo per me stesso e ho scritto più canzoni.
Sembra la risposta di un robot.
Non so spiegartelo (sorride). Forse è perché si trattava del mio primo amore forte, quello vero. Quando mi sono trovato da solo sono stato spinto ad usare il mio tempo in altro modo.
Sbaglio a dire che si sente un certo distacco nelle tue canzoni?
Non ci ho mai pensato. So di essere una persona a cui non piace molto parlare delle cose private e dei suoi problemi. Può darsi che, istintivamente, quando canto tenda a nascondere le emozioni che provo. Se ti riferisci ai testi, invece, quello è un gioco: è divertente nascondere gli argomenti o indizi che conosci solo te e che gli altri possono solo fraintendere.
Di cosa parla “Killer queen”?
Parla della mia ex ragazza e di cose che avrei voluto dirle dopo che mi ha lasciato. Parla di ricordi, di paure e di pensieri che uno può avere quando ci si trova in una situazione del genere. Ti potrei dire la stessa cosa per “Falling", o per altre canzoni ancora. Sono idee molto semplici che, magari, ho descritto in un modo più complicato di quello che sono in realtà.
Cioè?
Tutti i miei testi li puoi spiegare come spiegheresti i testi dei Beatles: parlano di amore, di essere lasciati e di poco altro. Un artista cerca sempre di “impacchettare” i suoi problemi in modo che suonino meglio o che sembrino più importanti, in realtà sono cose comuni che hanno vissuto tutti.
La cosa più bella dello scrivere canzoni qual è?
Mi piace scoprire il risultato finale, vedere che l’idea che avevo in mente ora si è concretizzata davvero. Durante lo sviluppo di una canzone molte idee possono cambiare, la cosa più bella è registrare un brano e, dopo mesi di lavoro, avere su nastro la sua versione definitiva. Non è un processo così immediato, te lo assicuro.
Ci hai messo molto prima di pubblicare i tuoi primi brani?
Mi ci sono voluti molti mesi prima di decidermi a pubblicare “Eye Look”, il mio primo brano su SoundCloud. Poi, una volta online, ci ho preso gusto: ho iniziato farla girare tra i miei amici e l’ho postata su diversi gruppi Facebook. Dopo cinque giorni la canzone aveva già più di cinquemila play, non che sia un numero così grande, è vero, ma per me ai tempi era una soddisfazione enorme.
Sei timido?
Mio fratello dice che da quando faccio il musicista sono diventato più aperto e disponibile. Sicuramente questo lavoro ti obbliga a fare molto esercizio, ma stare sul palco è una delle cose che mi fa più paura: cresce l’adrenalina, aumenta lo stress e rischio di andare nel panico.
E allora perché lo fai?
È un buon modo per mettersi alla prova. Io e Felix abbiamo sempre avuto paura di trovarci di fronte ad un pubblico vero e, per motivarci, abbiamo iniziato a suonare per strada. È un buon metodo perché ti trovi in mezzo a gente che normalmente ti ignora e, così, impari a tirare fuori la voce, che è molto più difficile del semplice suonare la chitarra.
In tour come va?
Stare in tour per tanto tempo è molto stressante. Ho bisogno dei miei spazi, dei miei mobili, del mio letto, voglio sentirmi a casa. I tempi sono sempre molto serrati: parti alle 10 del mattino, fai 8 ore di viaggio e, appena scendi dal furgone, devi già fare il soundcheck. Dopo 10 giorni di fila dove dormi in media cinque ore per notte e per cena ti mangi un sandwich e una mela, inizi a pensare che la vita del musicista non sia poi così bella.
Addirittura.
