“Le promesse del mondo” è l’ultima fatica discografica di Flavio Giurato. Un fiume di parole immane, una tensione narrativa fortissima. E sullo sfondo, il tema dell’immigrazione. Il cantautore romano parla di tutto questo e di molto altro in questa intervista, nel corso della quale spiega il perché di molte scelte, non rinunciando a qualche risposta in linea con il personaggio. La freccia è diversa dall’arco e il bersaglio si muove continuamente, ma Flavio Giurato rimane sempre Flavio Giurato.
In “Marco Polo” dicevi, o meglio, facevi dire al Gran Khan, che la freccia è diversa dall’arco e che il bersaglio si muove continuamente. La realizzazione di “Le promesse del mondo” com’è stata? Quanto hai dovuto lavorare per centrare il bersaglio?
Il bersaglio si muove continuamente, ma a volte è il banco di uno studio di registrazione che invece resta fermo dove l’hanno messo. Noi siamo stati in sala dalle tre del pomeriggio fino alle tre di notte, questa volta a Roma, venivamo da una stagione di concerti dal vivo e per suonare dal vivo non facciamo prove. Non abbiamo fatto nessuna prova nemmeno in studio, riservando le emozioni della prima volta per la registrazione. Come per “La scomparsa di Majorana” niente metronomo, come nei concerti abbiamo suonato tutti insieme seguendo le mie mani, i miei accordi sulla tastiera per le variazioni di armonie e tempi, “di cuore” per le dinamiche. Nessuna parte scritta, niente fogli e leggii. Federico Zanetti al basso, Daniele Ciucci Giuliani alle percussioni e batteria, io stesso con le stesse chitarre che uso dal vivo. Il valore aggiunto è stato Mattia Candeloro, il sound engineer che, visto che il banco continuava a restare fermo anche senza di lui, è andato in sala a suonare le chitarre elettriche. Abbiamo lavorato tanto e bene in poco tempo. “La scomparsa di Majorana” è stato prodotto da Piero Tievoli, che ha una storia alle spalle leggendaria e molto evocativa (anche le macchine dello studio subiscono il suo carisma), “Le promesse del mondo” invece è stato prodotto da Guido Celli, alla sua prima esperienza in sala.
Come mai ti sei affidato a un esordiente in sala di registrazione?
Guido Celli nasce come poeta, aveva partecipato al libro edito nel 2004 dalla No Reply “Il tuffatore – racconti e opinioni su Flavio Giurato” con il racconto “Mauro”, ed è anche stato un giocatore di baseball multidimensionale. Non ci sono parole sulla qualità del lavoro che ha messo in campo, ha cantato (in “Ipocrisia” e nella title-track, nda) e lavorato come un professionista consumato anche se non aveva mai messo piede in sala di registrazione. Confrontarsi con lui è stato importante, per il suo orecchio in regia, per le parti da togliere o aggiungere.
È cambiato il tuo metodo di lavoro dai tempi di “La scomparsa di Majorana”?
Il mio metodo di lavoro è sempre lo stesso: nella stanza con gli strumenti, in terrazzo per chiudere i pezzi, con la memoria e il gesto. Tutto questo allo stesso indirizzo dal primo vinile all’ultimo cd.
Sei tornato a sfruttare i suoni elettrici. Quali sono state le circostanze che ti hanno portato ad adottare una scelta simile?
Mi dispiace, ma non c’è una scelta: i pezzi me lo dicono subito quale suono vogliono avere.
Quello che si nota di più in questo album è che sei arrivato in sala di registrazione con una certa tensione narrativa, forse maggiore che in passato, come se avessi voluto, intenzionalmente, mettere insieme parole su parole senza soluzione di continuità. E poi c’è un altro aspetto: il pezzo più breve dura 5'20’’, ma siamo quasi sempre tra i 7’ e i 9’…
La tensione narrativa è stata forse sorretta dall’urgenza di alcune cose da dire, ma c’è anche molta tensione narrativa in “Agua mineral”, e ci ho messo sessant’anni per scriverla! La lunghezza dei pezzi è frutto della libertà digitale, tutti e tre i miei cd, per essere pubblicati in vinile, avrebbero bisogno di un album doppio.
Un concept album sull’immigrazione ma, come da abitudine, cerchi di spaziare (e spiazzare) dirigendoti verso altre direzioni. Forse spieghi tutto quando in “Soundcheck” dici che “il fiume scorre”, che è un po’ come dire che la realtà è in continua evoluzione…
Sì, è un concept album sulle migrazioni, la realtà è in continua mutazione perché il bersaglio si muove continuamente.
Ricordo di aver ascoltato “Soundcheck” già nel 2015 al MI AMI, come mai lo hai scelto come primo singolo dell’album?
“Soundcheck” e “I lupi” sono stati i primi pezzi suonati con i giovani musicisti che hanno la benevolenza di darmi retta, credo che non ci possa essere un titolo migliore per cominciare. Si tratta di un pezzo difficile come struttura, in questi due anni ci sono state alcune aggiunte, ci abbiamo lavorato parecchio.
Anche “Digos” l’hai scritta un po’ di tempo fa. Una canzone che ha avuto una genesi particolare, puoi raccontarcela?
“Digos” è un dossier riservato, preferisco non parlarne. Da alcuni critici, come Paolo Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz, viene considerato come il pezzo più bello che abbia mai scritto e sicuramente importante per la canzone d'autore italiana. Qualche anno fa ero a Lecce per un concerto e chi mi ospitava mi disse: “Adesso ti faccio vedere la Digos”. C’erano realmente degli agenti della Digos al mio concerto, ricordo che rimasi molto colpito. Qualche anno dopo, Luigi Manconi mi invitò a una delle sue disperate manifestazioni per la sofferenza nelle carceri. Eravamo all'aperto a Roma a piazza Farnese, al momento della mia esibizione il numero dei partecipanti era veramente esiguo e sono stato io a dire “Cazzo!... ma c’è più Digos che pubblico!”. Un’altra volta ero con Guido Celli e avevamo un appuntamento a piazza Esedra a Roma, ci siamo ritrovati nel mezzo di una manifestazione con folla immensa di cartelli e proteste, a quel tempo avevo una macchina insolita, dall’attitudine indecifrabile, un top di gamma della Nissan, una grande berlina quasi unica in tutta la città. Nell’attesa l’abbiamo spostata ai margini della manifestazione e tutti e due abbiamo contemporaneamente pensato: “Certo che marchiamo veramente Digos”. In questo supportati dalla deferenza degli autisti di pullman, che non osavano sostarci accanto. Davanti a casa mia, a Monte Sacro, c’è stato per anni il Consolato tunisino. Un giorno il Consolato venne occupato da dei manifestanti che protestavano per questioni interne a me ignote. Nel giro di pochi minuti nella mia strada c’era tutta la Digos di Roma e io rimasi affascinato dalla assoluta impossibilità di potere riconoscere gli agenti se visti in altro contesto. Questa è tutta la mia frequentazione con la Divisione, la lascio a verbale con un’ultima aggiunta: la canzone mi offre la possibilità di girare un video con due personaggi che parlano di notte su una macchina ferma, un classico del cinema che mi ha sempre affascinato (e che vedremo tra un po’, ndr).
Spesso i tuoi testi hanno bisogno di spiegazioni. Parto da “In mezzo al cammino”, una canzone su Papa Francesco.
Il pezzo su Pope Francis è totalmente sincero e partecipato, ma non è un pezzo sul Papa, è un pezzo sulla condizione femminile all’interno della Chiesa cattolica. Nell’estensione concept non puoi fare un lavoro sulle migrazioni senza parlare di Francesco.
E la già menzionata “Agua mineral”, con i suoi ritmi sudamericani? Ha forse un aggancio con l’attività diplomatica di tuo padre? Cosa ti ha colpito di questa bottiglia?
Sicuramente sì. All’età di 7 anni sono andato con la mia famiglia a Buenos Aires per motivi di lavoro di mio padre e ho visto la bottiglia di acqua minerale che vi racconto. Ricordo di aver fatto un viaggio in nave lunghissimo e, appena arrivato, di aver visto quella bottiglia. Non c’è una spiegazione razionale, più che altro è una questione di cuore.
Che fine ha fatto l’idea di registrare un disco in inglese? Avrebbe dovuto chiamarsi “Recent happenings” e credo che “Snuff song” sia una sua scheggia: idea abortita o solo rimandata?
“Snuff song” è la migrazione più estrema sotto la canna del fucile, è una canzone che è un po’ come un giro di boa all’interno dell’album, entra a panino e chi segue il testo e lo traduce in italiano si accorgerà che è in carattere con “Le promesse del mondo”. Con “Recent happenings” entrerò in sala nel 2018, credo che per la prossima estate sarà pronto, almeno come registrazione.
Poi canti in castigliano, in napoletano…
Il cambio di suono delle parole è afrodisiaco, ogni stregone che si rispetti si rivolge alla folla in un linguaggio diverso a volte incomprensibile per incutere curiosità e rispetto.
Roma compare sempre tra i testi delle tue canzoni, questa volta la immergi nei giorni della Resistenza e la canti in “Ponte Salario”, una storia di Partigiani.