Non vorrei sembrare esagerato, ora che abbiamo finito le date in Inghilterra tutto va meglio. Il pubblico inglese è splendido e gli organizzatori sono ottimi professionisti ma hanno un modo molto freddo di trattare gli artisti. Il feeling è certamente diverso, ad esempio, rispetto a quando facciamo concerti in Germania o da come siamo stati accolti oggi alla Rai. In Europa sai che dopo il check avrai una cena calda che ti aspetta, non importa che la offra il locale o che tu debba pagarla, in UK invece non c’era mai niente, al massimo due o tre mele o un pacchetto di patatine.
Di solito cosa ascoltate in furgone?
Ultimamente ascoltiamo “Blonde” di Frank Ocean, è davvero bello, è poi ci piace molto anche l’ultimo di Bon Iver.
Ti piace il pop?
Diciamo che mi tengo informato. Molti nomi li vedi continuamente su Facebook o li senti in radio, è normale essere al corrente di cosa è appena uscito. Non so se è una delle mie fonti di ispirazione ma penso sia automatico subire l’influenza della musica più attuale. Drake o Frank Ocean hanno fatto delle canzoni trap bellissime ma non so se scriverei mai qualcosa di simile.
Il pezzi del tuo ep sono tutti potenziali singoli.
È vero, ma non credo sia un aspetto che puoi pianificare. Scrivo cose molto semplici, mi viene naturale. È lì che si sente davvero l’influenza dei Beatles: almeno per i primi cinque-sei album hanno scritto canzoni semplicissime, molto orecchiabili, ma erano tutti singoli.
Alla PIAS come ci sei arrivato?
Grazie al mio manager. L’ho conosciuto in un bar alle sei di mattina, eravamo tutti e due abbastanza ubriachi. Dopo aver parlato tutta la sera, solo prima di salutarci ho capito che lavoro faceva e, appena tornato a casa, gli ho mandato un link di SoundCloud. Poco dopo abbiamo iniziato a lavorare insieme. Non sono uno che ama molto uscire la sera, diciamo che quella volta ne è valsa la pena (ride).
Avete già parlato dell’album?
È tutto ancora da definire. Sto lavorando ad un progetto completo che comprenda tutto, dalle canzoni, all’artwork del disco, alle locandine dei concerti fino ai video che potremmo realizzare. Quando avrò deciso tutte queste cose vedremo a chi proporle.
Se avessi un budget illimitato con quali produttori ti piacerebbe lavorare?
In questo momento sceglierei Danger Mouse o Mark Ronson. Sono scelte piuttosto classiche, me ne rendo conto, ma vorrei loro.
Tra cinque anni dove ti vedi?
È difficile dirlo. Dipende molto da come va questo tour e da cosa accadrà il prossimo anno. Mi piacerebbe vedermi in studio, la cosa che mi piace di più è scrivere canzoni. Sono sicuro che scriverò ancora molta musica, tutto quello che poi gli si svilupperà attorno non lo posso prevedere.
Per quanto sia strano chiederlo a un ragazzo di 24 anni, cosa consiglieresti ad un musicista giovane che vuole fare questo lavoro?
Scrivere tanto. Devi produrre più che puoi, fino a quando la canzone ti sembra talmente buona che hai il coraggio di pubblicarla. Capisci che quel brano rappresenta bene il livello a cui sei arrivato quando ne sei soddisfatto e non ha più bisogno del parere di nessun altro, non importa che sia il tuo manager, tuo fratello o il tuo miglior amico. Anche se ti dicono che assomigli a qualcun altro, a te, a quel punto, non interessa più. È molto importante riconoscere sé stessi, è bello quanto te ne rendi conto.
Dai molto peso al giudizio degli altri?
Non particolarmente, soprattutto negli ultimi tempi che ho molto da fare e sono focalizzato sul materiale nuovo. Ogni feedback è importante per crescere ma, al momento, non gli do così peso. Se qualcuno oggi commenta una mia canzone mi interessa poco, fa già parte del passato. Sono più concentrato sul futuro.
---
L'articolo Fil Bo Riva - Vale la pena uscire la sera. Storia di un musicista timido che ha girato il mondo di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2016-12-05 09:58:00
COMMENTI