Il giorno della sua elezione a Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo discorso di accettazione del mandato, ha fatto il nome di Ugo Forno (uno dei Partigiani protagonisti del brano, ndr), nome sconosciuto quasi a tutti ma non a me per motivi di concomitanza territoriale. Il fascino discreto del Quirinale mi ha convinto a scrivere la canzone. È una grande soddisfazione per me ricevere dei ringraziamenti da chi è venuto a conoscere la storia di Ugo Forno per via di “Ponte Salario”.
Nel disco hai fatto cantare parte della tua famiglia: Maria Bianca, Charline, manca solo il “giovane Thomas”...
Precettare la famiglia per i cori è per me un onore e un privilegio. Il giovane Thomas, al momento delle registrazioni, era in Ucraina per un film.
Si nota una mancanza, quella di Piero Tievoli…
Per “La scomparsa di Majorana” ho aspettato Piero Tievoli per un anno secco da una primavera a una primavera, la sua liuteria esoterica “Aegilium” lo assorbe completamente.
Il disco esce ancora una volta per la Entry, la tua etichetta discografica. Hai avuto contatti con altre label? Se sì, come mai non se n’è fatto nulla?
Nessun contatto concreto, solo voci, anche l’interessamento di una major, ma non tornerei a lavorare per una multinazionale: la dimensione micro imprenditoriale è esaltante.
Hai libertà di azione, e non mi sembra poco…
Esatto, non devo rendere conto a nessuno, se non a Celli, quel che esce da qui arriva direttamente a chi ascolta. E poi le major ti lasciano le briciole, piuttosto che a 3 euro a copia preferisco fare il maestro della mia bottega artigianale. Di “La scomparsa di Majorana” ho venduto 1000 copie, a quanto sembra una cifra di tutto rispetto.
La Entry continuerà a pubblicherà solo cose tue o è in programma anche qualcosa di altro?
Ci ho provato con delle band di punk romano, tutte cose molto belle, ma poi una volta il chitarrista non arrivava in sala di registrazione, il bassista se ne scappava in Messico, un altro finiva in galera…
Puoi parlare anche della copertina?
La copertina è di Poki e Alessandra Rigano, due grafici e superartisti catanesi, finalmente liberi di fare quello che volevano. Io ho soltanto consigliato la parte in plastica perché, sinceramente, è più comoda.
23 anni tra il terzo e il quarto album, 7 tra il “Il manuale del cantautore” e “La scomparsa di Majorana”, ora torni solo dopo 2 anni di attesa: hai forse trovato la continuità giusta?
Ho soltanto stabilito il mio record di non mancanza.
È probabile che, anche dopo questo nuovo lavoro, il tuo status rimarrà nell’alveo degli “artisti di culto”. Come ti trovi all’interno di questa definizione? È un abito che comincia a starti stretto?
Credo che “Le promesse del mondo” sia il mio lavoro con più possibilità di arrivare oltre la nicchia. L’ho capito dalle nostre reazioni in fase di montaggio dei video, dal fatto che ci svegliavamo la mattina con la nostra musica in testa. Senza contare che gli argomenti che tocchiamo nell’album offrono più possibilità di comunicazione.
In questi ultimi due anni hai avuto l’occasione di dividere il palco con alcuni nomi della nuova generazione della musica italiana come Vasco Brondi, Lucio Corsi, Emanuele Curandero… Quale idea ti sei fatto della nuova scena indipendente tricolore?
Ho conosciuto e parlato a lungo anche con Calcutta, i Camillas hanno detto a mia figlia Charlene: “Anche noi siamo figli di tuo padre”… La nuova scena mi incanta, è bello sentire della musica e delle parole che mi piacciono, l’ultimo pezzo di Vasco Brondi avrei voluto scriverlo io, lo stesso per quel che riguarda “L’Isis a piazza Navona” di Curandero.
I ragazzi ti chiamano maestro, suppongo.
Sì, certo. Altrimenti li caccio dalla bottega!
C’è qualcuno tra i tuoi giovani colleghi che ti somiglia?
Non lo so, forse Lucio Corsi, un ragazzino molto bravo. Non è questione di canzoni che somigliano alle mie, più che altro si tratta di trasmissione di emozioni.
C’è speranza che un giorno, lontano o vicino che sia, potremo vederti suonare dal vivo con una band vera e propria?
Ci proviamo questa volta... è sicuramente una delle promesse del mondo vedermi con un organico più nutrito.
Che fine ha fatto l’idea di pubblicare il libro su “Marco Polo”, il tuo terzo album?
Forse lo pubblicherà l’anno prossimo Giuliano Ciao, un freelancer di Napoli che ha già pubblicato degli articoli su di me in rete.
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L'articolo Flavio Giurato: ascolta in anteprima “Le promesse del mondo” e leggi l'intervista di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2017-10-04 09:34:00
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